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Personaggi Storici

hanno cambiato faccia

…hanno cambiato faccia – 1971

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Cade quest’anno il cinquantesimo compleanno di questo incredibile film, altrettanto incredibilmente e ingiustamente dimenticato.

The Boss

Corrado Farina tra Giuliano Disperati e Geraldine Hooper

E’ capitata l’occasione, dopo tanti anni, di poter nuovamente visionare questa particolare pellicola di Corrado Farina, che contiene un messaggio urgente ed attuale, e ci siamo sentiti talmente chiamati in causa da avere la necessità di recensirlo per contribuire a dargli la visibilità che merita.

E’ un lavoro che si snoda attraverso un preciso utilizzo della simbologia e un uso peculiare della macchina da presa e delle tesissime musiche dell’ottimo Amedeo Tommasi di Avatiana memoria (purtroppo recentemente scomparso), che saranno anche fonte di forte ispirazione del futuro cinema “argentiano” (I Goblin prenderanno a piene mani).

Durante tutto il film viene urlato, con urgenza, un messaggio inquietantemente sempre più attuale: attenzione al potere della tecnologia che, vista come un mostro, irretisce e intimorisce l’uomo, rendendolo suo succube e estinguendo in lui ogni spirito di autocoscienza, critica e ribellione.

Data la natura del film, è impossibile non fare anticipazioni sulla trama, perciò consigliamo caldamente di visionarlo e tornare in seguito su questo articolo, per confrontare le proprie opinioni con le nostre.

Trama:

Il dr. Alberto Valle, (Giuliano Esperanti, alias Giuliano Disperati), impiegato dell’importante Auto Avio Motor, viene convocato dal presidente dell’azienda e invitato a recarsi presso la villa del proprietario, l’ing. Giovanni Nosferatu (Adolfo Celi).

Giunto nella località rurale che circonda la dimora, Valli incontra Laura (Francesca Modigliani), una hippy che viaggia senza meta precisa, alla ricerca di esperienze che la portino lontano dalla quotidianità.

Una volta arrivati alla villa, Laura decide di attendere il suo accompagnatore in automobile, mentre quest’ultimo si reca all’incontro con il magnate. L’atmosfera, che già nei dintorni del villaggio appariva sinistra, all’interno della tenuta di Nosferatu diventa ancora più gravosa e opprimente.

Lungo il viale d’ingresso, Valle viene scortato da due Fiat Cinquecento bianche, guidate da strani uomini che non rispondono alle sue domande. Varcata la soglia della casa, trova ad attenderlo l’algida segretaria personale dell’ingegnere, Corinna (Geraldine Hooper).

Il successivo colloquio con Nosferatu porta con sé delle grosse sorprese: l’uomo d’affari propone infatti a Valle di diventare il nuovo presidente della compagnia, e per questo lo invita a trattenersi alla villa affinché maturi la propria decisione.

Gli eventi si susseguono a ritmo incalzante, e Alberto si ritrova coinvolto in una strana ma coinvolgente relazione con Corinna. Tuttavia, durante alcune solitarie perlustrazioni fa una scoperta inquietante…

Le Cinquecento che, usate come cani da guardia, pattugliano la villa, sono un’ovvia metafora della classe operaia resa ottusa e sensorialmente deprivata per servire il padrone tradendo la propria anima e la propria individualità.

Stessa cosa che accadrà al protagonista, nel momento in cui sceglie di abbandonare la propria purezza – qua simbolizzata da Laura (L’ Aura, con anello di ametista), la giovane ragazza incontrata per strada – per varcare il cancello di villa Nosferatu, accettando il richiamo e la corruzione del potere e poter scoprire “quanto è profonda la tana del Bianconiglio”.

Disperati non sarà forse un attore perfetto ma riveste bene il ruolo e la sua mimica facciale rende bene la parte di un uomo alle prese con un dilemma di vitale importanza, la Hooper incarna perfettamente l’algida e filiforme Corinna, personaggio enigmatico ancora più dello stesso Nosferatu. Celi, al solito, è solidissimo in un ruolo perfetto per lui.

Giuliano Disperati è Alberto Valle

Geraldine Hooper è Corinna

Francesca Modigliani è Laura

Adolfo Celi è Giovanni Nosferatu

Farina sfrutta totalmente la propria esperienza in campo pubblicitario ed evita efficacemente di finire racchiuso nel film di genere, sfruttandone al contempo efficacemente l’onda per urlare il suo messaggio al mondo.

Nonostante ciò, la vena gotica che pervade il film finirà per influenzare profondamente proprio quello che è considerato il più famoso dei registi italiani del film di genere.

Inoltre, la freschezza delle idee trattate pare addirittura precorrere i tempi per sposarsi bene agli attuali, quasi una ‘premonizione’.

Una sequenza eccellente mostra una serie di bambini in culla e un enorme registro dove si leggono i nomi e i “destini” dei bimbi presenti e passati. Lì Alberto trova il proprio nome e una sua foto da bambino con la previsione che sarebbe diventato Presidente della Auto Avio Motor.

Nosferatu alleva i figli prediletti perché nel futuro ricoprano un ruolo alle sue dipendenze, mantenendone un assoluto e stretto controllo, tentando di impedire loro il libero arbitrio. Questa immagine è logicamente estendibile a tutti gli italiani, dei quali il destino, che ne siano coscienti o meno, è quasi sempre deciso da “altri”.

E’ immediata l’associazione del personaggio dell’ingegner Nosferatu con una ben nota figura dell’industria automobilistica di allora ma è, al tempo stesso, ancora più in sintonia con i tempi correnti.

La seduta del consiglio di amministrazione è un capolavoro di sottile ironia, perché al tavolo di Nosferatu siede ogni tipo di potere, persino quello ecclesiastico.

La parte metafilmica dei caroselli non è solo esilarante ma perfettamente al passo con i tempi odierni.

Ci troviamo insomma davanti ad un piccolo art-film che ha però il pregio di parlare in faