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Sintetizzatori Vintage Italiani

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Eko – gli anni ’80

By Amplificatori Vintage Italiani, Bassi Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Oliviero Pigini, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Siamo giunti al termine dell'epopea Eko, un'avventura che corre lungo tre densissimi decenni e che vede la sua conclusione con le serie Master, Performance e SA, al tempo stesso punta di diamante e canto del cigno dello storico marchio.

Lorenzo

La fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 avevano visto la nascita di grandissimi strumenti interamente in massello e con tavola armonica in abete Val di Fiemme, come la Alborada e la Giuliani per le chitarre classiche e la Korral Special e la Chetro per le acustiche.

Della Giuliani, il catalogo del 1981 citava:

“Chitarra da concerto costruita solo su ordinazione. Strumento eccezionale sotto tutti i punti di vista etc. E segue: “La Giuliani è l’unica chitarra oggi reperibile per la quale il fabbricante può garantire il livello sia di potenza che di qualità del suono. Soltanto gli strumenti che superano le severissime prove di collaudo finale dell’ E.A.R.L. (LABORATORIO DEI RICERCHE ACUSTICHE) ottengono infatti il nome Giuliani.”

Sul versante elettrico erano nati gli strumenti in monoblocco, sia bassi che chitarre, come la M24, la M20, la CX7 ed i bassi BX7 e MB21. L’hardware era in ottone massiccio e veniva prodotto nelle officine interne assieme agli ottimi pick-up (antironzio in esaferrito di bario ed in alnico 5° americano – speciale lega di alluminio, nickel, cromo, cobalto e rame) che venivano offerti come alternativa ai DiMarzio.

Articolo su Strumenti Musicali 1981 – clicca sulle immagini per leggere

Ci fu anche una piccolissima produzione di DM, ovvero le versioni doppio manico della M24 che furono create a 10 (chitarra e basso), 16 (chitarra 12 corde e basso) e 18 corde (manico 6 e manico 12).
Altri nuovi modelli furono la C33 e la C44 con il corpo in acero massiccio dello spessore di 42 mm e manico sempre acero.

Sempre nel periodo fine anni 70 inizi anni 80 nacque anche la famosa M33 Short Gun, conosciuta comunemente come “Fuciletto” per la strana forma del corpo (sempre in massello di Val di Fiemme) a forma di calcio di fucile.
In quegli anni iniziò anche una collaborazione con la Camac per il mercato tedesco.

Unibody M24

Unibody M24 e SC800 nel film “In viaggio con papà”

Unibody M20

Unibody DM 10, 16 e 18

Camac

Con la stessa tecnica nacque anche la C11, ispirata alla SG di Gibson. Anche la serie dei bassi si rinnovò con una nuova serie: a fianco alle chitarre C01 e C02 fu creato il B02 con le stesse tecniche costruttive e manico a scala corta.

Per i bassi scala lunga stile Fender nacquero il B55 ed il B55S, sempre con il corpo abete Val di Fiemme con finiture Natural, Cherry e Walnut (ordinabile anche fretless).

Discorso a parte fu la rara C22, una bella Les Paul molto leggera ed estremamente suonabile, costruita con un legno particolare di nome Jelutong. Ne furono fatte talmente poche che è quasi irreperibile e chi ne ha un esemplare lo tiene o se lo fa pagare caro.

Anche per queste linee era prevista la scelta tra pickup Eko o DiMarzio (la lettera S finale nella sigla significava che lo strumento montava i DiMarzio).

C11

C02

B55

CX7 Artist

C22

Il primo sistema di elettrificazione delle acustiche fu lo Shadow piezoelettrico (i migliori pickup sul mercato di allora) e di conseguenza nacque anche l’esigenza di avere un amplificatore da abbinare allo scopo. Al reparto della sezione amplificatori, il cui responsabile era Ferdinando Canale (poi fondatore della SR-Tecnology e della Sound Engineering), crearono il meraviglioso ed eccellente SC800, con cabinet in Val di Fiemme, del quale vennero prodotti due lotti da 50 esemplari.

Nei primi anni 80, per quanto riguarda la produzione delle chitarre, la sezione delle classiche vide, oltre alle già esistenti Alborada e Giuliani, la nascita delle Conservatorio 51 e Conservatorio 53, entrambe con tavola armonica in Abete Val di Fiemme massello e la Carulli tutta completamente in massello.

Per le acustiche, dal 1983 anche la Eldorado acquistò la tavola armonica in massello di Val di Fiemme e nacque il modello D100FP sempre con tavola in massello in pregiato Val di Fiemme.
Nel 1984 Korral e Chetro rimasero in produzione, scomparve la Ranger e subentrò la AW nelle versioni a 6 e 12 corde con amplificazione elettromagnetica al manico oppure rilevatore piezoelettrico al ponte.

La linea delle acustiche

Il modello di punta della chitarra classica divenne la TK Classic, a cassa bassa interamente in massello e con sistema di preamplificazione, della quale furono costruiti solamente una trentina di pezzi.
La Tk venne introdotta anche in versione Acoustic, sempre a cassa bassa e con preamplificazione (modello molto simile alla Takamine Ef391MR).

Ai tempi i più grandi musicisti italiani utilizzavano gli strumenti acustici EKO. Le Korral e Chetro erano comunemente suonate da Guccini, Franco Mussida, Teresa De Sio, Stefano Rosso, Ricchi e Poveri, Mauro Pagani, Mario Castelnuovo, Marco Ferradini, Lucio Violino Fabbri, Claudio Baglioni (anche con SC800), Ivan Graziani, Goran Kuzminac, Ricky Gianco, Fausto Leali, Francis Kuipers, Edoardo Bennato.

TK Classic

Per gli strumenti elettrici, nel 1983 arrivarono la M6 e la M7 che montavano Pickup “Magnetics”, entrambe attive, e i bassi MB9 e MB10, anch’essi con Pickup “Magnetics”.

Nel 1984 vide la luce la serie Master con i modelli M4, M4 e M4S Electroacoustic (presentate alla fiera di Milano appena prima del fallimento), la M5, la M7 e la M7 Deluxe. Il sistema Electroacoustic era un brevetto EKO che prevedeva un pickup piezoelettrico con 6 sellette separate inserite nel ponticello di una chitarra elettrica.

Nacque anche la serie Performance con le chitarre P100, P100 DeLuxe, P200, P200 DeLuxe. Tali modelli avevano corpo in ontano massello e manico in acero. La P100 Gipsy era come la P100 ma aveva un amplificatore incorporato con altoparlante tra il pick-up al ponte ed il manico.
I bassi della serie performance erano i B25 ed i B55.

M4S

P100

M4 Electroacustic

M5 (foto di Atraz)

M7 DeLuxe

Per venire incontro alle esigenze di un pubblico giovane rockettaro nacque anche la serie Tunderbolt, con il modello T40 (pick-up humbucker DiMarzio al ponte) e la T50 con due pick-up e nuovo design del corpo.

Anche le semiacustiche furono rinnovate, con i modelli SA29, SA39, SA39 Custom. I modelli di punta erano la SA396 e la SA396 Custom, entrambe con cassa da 60 mm e pick-up Attila Zoller oppure DiMarzio DP106.

Nel 1984 cominciarono a venire al pettine tutti i nodi dei problemi finanziari dell’azienda che, di conseguenza, chiuse nel 1985. L’istanza di fallimento è in data 21 maggio 1986 a cui segue una vendita gestita dal curatore fallimentare e così, tristemente, finisce la storia della VERA EKO.

Thunderbolt

Le semiacustiche SA

SA39

Ekoisti anni ’80

Franco Cerri con M-24

Ivan Graziani con Korral

Ivan Graziani con M-55 “Fuciletto”

Edoardo Bennato con Ranger 12 Electra

Edoardo Bennato con Korral e Lucio Bardi con M-24

Edoardo Bennato prova la sua E85 nella sala prove Eko

Franco Mussida (PFM) con DM-18

Patrick Djivas con MB-21

Patrick Djivas e Franco Mussida

Flavio Premoli (PFM) con Ekosynth P15

Rino Gaetano con un raro Bouzouki Eko

I Fratelli Balestra (Rocking Horse, Superobots) con le Crossbow (balestra, appunto), derivazioni della M33 “Fuciletto” scherzosamente create per loro dalla Eko

Bobby Solo con M-24

La Bottega Dell’Arte con una Fuciletto e un mini-ampli Polyphemus

Bernardo Lanzetti (Acqua Fragile – PFM) con una M-24

Donatella Rettore con una M-33 decorata con il Sol Levante

CLICCA IL PULSANTE E GUARDA!

Donatella Rettore – “Oblio” con CX-7 Artist  (alias “la Stratokiller”), M-24 e BX-7 

I Knack con le Fuciletto

Shane McGowan dei Pogues con una Ranger 12

Andy Wickett (ex Duran Duran) con Ranger 12

Ricchi e Poveri con Chetro e Korral

Vasco Rossi con Ranger 12 Electra

Roberto Puleo e CX-7 Artist “Stratokiller” con Riccardo Fogli

Ekoisti oggi

Mauro Pagani (PFM) con Bouzouki e Chetro

Fausto Leali e una delle primissime Korral

Giorgio Zito (Edoardo Bennato) con Ranger 12 Electra

Claudio Prosperini (Stradaperta – Venditti) con una rara M-24 12

Teresa De Sio con Korral

Francis Kuipers con la sua Korral Special autografa

Chiara Ciavello con Florentine single cutaway

Cristiano De Andrè con Bouzouki

Federico Poggipollini (Ligabue – Litfiba) con una 500

Saturnino con B02

De Gregori con 100/M

Johnny Winter con Ranger 12

Phil Rocker con 500

Sean Lennon con Ekomaster 400

Salutiamo e ringraziamo l’amico Julien D’Escargot per gentilissima e fondamentale consulenza e per l’enorme quantità di materiale messo a disposizione: senza di lui l’intero articolo Eko non sarebbe stato possibile.

Parte del materiale è stata reperita dal gruppo FB “Eko vintage guitars”, dove ex personale Eko e appassionati condividono immagini in loro possesso o trovate sul web. Un sincero ringraziamento va quindi anche a tutti loro.

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EKO – Gli anni ’70

By Amplificatori Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Effetti Vintage Italiani, Pedali VIntage Italiani, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Iniziano gli anni 70 e la Eko guidata da Augusto Pierdominici si prepara ad affrontare con grinta il nuovo decennio, con nuovi prodotti all'avanguardia sia dal nuovo reparto Ekoelettronica che da quello Chitarre di Remo Serrangeli.

Lorenzo

Mentre inizialmente la fabbricazione di organi Ekosonic e amplificatori era affidata alla Galanti e nel ‘65 a Cremonini (che produsse Viscount, Duke, Herald e Valet ma anche i pick-up per le chitarre Eko e Vox che precedentemente uscivano dalla CRB), nel 1968 la Eko fondò la EME con la Danieli Milano, la JMI e la Thomas e prese in carico la produzione degli strumenti elettronici a nome Eko, mentre i mobili che contenevano le parti elettroniche venivano fabbricati in due reparti gestiti dalla sezione legno di Remo Serrangeli, che continuava ad occuparsi di chitarre, officina e manutenzioni.

Ekoelettronica

Dopo la progettazione del bellissimo modello Auriga chitarra e basso, Augusto Pierdominici passa a guidare la Eko a dirigere la produzione della neonata divisione di progettazione elettronica della Eko, che vedrà al comando del reparto progettazione e costi Felice Labianca e che partì alla grande nel ‘72 con la nascita dell’incredibile ComputeRythm.

La Eko ComputeRythm è la prima batteria elettronica interamente programmabile della storia, un piccolo mostro che ha fatto la storia grazie ai dischi di personaggi come Tangerine Dream, Manuel Gottsching (che la comprò proprio da Chris Franke dei TD) e Jean-Michel Jarre (da Oxygene), il quale ancora oggi ne fa uso, tessendone lodi appassionate.

Jean Michel Jarre con Eko ComputeRythm

Eko ComputeRythm, prima drum machine interamente programmabile della storia

Manuel Göttsching (Ash Ra Tempel) con Eko ComputeRythm

La splendida creatura di Giuseppe Censori e Aldo Paci aveva addirittura la possibilità di salvare i preset su schede traforate e la sua estetica così peculiare la portò ad essere addirittura protagonista delle scenografie di alcuni film di fantascienza del periodo.

Uno dei pochi esemplari ancora rintracciabili è oggi di proprietà del Museo del Synth Marchigiano e Italiano.

Hainback e la Eko ComputeRythm

In seguito nasceranno, oltre a tutta una serie di organi casa di varie fasce di prezzo, la celeberrima serie degli organi Tiger (un successo da 55.000 esemplari prodotti in tre anni), il piano elettrico Sensor, le pedaliere per bassi K1, K2 e K3 e nel ‘74 il synth monofonico Ekosynth e lo Stradivarius, synth di violini.

Eko Tiger 61

Il New Tiger Duo su progetto di Fabio Conti: la tastiera superiore dell’organo scorre su binari interni e si chiude fino a diventare una valigia.

Ekosynth

Eko Stradivarius

Fu creata anche una linea di pedali effetto come lo wha Strepitoso, il simulatore di rotary speaker Sound e il Mitico Multitone, uno dei primissimi pedali multieffetto analogici (volume, wha, bass/treble booster, distorsore e repeat percussion), che pare siano nati addirittura nel 1969.

Multitone

Eko Multitone

Strepitoso wha

Pedali Ekosound, Multitone e pedaliera bassi Special o K1

Nel 1975 la EME passerà di proprietà alla Farfisa e gli ultimi prodotti del reparto elettronico Eko saranno nel ‘79 il P 15, monosynth analogico a controllo digitale con preset, e l’Ekopiano ad inizi ‘80.

Ekosynth P 15

Nel frattempo, al reparto chitarre

Mentre il reparto di Pierdominci faceva furore, Serrangeli non stava certo a guardare e, tra il ‘74 e il 75 riprese lo studio tecnico della fisica degli strumenti a corda e delle forze agenti su di esso. A questo scopo acquistò lo stesso complesso macchinario Bruel Kier che veniva utilizzato all’università di Cremona per tale scopo e diede inizio alla produzione della Alborada.

Da queste esperienze, tre anni dopo, nacque la Giuliani, autentico modello di punta (anch’essa in massello e tavola in pregiatissimo abete Val di Fiemme), che veniva fornita con attestazione della curva di risposta, realizzata proprio con quella apparecchiatura. Tale documento dava la possibilita al cliente di tornare dopo anni in fabbrica e ripetere il test per controllare la maturazione dei legni e il conseguente aumento di volume dello strumento.

Chetro e Korral

Serrangeli e De Carolis con la Chetro

Le Chetro di De Carolis

Nello stesso periodo cominciò la progettazione delle prime acustiche professionali e, in collaborazione con John Huber, liutaio e all’epoca area manager della Martin in Europa, progettò la Korral Special, anch’essa interamente in massello e con top solido in Val Di Fiemme e tastiera in ebano. Da questa nascerà la Chetro, la prima delle quali fu un esemplare a 9 corde creato per Ettore de Carolis (Chetro è appunto il nome di sua figlia). Le etichette interne alla buca, con descrizioni di materiali e lavorazione, in tutti e quattro gli strumenti acustici venivano scritte a mano con inchiostro a china da Ettore Guzzini, Manager Italian Market di Eko, che scriveva anche il nome del proprietario sugli esemplari destinati a diventare Signature.

Poi ci fu la produzione della Ranger nera di Bennato che vendette 6500 esemplari e alla fine degli anni 70 nacquero le elettriche monoblocco come la M24, ma di questo parleremo nella parte dedicata agli anni 80 della Eko.

La piccola Chetro De Carolis con la chitarra che ha preso il nome da lei, il prototipo 9 corde

Catalogo strumenti acustici 1975

Chi suonava Eko negli anni 70

Mick Taylor

Mick Jagger

Martin Barre (Jethro Tull)

Mike Rutherford (Genesis)

Peter Ham (Badfinger)

Joe Egan (Stealers Wheel)

Stealers Wheel – Stuck In The Middle With You

Jimmy Page (Led Zeppelin)

Bob Marley

Lucio Battisti e Ornella Vanoni

Mia Martini con una J56/1

Ron e Lucio Dalla

Guccini con una Chetro

Fabrizio De Andrè con la PFM (Lucio “violino” Fabbri suona una Chetro 12)

Peter Van Wood con Ranger 12 Electra

Lino Vairetti (Osanna) con Ranger 12

Pino Daniele con la Ranger 12 che fu di Lino Vairetti degli Osanna

Vanna Brosio con Ranger 12 Electra

Renato Zero con Rio Bravo

The Trip con strumenti Eko (Billy Grey con chitarra Kadett e Joe Vescovi con organo Ekosonic)

Clicca il pulsante e guarda The Trip con gli strumenti Eko (chitarra Kadett, Organo Ekosonic)

Un caro ringraziamento all’amico Roberto Bellucci di Elettronica Musicale Italiana per le informazioni integrative sulle creazioni del reparto Ekoelettronica.

L’articolo continua nella terza parte: Eko – gli anni 80

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EKO – Gli anni ’60

By Amplificatori Vintage Italiani, Bassi Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Oliviero Pigini, Personaggi Storici, Sintetizzatori Vintage Italiani2 Comments

La Eko fu non solo la più grande fabbrica di chitarre d'Italia ma anche uno dei maggiori successi mondiali nel campo degli strumenti musicali. L'artefice di tale successo fu un personaggio di nome Oliviero Pigini e a lui dedichiamo questa mostra virtuale di celebrità che hanno imbracciato i suoi strumenti.

Lorenzo

Oliviero Pigini, fondatore della Eko

Oliviero Pigini fu un leone dell’industria italiana che, dalla fondazione della Eko nel 1960, riuscì da solo a portare la quota delle chitarre italiane esportate nel mondo dallo 0,8% del 1956 al 12% del 1965.

Dopo un inizio come produttore di fisarmoniche, Pigini decise di rivolgere la sua attenzione alle chitarre e nel 1956 fondò la Giemmei (Giocattoli Musicali Italiani) a Castelfidardo, con la quale gestiva la vendita per posta di chitarre di liuteria siciliana e importate dalla Jugoslavia.

Nel 1959 fonda la Eko S.A.S. di Oliviero Pigini & Co. e nel 1960 rilevò un ex-stabilimento di fisarmoniche ed inizio la produzione in proprio con il supporto di CRB Elettronica, che già dal 1958 progettava e produceva pick-up su richiesta di Pigini.

Nel 1964 la Eko si trasferirà a Recanati, dove, mentre Pigini e Augusto Pierdominici disegnano chitarre e bassi a marchio Eko, la fabbrica produrrà strumenti anche per altre grandi ditte come la Vox.

Nel 1965 inizia la produzione delle chitarre con i nomi di animali (Cobra, Barracuda, Dragon, Condor, Cygnus) e le nuove chitarre signature come Rokes, Kappa, Auriga, Pace.

Nel 1966 fonderà La Comusik, con la quale gestirà la commercializzazione degli strumenti (Eko, Vox, Thomas) e la Genim che gestirà la parte immobiliare come l’albergo Eko di Fano che, nelle intenzioni di Pigini, sarebbe stato l’hotel dedicato alla musica e agli artisti.

Sempre nel 1966 però si verifica un incendio (a detta di alcuni doloso), che distrugge una parte dello stabilimento di Recanati e Pigini inizia la costruzione del nuovo stabilimento di Montecassiano ma non ne vedrà mai la fine poichè un infarto arresterà la sua corsa ad inizi 1967 a soli 44 anni.

Pigini con il personale della Eko

La fabbrica Eko

Purtroppo la scomparsa di Pigini coincide con l’inizio di una crisi del mercato causata dalla concorrenza asiatica e per alcune scelte non proprio azzeccate e lungimiranti: sotto la guida di Augusto Pierdominici la Eko aggiorna e diversifica la produzione, mettendo in secondo piano il reparto chitarre e puntando tutto sugli strumenti musicali elettronici, le tastiere e gli effetti incorporati come nelle chitarre Vox.

Soluzione questa che si sarebbe rivelata fallimentare, non perchè mancassero idee e innovazione, tutt’altro (prova ne è la mitica drum machine Computerythm), ma grazie alla politica commerciale aggressiva giapponese anche in campo elettronico (il governo giapponese sovvenzionava ampiamente le proprie ditte musicali mentre il governo italiano pensava a sovvenzionare il “vampiro” FIAT, che avrebbe condotto al fallimento la scena automobilistica italiana, trascinandosi dietro tutti i marchi migliori acquisiti nel tempo).

Il mercato degli strumenti a corde invece non era affatto in calo perchè la scena musicale non si fermava mai e mantenne le sue posizioni anche durante gli anni 70, 80 e a seguire. Questo mentre la Eko pagò le scelte sbagliate come quella di ripiegare sulla produzione di copie e strumenti elettronici, arrestando di fatto la curva ascendente che Pigini aveva impressso alla produzione italiana nel mercato mondiale degli strumenti musicali.

Gli ultimi tentativi di riportare la Eko ai tempi gloriosi furono sotto la guida oculata di Remo Serrangeli, che, con idee produttive innovative, iniziò una produzione di chitarre e bassi di alta qualità ma l’improvvisa entrata in campo di una nuova gestione scellerata vanificò gli sforzi portando la Eko alla chiusura a metà anni 80.

Questo articolo sarà quindi una celebrazione dello storico marchio italiano, attraverso le immagini di musicisti, artisti e quanti altri hanno amato ed usato i suoi strumenti nel corso del tempo.

Maurizio Vandelli ne I Giovani Leoni, con Eko Master 400

Franco Ceccarelli dell’Equipe 84 con la chitarra della Pace

I Dik Dik con strumenti prototipo

The Rokes con i celebri strumenti che portano il loro nome

The Rokes – Grazie a te

Caterina Caselli con Ranger 12 Electra

Adriano Celentano con Ekomaster 400

Rita Pavone (basso 995) e Giancarlo Giannini

Dario Toccaceli con Eko 100

Ricky Shayne con Eko 100

I Kings con le Eko Kappa, create per loro

Le Snobs con chitarre e basso della linea Cobra

Herbert Pagani con Ranger 12

Fausto Leali con Ranger 6 Electra

L’avventura internazionale

Pigini stabilì diversi contatti con distributori esteri, tra cui i fratelli Lo Duca per gli Usa. Perciò chitarre e bassi Eko si possono trovare con altri marchi come Eston, Shaftesbury e in seguito anche D’Agostino, Camac… Alcune Vox erano semplicemente delle Eko rimarchiate.

Oliviero Pigini (a sinistra) con Tom Lo Duca, importatore USA della Eko.

Dick Elliot, testimonial e dimostratore della Eko per gli Usa

The Grass Roots

The Blue Chip Village Band

The Jackson Five

La Eko 100 di Jimi Hendrix

Pete Townshend

Roger Daltrey

Al Stewart

Brigitte Bardot

Les Disciples

Gary Burger (The Monks)

L’articolo continua nella seconda parte: Eko – gli anni ’70

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Dedicato a Mario Maggi (parte terza)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Il nome lo scelsi dopo numerose notti insonni, doveva essere un nome breve che finisse con la X, è probabile che abbia influito anche Tex Willer, all’epoca Bonelli mi faceva impazzire… La grafica invece è stata in parte ispirata da una società di componenti elettronici, con questi tagli orizzontali che fecero scalpore; sottoposi la cosa al grafico in Elka e loro completarono le fonts necessarie."

Lorenzo

Il Synthex

Ed eccoci arrivati al capolavoro storico di Mario Maggi, quello che gli ha finalmente concesso la rivincita su Prophet e Oberheim, a fronte di maggior polifonia e grandi potenzialità tra cui il sequencer polifonico, il filtro multimode, il chorus, il ring modulator e un prezzo a dir poco vantaggioso rispetto alla concorrenza. Un capolavoro dalla genesi travagliata ma che ha finalmente visto trionfare il nostro ingegnere.

“Il Synthex è stata la conclusione logica di oltre 12 anni di lavoro con i sintetizzatori. Per capirlo bene, devi guardare lontano nel passato. Comunque, dopo aver programmato la produzione in serie del MCS70 venni a sapere che un nuovo dispositivo stava per arrivare sul mercato: un sintetizzatore polifonico chiamato Prophet-5. Questa era la ragione. Fino ad allora, avevamo un piccolo laboratorio con un piccolo numero di tecnici freelance, con cui abbiamo prodotto l’ MCS70. Fui quindi costretto a bloccare la costruzione di altri 9 MCS70 che erano in programma e iniziai a lavorare su un progetto polifonico io stesso…il progetto Synthex era iniziato. Per il Synthex, era chiaro che c’era bisogno di un’azienda consolidata con una fabbrica per un progetto così ampio.

Il nome lo scelsi dopo numerose notti insonni, doveva essere un nome breve che finisse con la X, è probabile che abbia influito anche Tex Willer, all’epoca Bonelli mi faceva impazzire… La grafica invece è stata in parte ispirata da una società di componenti elettronici, con questi tagli orizzontali che fecero scalpore; sottoposi la cosa al grafico in Elka e loro completarono le fonts necessarie.

C’è stato il prototipo che venne presentato alla Elka, con un pannello molto diverso da quello attuale: non aveva il chorus, non c’era il sequencer, c’era il minimo: due oscillatori, un filtro con vca, due inviluppo e un lfo, il minimo indispensabile. Però aveva già un suono che si riconosceva.

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Il primo abbozzo di programma per il Synthex, un programma da 1,5 Kb, è stato realizzato scrivendo a mano le istruzioni sulla carta e digitando con la tastierina esadecimale su un sistema di sviluppo a basso costo, calcolando tutti i salti relativi in esadecima a mano, non c’era niente di niente. Poi, man mano che il progetto andava avanti uscì un primo sistemino dove c’era un assemblatore. Mi attrezzai con questo sistema che aveva, di base, 256 bytes di RAM, zero memoria di massa, non c’erano floppy, non c’erano hard disk… niente.

Per fortuna c’era un’interfaccia a cassette e quindi, con due registratori audio, potevo salvare i programmi che altrimento dovevo scrivere su carta… In questo modo si potevano salvare i programmi e assemblarli; tempo di assemblaggio per un programma stile Synthex era pari a 5 minuti… impensabile per i ritmi di oggi.

Nei due anni di realizzazione per il prototipo del Synthex, (che finalmente aveva il microprocessore a bordo) bisogna comprendere anche il tempo necessario per imparare a scrivere software con strumenti primordiali; all’inizio, per visualizzare il programma, avevo a disposizione solo un display da venti caratteri, ad una sola riga… Dovevo leggere il programma una riga alla volta, successivamente riuscii a costruire una prima scheda video per poter visualizzare più caratteri tutti insieme, ma dovetti partire da zero perchè non c’era nulla di disponibile. Qualche anno dopo sono riuscito a mettere le mani sul primo floppy disc.

Nel Synthex c’è un unico processore – a quei tempi costavano una tombola e quindi il suo inserimento era considerato un lusso notevole – con velocità pari a 1 mHz, lo stesso processore dell’Apple II e del Commodore 64, il modello 6502 ancora oggi in produzione da parte della Western Design Center. L’antagonista di quei tempi era lo Z80, contenuto nel Prophet 5 e, prima ancora nello Spectrum Sinclair.

Inizialmente ho offerto il progetto a tre altre società prima che la ELKA alla fine accettasse. Per prima cosa l’ho offerto a Galanti, proprietario di GEM, poi a EKO e infine a Mario Crucianelli, proprietario di CRUMAR. Soprattutto i negoziati con CRUMAR sono durati diversi giorni, ma fortunatamente per me hanno finalmente rinunciato al progetto.

Dopo alcuni mesi, stavo per arrendermi.

Poi è successo che un amico decise di andare a Castelfidardo per far riparare il suo organo alla ELKA. decisi di andare con lui e portare con me il prototipo del SYNTHEX per fare un ultimo tentativo di trovargli un produttore.

Il direttore del dipartimento musicale di Elka e anche il consiglio rimasero estremamente colpiti dal suono e dalle molte possibilità. E senza perdere un secondo di tempo, mi chiesero se volevo presentare il Synthex alla prossima fiera della musica per testare le reazioni dei visitatori.

Due mesi dopo, insieme a Elka, presentammo il Synthex al Musikmesse, con funzionalità aggiuntive e un nuovo pannello. Ebbi modo di conoscere i partner di vendita Elka di tutto il mondo e, a sua volta, il giovane Paul Wiffen, che era stato assunto da Elka UK, e che in futuro sarebbe diventato anche il dimostratore Synthex.

A Francoforte arrivai con ben due giorni di ritardo, per i soliti problemi dell’ultimo secondo e appena arrivato sullo stand c’erano già due distributori che stavano aspettando per ascoltare lo strumento, non ebbi neanche il tempo di lasciare i bagagli in albergo: appoggiai il prototipo su un bancone e feci la dimostrazione con il sequencer polifonico.

E tieni presente che, a quei tempi, un sequencer polifonico funzionante era una cosa clamorosa, sopratutto incorporato in un sintetizzatore, era un’esperienza inedita. Subito dopo la Fiera c’era un bell’impatto di credibilità e, in Elka, si prese la decisione di partire con una prima serie di cinquanta strumenti.

La mia sensazione era che fossero troppi, mi prese il panico… non pensavo che sarebbe stato possibile venderli tutti (io avrei proposto dieci macchine), loro decisero cinquanta e invece azzeccarono in pieno le previsioni perchè gli strumenti furono letteralmente ingoiati dal mercato musicale.

Oggi, i primi cinquanta modelli li puoi riconoscere da un particolare: furono usate manopole costosissime, di produzione inglese, con il body verniciato di nero e questa vernice, con l’uso, tendeva a sgraffiarsi perdendo la satinatura, mettendo in vista il colore nero sottostante.

Gli strumenti successivi ebbero manopole fatte internamente alla Elka, da un loro stampatore di fiducia, che non presentano questo inconveniente. Comunque, tanto per tornare alle previsioni di mercato, non fecero in tempo a finire i primi cinquanta che furono obbligati a lanciare un nuovo ordine di altre duecento macchine.

La cosa è stata un crescendo continuo; non si faceva in tempo a costruirli e a consegnarli, i distributori erano assetati di macchine, era una situazione quasi tragica, se non fosse stata comica.

In Elka avevano una gran pratica di organi da casa, e -per facilitare la linea di produzione -proposero subito il mobile in legno con la possibilità di agganciare le gambe indipendenti; di listino, lo strumento era disponibile con un flight case, le zampe e la custodia delle zampe; non vennero mai prodotti dei pedali dedicati.

La macchina costava cinque milioni e mezzo dell’epoca; a quei tempi l’alternativa era rappresentata dal Prophet 5, che qui costava sette o otto milioni e poi Oberheim OBx, insomma c’erano solo macchine molto più costose che, tra l’altro, avevano una polifonia più ridotta e non possedevano sequencer interno.”

“Dopo la prima serie di 50 venne fuori il MIDI, una novità clamorosa; divenne necessario fare un retrofit. Per fortuna, sul Synthex avevo previsto un multiconnettore per l’interfaccia computer – prima che esistesse il MIDI ero già cosciente delle possibilità di controllo offerte dal microprocessore sulle voci dello strumento, per fargli fare cose che erano impensabili per uno strumento analogico.

Arrivato il MIDI, si fece un nuovo circuito stampato, si sostituirono le EPROM del software e si otteneva la compatibilità a livello di nota on/nota off, e sopratutto si ricevevano e trasmettevano le note da e per il sequencer interno.

C’è una serie di caratteristiche funzionali che oggi sono considerate uno standard, ma che sono state inserite per la prima volta in uno strumento musicale proprio con il Synthex; te le elenco: il filtro multimodo con gestione polifonica, il chorus analogico on board, il sequencer multilinee e multitimbrico, gli oscillatori ibridi.

Insomma, i milleottecento cinquanta strumenti costruiti dalla Elka a suo tempo (e non è un mistero per nessuno che, tra gli utenti “blasonati” è possibile citare Keith Emerson, J.M. Jarre, Tangerine Dream, Stevie Wonder, Nick Rhodes, Geoff Downes…insomma, gente col manico), oggi sono oggetto di una caccia spietata tanto da parte dei collezionisti vintage che da parte di musicisti “militanti”…

E allora perchè, partendo da quell’esperienza, non fare qualcosa di ancora più potente, analogico e definitivo?

Del resto io sono il proprietario del progetto, che ho creato assieme al nome, al logo, al layout del pannello, al design della circuit board e al codice delle eprom, quindi ho registrato il marchio di fabbrica a mio nome.”

Questo ha logicamente messo fine al sogno della finlandese Soundion (che dopo aver acquisito la Elka, sperava di poter fabbricare anche il Synthex) ma non a quello di Mario, che da anni sta lavorando alla nuova versione della sua creatura, il Synthex 2, le cui immagini indicative e le impressionanti specifiche si possono vedere sul sito di Maggi, di nuovo un’autentica innovazione in un settore dove è già stato fatto praticamente tutto e che ci auguriamo possa vedere presto la luce.

Da sempre uno dei maggiori e appassionati fruitori del Synthex, Jean Michel Jarre ci spiega il perchè del suo amore per questo sintetizzatore, che utilizza anche con la mitica interfaccia Arpa Laser.

Clicca sotto e guarda il video di Jean Michel Jarre che parla del Synthex e spiega il perchè del suo amore per questo sintetizzatore.

Ma cosa fece il nostro Mario, dopo l’avventura del Synthex, a cosa dedicò la sua brillante inventiva?

“Dopo il Synthex, ho realizzato diversi progetti al di fuori del mondo musicale (attrezzature di collaudo, apparecchiature medicali…) e poi ho fatto un equalizzatore parametrico, controllabile via MIDI, che ha la possibilità di morphing tra i parametri; una sorta di equalizzazione dinamica che può essere automatizzata completamente. Su questo progetto ci sono state lunghe trattative con la Audio Kinetics e con la Solid State Logic…”

Siamo riusciti a reperire anche un’affascinante testimonianza del suo fraterno amico Templeton, che parla proprio dei giorni della creazione del Synthex:

Artwork creato da Roberto Bellucci di Elettronica Musicale Italiana, per la prima edizione del “Museo del Synth Marchigiano e Italiano”.

“Mario Maggi aveva una sua filosofia personale e un modo unico di studiare e sviluppare i suoi progetti. Era avanti a tutti gli altri di almeno 10 anni. Assurdo che l’industria elettronica non abbia voluto sostenerlo nelle sue geniali ricerche.

Ricordo ancora molto bene i problemi con l’acquisto degli speciali integrati AD-DA dalla Intersil e altri produttori. Sapevo che fortunatamente Mario era supportato nella sua ricerca da altri giovani che lo aiutarono molto, alcuni dei quali fornendo gratuitamente la componentistica.

Da parte mia, ho rastrellato tutte le scorte di componenti d’Inghilterra per trovare degli integrati con le caratteristiche adatte!

Molti di coloro che prendevano ancora il biberon in quegli anni, e usano questo strumento oggi, hanno difficoltà a capire le dure condizioni alle quali questo grande e allo stesso tempo modesto sviluppatore ha dovuto lavorare in Italia. Quasi nessuno può immaginare quanto fosse difficile trovare uno sponsor per un nuovo progetto.

Mario Maggi si è praticamente sempre dovuto autofinanziare il suo lavoro, e questo vale anche per il SYNTHEX. Fortunatamente ha avuto piccoli aiuti dagli amici, come piccole donazioni, supporto logistico, fornitura di tonnellate di pasticcini (come carburante per il cervello), fornitura di componenti speciali e molto altro.

Ma tutto questo era solo una goccia nell’oceano, rispetto alla dedizione e all’investimento che ha portato questo uomo disinteressato a realizzare le sue idee.

Non è stato quasi mai supportato dalle pubbliche istituzioni e più avanti, è stato solamente sfruttato dalle varie ditte. Mario Maggi era, è, e sarà sempre, una persona capace e modesta, senza grandi pretese tranne il portare avanti il proprio sogno, gentile e generoso con tutti, un vero idealista.

È un uomo al quale si può affidare fiduciosamente la propria carta di credito e il proprio portafogli con la certezza che non si prenderà un soldo.

Ha collaborato con varie società nel campo della musica elettronica (Crumar – Elka). Aziende che ebbero una grande fortuna ad averlo come consulente tecnico, ma come tutte le aziende a scopo di lucro non sempre lo capivano come persona e come sviluppatore e finivano con lo sprecare il suo lavoro.

Electronic & Music Maker dell’Aprile 1983, articolo
sul Synthex

Mario era ed è un amico, un amico dei musicisti, di tutti i musicisti, anche quelli che non ha mai incontrato ma che apprezzano lui e gli strumenti che ha costruito. Una persona che amorevolmente si impegna a spiegare il lavoro che ha fatto sul Synthex.

Se solo una volta aveste visto il suo laboratorio, dove trascorreva ore a mettere a punto il software, riprogrammandolo, cancellando costantemente la eprom del Synthex per correggere questo e quell’errore.

Se almeno una volta aveste trascorso una delle migliaia di notti con lui, seduti a distruggersi gli occhi davanti al monitor a 14” a fosfori verdi, al costante, caparbio e paziente lavoro dalle 3 del pomeriggio fino alle 3 o le 4 del mattino…forse allora riuscireste a capire.

E agli amici che lo prendevano in giro per questa sua “ossessione” per il suo lavoro rispondeva sempre con un sorriso amabile e quando lavorava era sempre in piena serenità: mai un’imprecazione, nemmeno quando, rapidissimo, lavorava contemporaneamente alle tastiere di due computer, saldava, dissaldava, controllava con l’oscilloscopio, programmava e riprogrammava eprom senza sosta.

Mario per me era la felicità incarnata, unita a una competenza così unica che avrebbe potuto lavorare in qualsiasi grande centro di ricerca o alla Nasa.

Ma lui preferiva il suo mondo, il mondo della musica e della sua cantina-laboratorio.

Sfortunatamente, questo mondo da lui così tanto amato lo ha ben poco supportato, solo pochi gentiluomini tra i musicisti. Oggi avrebbe come minimo ricevuto i ringraziamenti di tanti. Ma Mario Maggi non ha ricevuto alcun ringraziamento da questo mondo. Se lo cercate su Internet, troverete tristemente solo 46 riferimenti in varie lingue su di lui (a partire dall’ottobre 2004) che ne hanno anche parlato perlopiù superficialmente e telegraficamente.

Sono convinto che se Mario Maggi avesse lavorato in America, i suoi progetti sarebbero diventati assai più popolari. Non voglio dire che non sia stato proprio supportato da nessuno, ma era troppo ‘piccolo’. Coloro che si offrirono volontari per lavorare con lui furono, come lui, gli ultimi idealisti e passeranno alla storia come illustri sconosciuti.

Il mio ultimo ricordo di Mario Maggi è stato quando lo sentii l’ultima volta (per ragioni professionali non ho avuto l’opportunità di venire in Italia e incontrarlo) e mi disse che era stanco, ma voleva continuare a lavorare con tutte le sue forze sul progetto DIGITAL MODULAR SYNTH (ndr. immaginiamo stia parlando del progetto conosciuto come Synthex 2).

Ricordo ancora i suoi occhi che irradiavano allegria e il nostro ultimo banchetto a base di dolci. Negli ultimi anni, ho cercato di trovarlo e incontrarlo di nuovo, ma senza risultato. Forse è davvero andato a lavorare in un altro mondo, dove ha trovato maggior apertura mentale verso le sue idee.”

Music Maker cover (aprile 1985) – Keith Emerson con il suo Synthex

Una recensione del canale YouTube SynthMania

Un recente splendido videoclip demo dei suoni del Synthex, realizzato dal collezionista e compositore Reuben Jones, al quale va tutta la nostra stima per la passione dedicata a questo synth!

L’ultimo video realizzato dal nostro amico Reuben Jones è una jam con tre dei più bei synth Italiani, tra i quali spicca il rarissimo Logan Vocalist

E’ notizia di questi giorni, di un esemplare di Synthex messo in vendita sullo stesso sito di aste online dove è stato venduto il guitar synth modulare, Vemia, che è stato restaurato e messo a punto da Mario stesso, forse è un segno che il nostro caro ingegnere è finalmente tornato al lavoro?

RINGRAZIAMENTI

Mille grazie a Roberto Bellucci, grande e appassionato conoscitore di strumenti Italiani, nonchè curatore della importante pagina Facebook Elettronica Musicale Italiana, per le generose consulenze e la gentile concessione del materiale in suo possesso. Grazie anche a Daniele, alias mr. VSMI, per la rarissima foto del misterioso mono synth.

Grazie ad Enrico Cosimi, per la sua ottima intervista a Mario Maggi e per i suoi articoli e commenti sempre illuminanti.

Grazie ad Amazona, per l’intervista che è risultata fondamentale per chiarire alcuni punti che erano oscuri, soprattutto riguardo al MCS70 e grazie anche a Marco Molendi e Andrea Manuelli per averlo fatto tornare in vita!

Brochure tedesca del Synthex con le specifiche al completo

Grazie a Templeton per il suo appassionato racconto dei momenti vissuti con Mario, che è servito a rendere un ritratto dell’uomo, oltre che del genio. Sempre sul bel sito di Robert Wittek si trova un bellissimo articolo che tratta estensivamente il Synthex, compresa la parte tecnica.

Grazie all’ottimo sito Tonehome.de per l’ottimo materiale fotografico sul Syntar e al sito Suonoelettronico.it per le specifiche e le informazioni tecniche a riguardo. Grazie a Francesco Mulassano di Soundmit per le immagini dell’articolo sul Synthex della rivista E&MM.

Infine,

Grazie a tutti i contributi degli appassionati (tra i quali Reuben Jones e MrFirechild per il loro amore e i loro bei video demo del Synthex) recuperati in ore ed ore di paziente e ostinata ricerca sul web: scrivere un articolo sul signor Maggi è stata una delle esperienze umanamente più appassionanti, belle e formative e, pur non avendo avuto modo di incontrarlo, questo ostinato, umile e mitico pioniere sembra di conoscerlo da sempre e si finisce davvero per amarlo come l’amico e il fratello che avremmo sempre voluto avere.

Chiudiamo quindi con un ultimo, fondamentale ringraziamento e un sentito augurio:

GRAZIE E LUNGA VITA, MARIO MAGGI !

Clicca sotto e scarica i consigli di Mario Maggi per l’utilizzo del Synthex

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Dedicato a Mario Maggi (parte seconda)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Con tutta probabilità il monofonico più potente ed accessoriato progettato e costruito ai tempi, il MCS70 fu un progetto di innovazione: molto facilmente il capostipite dei monofonici con le memorie (richiamabili addirittura in 5 millisecondi), realizzato ancor prima che fossero disponibili sul mercato le prime memorie su circuito integrato, doppio filtro, routing di modulazione complesso, tastiera con sensori a infrarosso che annullavano i problemi meccanici.

Lorenzo

Stabilità assoluta degli oscillatori garantita dai migliori componenti analogici mai prodotti, utilizzati in quello stesso periodo solo da Buchla e Roland. Uno sconosciuto ed oscuro capolavoro di ingegneria Italiana che ha resistito per quasi 50 anni alla prova del tempo e dell’evoluzione tecnologica.

Ma per capire meglio di cosa stiamo parlando è meglio dare uno sguardo alle specifiche sulla brochure:

Si trattava di una macchina totalmente avveniristica e Maggi pensava in grande, quindi per la promozione pensò alla creazione di un progetto discografico che avrebbe prodotto un 33 giri interamente creato utilizzando il solo MCS70: un’autentica demo da usare come campagna promozionale per la sua creatura, in vista delle fiere del seguente anno.

Maggi contattò l’amico Romano Musumarra del gruppo “La bottega dell’Arte” e che era già sotto contratto con la EMI.

Musumarra introdusse Maggi all’etichetta, la quale accettò la proposta, concedendo per sole 4 settimane i suoi studi di Roma e suggerendo Claudio Gizzi come membro da aggiungere al progetto, data la sua formazione classica e la maggior esperienza.

I due musicisti si occuparono della composizione di una facciata ciascuno, Gizzi il lato A e Musumarra il lato B, mentre Maggi stesso si occupò della programmazione del suo sintetizzatore e nacque così Automat, album di synth pop/dance che è diventato un mito tra appassionati e addetti ai lavori.

Dal disco vennero tratte almeno due hit di successo, delle quali una in particolare, Droid, venne successivamente usata per una miriade di sigle televisive in Italia e all’estero (in Brasile, grazie anche all’uso che la Rete globo ne fece, divenne una hit da classifica): nessuna sorpresa che sia ancora oggi un disco di culto, al quale si ispirano molte delle attuali synth band revivaliste.

Booklet dell’album Automat

Album Automat (1978)

Da questo glorioso debutto del MCS70 rimase particolarmente impressionato Jean Michel Jarre, che ricevette una copia di Automat direttamente da Mario Maggi nel 1978:

“Durante la Musikmesse ho conosciuto il sig. Cavagnolo. Mi invitò a Parigi per presentare il mio MCS70 in una serie di conferenze. Cavagnolo era stato contattato da Jarre una settimana prima per altre questioni, per questo aveva il suo numero di telefono. Il primo incontro che Cavagnolo organizzò per me dopo la manifestazione fu in privato con Jarre”.

Pare che Jarre fosse rimasto talmente impressionato dall’MCS70, da volerne acquistare uno all’istante.

L’MCS70 aveva ricevuto così tanti apprezzamenti che Maggi ormai faceva progetti per la grande produzione…però proprio allora uscì il Prophet 5, che, a causa della polifonia a 5 voci (benchè a detta di chi ha potuto esaminare entrambe le macchine, l’ago della bilancia della qualità pendesse decisamente a favore del MCS), mise purtroppo KO il glorioso MCS sul nascere, anche se Maggi si prenderà in seguito una bella rivincita morale sul Prophet, ma di questo parleremo in seguito.

E’interessante la descrizione che Maggi fa della sua creatura:

“MCS70 era un progetto di sintetizzatore monofonico programmabile, realizzato in un’epoca in cui ancora non c’erano microprocessori, era interamente costruito con logica discreta ed era l’anno che stavano arrivando i primi microprocessori. Fare un software per i nuovi componenti era un’avventura, non c’erano sistemi di sviluppo e tantomeno a basso costo.

Dopo diversi anni di costruzione di soli sintetizzatori convenzionali, con programmi non memorizzabili, nel 1972 ho realizzato che avrei potuto sviluppare una versione completamente programmabile di un sintetizzatore. Senza l’aiuto di nessuno, dovetti fare a meno di un microprocessore. Da quanto mi ricordo, scrissi i codici su un minicomputer DIGITAL PDP 11.

Era il primo programmabile monofonico della storia, con doppio filtro; uno dei due lavorava come passa basso 24 db e passa alto, sempre 24 db; i due filtri erano collegabili in serie o in parallelo, tre oscillatori, di cui uno con possibilità di FM lineare e, simultaneamente, AM. Il secondo modulatore era usato come modulatore per la FM e l’oscillatore 3 come modulante AM; poi c’erano due inviluppi.

Quando stavo presentando il modello MCS70, Tom Oberheim venne allo stand della Jen Elettronica dove ero ospitato e diede uno sguardo all’interno dell’apparecchiatura, rimase impressionato perché era il primo strumento programmabile, interamente programmabile voglio dire, che era in giro.

Lui faceva un qualcosa del genere ma era un programmer parziale, che influenzava solo una parte dei parametri, gli altri dovevano comunque essere riposizionati a mano. I suoni, soprattutto quelli in FM lineare, erano particolarmente inediti per quel periodo, anche perché era una sintesi tra forme d’onda complesse, non tra semplici sinusoidi come sarebbe successo anni dopo con la Yamaha DX7.

La tastiera era a quattro ottave. Ne venne realizzato uno solo, venduto poi a Patrizio Fariselli degli Area (se vuoi sentirlo, puoi ascoltare un album che si chiama Tic Tac).

Lo stesso strumento venne utilizzato anche per fare l’album Automat con Romano Musumarra, dove mi occupai di tutta la programmazione e ogni suono presente derivava dal mio synth, compresi accordi e batterie elettroniche. Accidentalmente, l’unico aiuto esterno venne dall’utilizzo di uno dei primi sequencer della Sequential Circuits, perchè ancora non ne avevo approntato uno per l’ MCS70.

Ho sentito recentemente Patrizio e mi confermava che lo strumento è ancora nelle sue mani, gelosamente custodito, e non mi è sembrato per niente intenzionato a volermelo restituire…”

Area – Tic & Tac (1980)

Pare che in seguito l’ MCS 70 sia stato utilizzato anche in “Magie d’ Amour” 1980 di Jean Pierre Posit, uno dei nomi d’arte di Claudio Gizzi stesso, ed in altri dischi dei quali non siamo però a conoscenza, prima di finire nell’arsenale di Fariselli e farsi onore su “La torre dell’alchimista”, brano che apre l’album “Tic&Tac”, per poi venire successivamente messo a riposo a causa dello scioglimento degli Area stessi.

Jean-Pierre Posit ‎– Magie D’Amour  (1980)

Fariselli stesso ne parla nella sua intervista pubblicata su Strumenti musicali, nel numero 243 del Giugno 2001:

“Ricordo il giorno in cui il mio Arp Odissey si ruppe irrimediabilmente, doveva essere il 1975, prima di un concerto a Roma: sound check nel pomeriggio, lo accendo e non funziona più. Frenetico giro di telefonate e mi suggeriscono di andare a trovare una persona che forse poteva fare qualcosa.

Fu così che conobbi Mario Maggi, uno dei pochi grandi progettisti di tastiere in Italia. Capì subito come non ci fosse nulla da fare per l’Odissey, perché occorreva sostituire una parte essenziale, e mi mostrò la macchina che lui stesso stava progettando, il prototipo che ancora oggi posseggo e che si chiama MCS70. Prototipo e unico esemplare rimasto, che comperai subito perché era proprio un sintetizzatore monofonico fantastico, immaginiamo un Minimoog all’ennesima potenza.

La qualità dei componenti era eccellente e soprattutto aveva 64 memorie, che rappresentavano allora una novità assoluta. Pensiamo al lavoro terribile che toccava sia a me che a Paolo Tofani in ogni situazione, di dover cioè tarare e ritrovare certe sonorità che andavano ricostruite ogni volta, consentendoci di poter sviluppare non più di quattro o cinque suoni a concerto. Di colpo avevo a disposizione 64 suoni memorizzati!”

Da quello che si apprende dall’intervista rilasciata da Maggi al sito web Amazona.de (https://www.amazona.de/interview-mario-maggi-der-elka-synthex-erfinder), di MCS ne dovevano essere realizzati almeno 10, che dovevano venire destinati a vari studi di Roma, e che il prezzo ai tempi era di circa sei milioni di lire, speriamo quindi di rivederne presto riemergere qualcun’altro!

Molto recentemente il buon Patrizio ha pubblicato un post sulla sua pagina facebook dove ha annunciato che il suo mitico MCS è in assistenza a farsi bello per tornare presto in azione, il che può solo renderci felici. Ha anche rilasciato tre fotografie di questa mitologica macchina, della quale le immagini finora purtroppo scarseggiavano. Eccole a voi:

AGGIORNAMENTO Febbraio 2020:
L’ MCS 70 è stato finalmente restaurato alla perfezione grazie allo specialista Marco Molendi che, in collaborazione con altri operatori, ha provveduto a rilasciare un primo video demo che analizza la struttura costruttiva e le capacità sonore di questa splendida e impressionante macchina:

MCS 70 Restoration

Seguono alcuni test audio effettuati da Andrea Manuelli durante il ripristino del MCS70 effettuato dal grande tecnico restauratore Marco Molendi:

MCS 70 Restoration Backstage

Marco Molendi e Patrizio Fariselli

Patrizio Fariselli – Andrea Manuelli – Marco Molendi

Ed eccolo, finalmente tornato in azione nelle mani di Patrizio Fariselli:
Patrizio Fariselli Trio – Caterpillar

Il Syntar

Immagine di Daniele Marziali VSMI

Il Jen GS-3000 Syntar è probabilmente la versione integrata del synth monofonico da chitarra, della quale Maggi parlava riferendosi a quella ancora in suo possesso, quella presentata al Musik Messe del 1978.

Pur essendo stato pensato specificamente per essere usato con la chitarra elettrica, alcuni tastieristi hanno fatto attuare una conversione per suonarlo con un controller keyboard. Logicamente nel caso di questo synth non era prevista una memorizzazione dei programmi e per i “preset” ci si doveva affidare ad una serie di schede da sovrapporre al pannello, nelle quali erano segnati i vari parametri del suono che si desiderava ottenere.

Per una più approfondita descrizione abbiamo deciso di riproporre il testo presente sul sito Suono Elettronico:

“Il Syntar della Jen può essere utilizzato con qualsiasi chitarra a cui va applicato il pick-up custom fornito dalla Jen, per le misure single coil o humbucking.

Il fissaggio dei pick-ups sulla chitarra avviene mediante nastro biadesivo, sistema comodo perché non bisogna forare il corpo della chitarra, tuttavia il fissaggio con il biadesivo pare non risulti sufficientemente stabile.

In dotazione al pick-up nastri biadesivi di diversi spessori, per la scelta della corretta distanza dalle corde.

Il pick-up è piuttosto alto e questo costringe ad alzare un po’ le corde della chitarra.

Il “Pitch to voltage converter” è un pò lento nel passaggio tra frequenze lontane ma sufficiente per un buon uso dell’apparecchio.

Una serie di regolazioni posteriori (da tarare con estrema cura) consente di regolare il segnale proveniente da ciascuna corda.

Sei leds rossi indicano quale corda sta controllando il sintetizzatore, un led verde indica la presenza del segnale di gate. Quando questo non si accende si dovrà procedere alla ritaratura dei sei segnali d’ingresso.

Si avverte la mancanza di un “Sample and Hold” (il circuito che mantiene la frequenza stabile anche quando il livello di segnale fornito dalla corda scende sotto il minimo richiesto per il funzionamento del sintetizzatore).

Questo limita indirettamente anche l’uso del generatore di inviluppo lasciando tuttavia allo strumento una buona versatilità.

Due sono i VCO con onde triangolari, dente di sega, quadra simmetrica e tre quadre asimmetriche. Molto comodo il commutatore di ottave che consente al chitarrista di collocare il sintetizzatore sopra e sotto la frequenza prodotta dalla corda.

I due oscillatori sono provvisti di controlli separati di volume.

Un LFO (low frequency oscillator) dispone di onda triangolare, dente di sega, dente di sega invertito, quadra a due quadre asimmetriche.

Esso può controllare il VCO (vibrato), il VCF (wha-wha), il VCA (tremolo). Può essere escluso mediante l’interruttore a pedale in dotazione.

Il filtro (VCF) è dotato di regolazione di frequenza, di taglio e di risonanza, le sue prestazioni sono in linea con il resto dell’apparecchiatura.

Il Syntar ha due generatori di inviluppo a tre sub-eventi: attack, release, sustain. Essi controllano separatamente il VCF ed il VCA consentendo una buona libertà nella generazione dei suoni, anche se in parte limitata dalla mancanza del circuito di “sample and hold”.

Il Syntar non è dotato di presets nè di memorie.

Lo strumento è dotato di astuccio rigido in cui trovano posto anche gli accessori.

La timbrica in generale è soddisfacente, peccato che, mancando un ingresso per i normali pick-ups della chitarra, non è possibile miscelare i suoni dello strumento con quelli generati dal sintetizzatore.

Il Syntar, è monofonico nonostante la presenza di due oscillatori, è provvisto di “glide” e dispone di due uscite: una per l’amplificatore e l’altra per la cuffia, con comodi controlli di volume separati, la precedenza delle corde per il controllo della frequenza è verso l’acuto.”

Jen Syntar by Maggi

due demo del Syntar.

-L’articolo continua nella terza parte: il Synthex

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Dedicato a Mario Maggi (parte prima)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Il nome di Maggi è indissolubilmente legato al suo capolavoro, il bellissimo sintetizzatore analogico Synthex. ma il geniale progettista ha avuto un passato tutto all’insegna dell’innovazione, che lo pone accanto a personaggi come Moog, Buchla, Taro, Pearlman.

Lorenzo

Con questo articolo viene ufficialmente inaugurata la sezione del sito che riguarda la Sintesi.

Il sintetizzatore, strumento elettronico attraverso il quale si cerca di riprodurre sonorità già note e di crearne sempre di nuove, vede il suo più noto esponente nei prodotti commercializzati dal celebre ingegnere statunitense Robert Moog ma esistono tutta una serie di inventori che hanno contribuito in maniera più o meno incisiva allo sviluppo del synth come strumento innovativo.

La musica e la ricerca dell’imitazione dei suoni sono antiche quanto il mondo. In effetti quasi ogni essere terrestre reca in sè lo strumento musicale più antico, la voce, che raggiunge delle capacità elevatissime nell’uomo, talmente tanto da poter essere facilmentemente considerato il primo sintetizzatore della storia.

Nel corso del tempo ne sono state estese le possibilita’ a livelli davvero affascinanti fino ad ottenere la polifonia vocale, se ne trovano esempi in particolar modo nelle culture asiatiche ma anche in musicisti a noi più vicini.

E’ il caso di Demetrio Stratos, il compianto cantante degli Area, che rese ampia dimostrazione delle sue eccezionali capacita’ vocali in alcuni dischi solisti dedicati proprio al tema del ‘suonare la voce’ e che illustrano ampiamente le sue incredibili capacità di polifonia vocale (diplofonia, triplofonia, suoni bitonali e difonici, fischio laringeo).

Ma esiste tutto un fervente movimento di artisti che stanno sviluppando il discorso della polifonia vocale, una esponente di spicco è la musicista tedesca Anna Maria Hefele.

Demetrio Stratos – Flautofonie ed altro (Cantare La Voce – 1978)

Hanna-Maria Hefele – Dimostrazione di Canto Polifonico

Torneremo comunque su questo argomento più avanti e passiamo invece ad occuparci del signor Mario Maggi.

Il nome di Maggi è indissolubilmente legato al suo capolavoro, il bellissimo sintetizzatore analogico Synthex. ma il geniale progettista ha avuto un passato tutto all’insegna dell’innovazione, che lo pone accanto a personaggi come Moog, Buchla, Taro, Pearlman.

Chi ha seguito il suo lavoro da vicino sa bene che Mario Maggi era avanti a tutti gli altri di almeno 10 anni e che l’industria elettronica italiana non ha fatto molto per investire su di lui e sostenerne la ricerca come invece sarebbe stato logico fare.

Eppure la sua storia, come scopriremo, è quella di un grande innovatore e, per la determinazione e gli enormi sforzi che ha dovuto sostenere per potere dare al mondo i suoi capolavori, anche di un vero e proprio eroe.

E non è affatto strano che, negli appassionati di synth italiani e negli addetti ai lavori, udire o leggere quel nome un po’ mistico, risvegli sempre un mix di affetto ed orgoglio nazionale, quel tipo di sentimento che scalda il cuore degli appassionati, come succede con l’Alfa Romeo e la Ferrari.

E’ quindi assolutamente doveroso dedicargli un omaggio e, trattandosi di un personaggio lontano dalle scene, del quale non è facile reperire notizie e ricostruire storia e cronologia, questo articolo verrà aggiornato nel corso del tempo, mano a mano che ulteriori notizie verranno alla luce, in modo da poter rendere un quadro più accurato possibile della storia di questa persona così affascinante.

Ma apprestiamoci ad iniziare.

Alla fine degli anni 60, un giovanissimo ingegnere elettronico innamorato del mondo dell’elettronica musicale, invia i suoi primi progetti alle riviste di settore. Il primo di cui si ha notizia ad oggi, pubblicato su CQ Elettronica, è un circuito di effetti che collegato a chitarra o organo produce “suoni spaziali”, probabilmente qualcosa di simile ad un ring modulator.

Primo circuito Maggi

Ma lasceremo che sia lui stesso a raccontare gli inizi della sua carriera:

“Quando avevo 17 anni creai un’intera collezione di effetti per chitarra per un amico. Un pomeriggio, venne a casa mia con un disco di Emerson Lake & Palmer e mi fece ascoltare Lucky Man. Il suono di quello che lui credeva essere un assolo di chitarra, lo aveva così impressionato da chiedermi di costruirgli un effetto che potesse far suonare la sua chitarra in quel modo.

Quello che lui pensava essere un effetto, tuttavia, non era una chitarra, ma il più meraviglioso solo di synth che avessi ascoltato fino ad allora. Io capii immediatamente che questo suono non poteva venire da una chitarra.

Una settimana prima, ero stato in un negozio di elettronica ed avevo scoperto una rivista con un’immagine impressionante sulla copertina. Nella foto c’era una grande tastiera per pianoforte con un pannello di controllo altrettanto grande con sopra un numero enorme di pulsanti colorati.

Arp 2500

Dalla rivista scoprii che si trattava di un ARP 2500 esposto in una galleria d’arte moderna a Milano. Alcuni giorni dopo contattai quella galleria e riuscii ad ottenere un appuntamento. Quando arrivai là, rimasi completamente solo per alcune ore nella stanza in cui l’ARP 2500 era in mostra e fui in grado di studiarlo ampiamente.

Riesco a malapena a trovare le parole per esprimere le emozioni che provai in quelle ore, ma fu allora che decisi di dedicare tutto il mio lavoro e la mia creazione allo sviluppo e alla progettazione di sintetizzatori.”

Ci spostiamo agli inizi degli anni 70, quando viene alla luce il prototipo monofonico ancora oggi in possesso ed uso di Enrico Olivieri del gruppo progressivo Metamorfosi e suo amico dai tempi di scuola, e grazie al quale il nome di Maggi entra a far parte dell’immaginario collettivo degli appassionati italiani ed esteri.

“Dopo l’episodio con il mio amico, ho iniziato a costruire il mio sintetizzatore monofonico.

All’inizio, avevo problemi a compensare le fluttuazioni di temperatura degli oscillatori fino a quando non ho trovato un circuito integrato che non era usato da nessuno in quel momento. Probabilmente perché era solo molto costoso. Usando questo integrato, improvvisamente mi sono reso conto che il mio primo sintetizzatore, in termini di stabilità dell’oscillatore, era di gran lunga superiore a qualsiasi altro dispositivo sul mercato.

Questa è stata la ragione fondamentale per cui ho deciso di continuare a costruire sintetizzatori. Volevo renderli sempre migliori.”

Questo synth chiaramente è possibile ascoltarlo nei dischi dei Metamorfosi e nei concerti che tutt’oggi il gruppo tiene.

Enrico Olivieri con il suo synth monofonico by Maggi

Enrico Olivieri (Metamorfosi):

“Tutto cominciò ai tempi della scuola, nel 1970, quando io e il mio amico Mario Maggi frequentavamo l’istituto tecnico per elettronica Enrico Fermi.

A quel tempo Roma pullulava di cantine e locali dove una miriade di formazioni musicali trovavano spazio per “provare” ed esibirsi e, mentre io passavo da una formazione all’altra (prima accompagnato dal mio inseparabile organo Farfisa, poi dall’organo Pari e dal piano elettronico Crumar, entrambi amplificati con un Leslie Lombardi 250 watt), Mario si dilettava a modificare amplificatori, ottimizzare effetti per chitarra e voce, e metteva il naso in tutto ciò che riguardava l’elettronica del tempo al servizio della musica, il più delle volte con risultati entusiasmanti.

Un giorno Mario m’invitò ad andare al suo laboratorio e, senza darmi altre spiegazioni, mi disse che voleva farmi provare una “bomba”.

Enrico Olivieri con il suo monofonico by Maggi e il Synthex

Una volta arrivato, sopra un tavolo che in quanto a disordine non aveva nulla da invidiare a quello del famoso Archimede Pitagorico della Disney, vidi un groviglio multicolore di fili elettrici in mezzo ai quali si distingueva a fatica un lamierino con alcuni potenziometri scoperti: si trattava del primo oscillatore con filtro passa-basso costruito dal mio amico.

Passammo l’intera nottata ad ascoltare e visualizzare sull’oscilloscopio sinusoidi, denti di sega, quadre modulabili, inviluppi di filtro e tutto ciò che poteva produrre quella piccola diavoleria, con la stessa curiosità di un bambino alle prese con il giocattolo nuovo.

Da quella sera, molti furono gli incontri durante i quali Mario mi faceva provare e ascoltare il risultato degli ampliamenti e miglioramenti del suo progetto; dopo una gestazione durata molti mesi, nacque un vero sintetizzatore monofonico, il primo costruito da Mario Maggi, che entrò di prepotenza a far parte della mia strumentazione. Ancora oggi, a distanza di 35 anni dalla sua costruzione, è perfettamente funzionante e lo utilizzo in tutti i concerti di Metamorfosi.”

Un estratto dall’album Metamorfosi (Inferno – Introduzione)

Di probabile derivazione del primo, fu quest’altro misterioso monofonico, che si pensa risalente alla prima metà degli anni 70, anche questo in un unico esemplare, e del quale purtroppo si sa poco, tranne che venne prodotto dalla Jen, in alcune decine di esemplari, con un’altra grafica di pannello e il nome ‘Synt-O-Rama’.

Di quelle decine di esemplari, ad oggi conosciamo solo quello in possesso di Lucio Kraushaar, che ne personalizzò il mobile costruendone uno in noce e che ci ha gentilmente fornito un’immagine, assieme a quelle del depliant e a questa piacevole testimonianza:

«Il primo synth lo progettò qui a casa mia, ero single e lo ospitai per alcuni giorni. Ai suoi aveva detto che andava in vacanza al mare, gli lasciai le chiavi di casa, io dovevo volare (lavoro). Lui dormiva di giorno e studiava la notte. Mi ricordo che per un turno mi dovevo alzare presto ma avevo la sveglia rotta. Avevo un registratore a cassette, Mario in quattro e quatr’otto fece un circuito che, collegato al registratore, mi svegliava con la musica.»

Synth derivati da questi due primi lavori vennero realizzati, tra gli altri, per Vittorio Nocenzi del Il Banco del Mutuo Soccorso, Roberto Turbitosi, Mario Natali. Il SYNTH monofonico disegnato da Mario Maggi era un vero gioiello di stabilità: nessuna traccia dei problemi di contatto dell’ Arp Odyssey, e non soffriva delle croniche perdite di intonazione del MiniMoog alle basse frequenze.
Il mono-synth di Maggi era stabile, estremamente stabile, e non c’è da meravigliarsi che Enrico Olivieri lo usi tutt’oggi.

Seguirà poi il guitar synth modulare che Maggi realizzò nel 1975 (anche questo in un esemplare unico) che gli venne commissionato da un cliente di Bologna e che adesso dovrebbe trovarsi in Francia.

Maggi Modular Guitar Synth

A quanto dichiara la casa d’aste che ne ha curato la vendita (link), il tecnico che lo ha revisionato sostiene si tratti di un lavoro dalla realizzazione altamente superiore, in termini di design e organizzazione dei circuiti, ai PPG di concezione similare.

Sembra che in quegli anni 3 fossero i personaggi ad occuparsi a studi del genere applicati al campo della sintesi: il signor Buchla, il team del signor Roland Ikutaro “Taro” Kakehashi e…indovinate un po’, il nostro Mario. E sostanzialmente dovrebbe trattarsi proprio di un progetto tecnicamente e qualitativamente comparabile a quelli di Buchla, personaggio con il quale gli studi di Maggi di quell’epoca avevano diversi punti in comune.

Racconta Maggi:

“Realizzai un monofonico modulare, con i patchcords per le connessioni, appositamente disegnato per essere pilotato tramite chitarra elettrica, il tutto per un cliente di Bologna. La conversione Pitch to Voltage era risolta con un filtro che si agganciava sul segnale di entrata togliendo più armoniche possibile, poi con una controreazione, se il segnale si abbassava troppo, il filtro si apriva automaticamente; poi c’era uno zero crossing ed un circuito che convertiva il tempo elaborato in una tensione corrispondente; gli oscillatori non andavano in deriva termica (a differenza di quelli Moog del periodo, ad esempio).

Poi ci fu una versione integrata del sintetizzatore per chitarra, di cui posseggo ancora il prototipo. Sul prototipo c’è ancora attaccato un adesivo della MusikMesse 1978…un documento storico!”

Come suona il guitar synth modulare di Maggi. Per l’originale vai al link

A quanto pare questo stesso guitar synth passò anche dalle mani di Hank Marvin degli Shadows, come ci dice questa rara foto dell’epoca.

Maggi aveva però già intuito che le cose stavano cambiando e che la maggior diffusione dei synth, anche per uso domestico, aveva portato alla necessità di macchine con interfacce sempre più user-friendly rispetto all’essere costretti a modificare continuamente i parametri per ottenere il suono deisderato e che si sarebbe sentita la necessità di poter memorizzare i propri suoni, senza dover per forza usufruire solamente dei preset di fabbrica.

Ai tempi però i microprocessori a basso costo ancora non esistevano, perciò già nel 1974 si era messo al lavoro su di un progetto di logic board a componenti discreti che gli permettesse di evitare l’uso degli appunto indisponibili processori e che, unito alla creazione di una rivoluzionaria tastiera a sensori ottici, che permetteva di evitare le noie date dai contatti elettromeccanici, porterà nel 1977 al completamento di MCS70, ovvero Memory Controlled Synthesizer.

Ma di questo parleremo nella SECONDA PARTE.

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Godwin “The Organ”

By Chitarre Organo, Chitarre Vintage Italiane, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Ad un certo punto la magica follia tecnologica degli anni 60 partorì il suo “mostro”: dopo che Bob Murrell ebbe presentato i suoi primi esperimenti e la Vox ebbe pensato bene di trasferire il modulo sonoro del suo organo Continental dentro il corpo di una chitarra Phantom VI, altri furono gli esempi che seguirono e tra i vari non si può non menzionare il progetto probabilmente più affascinante e tecnicamente meglio riuscito, la Godwin The Organ. Di anno di nascita incerto, c’è chi la assegna alla metà degli anni 70 e chi all’inizio, sicuramente lo strumento prodotto per Godwin/Sisme è quello più affascinante della famiglia delle chitarre riproducenti suoni di organo.

Lorenzo

Vera antesignana del guitar synth, la The Organ vede la genialità Italiana spingersi al suo massimo: ogni tasto del manico, diviso in 6 segmenti, aveva collegamenti elettrici in modo che quando entravano in contatto con la corda si otteneva lo stesso effetto dello spingere un tasto su un organo; il contatto elettrico si chiude e la nota suona perfettamente e senza possibilità di errore. In questo la Godwin non ha rivali: nessuna latenza o sfarfallio dovuto ad un pessimo tracking (tracciamento della nota), difetto presente in quasi ognuno dei primi guitar synth e spesso anche negli attuali. Questo la pone, dicevamo, come vera antesignana delle chitarre synth.

Oltre al suono di organo elettronico, la The Organ è anche una “normale” chitarra elettrica, equipaggiata con una coppia di pickup che ricordano lo stile lipstick, con bilanciamento e volume regolabili. L’elettronica è alloggiata dentro allo strumento, in uno scomparto posto sul retro e sotto al largo battipenna che ospita i vari controlli (19 switch e 13 potenziometri sul modello di punta e 16 switch e 4 pot sul modello “economico”), mentre il complesso sistema elettronico è alimentato da un apposito power pack racchiuso in un box nel quale è inserito anche un pedale del volume. Fondamentalmente, gli interruttori rotativi assurgono alla funzione dei drawbars e ciascun “drawbar” può essere inserito o disinserito, il musicista può così aggiungere o sottrarre i suoni di “strumenti” desiderati e regolare la velocità del tremolo tramite i controlli on board.

L’estetica di questo strumento parla da sola e si nota al volo che fu pensato per il mercato Usa (come spesso avveniva con gli strumenti a marchio Godwin): una particolare e moderna versione del doppio Florentine cutaway arricchisce le forme sinuose di questa hollow body interamente costruita in acero con una splendida buca a forma di S e altri cinque sound-holes di varie lunghezze, anche questi con retina argentata, vanno ad ornare il top. Il comodo manico panciuto in 3 pezzi, anch’esso in acero, è assicurato al body da una piastra a 4 viti con pin reggi-tracolla, numero seriale e la dicitura “Made In Italy”.

I segnatasti di tipo micro dot neri si trovano lateralmente, sul binding che corre ai bordi della tastiera, mentre la bella e moderna paletta stilizzata recante il bel logo Godwin Organ è equipaggiata con le ottime meccaniche Grover Rotomatic. La tastiera in palissandro è dotata di 21 tasti suddivisi in 6 segmenti per altrettanti contatti elettrici individuali. Il ponte è tipicamente regolabile in altezza, con 6 sellette anch’esse regolabili individualmente ed ha copertura poggiamano, mentre il piacevole attaccacorde a trapezio con la G del logo è ancorato con 3 viti.

La forma della Organ ha una personalità che si distingue ed ogni particolare è decisamente ben equilibrato: ci troviamo davanti ad un’estetica di grande fascino ed è un peccato non sia stata commercializzata anche come chitarra elettrica hollow body a sé stante perché sicuramente avrebbe riscosso un successo tutto suo.

L’endorser più conosciuto di questo strumento fu Peter Van Wood, che ne fu evidentemente tanto entusiasta da dedicargli addirittura un album dal titolo “Van Wood and His Magic Guitar Organ”, facendosi ritrarre in copertina con la The Organ in bella mostra.

Purtroppo non si riescono a trovare molti file video, tranne questi pochi che non rendono bene l’idea del funzionamento e delle sonorità dello strumento (nell’ultimo la chitarra non ha più nemmeno la sezione elettronica dell’organo). Nel primo è però possibile vedere il frammento di una esibizione dal vivo di Van Wood con la sua chitarra organo.

Video di Van Wood con la chitarra Organo.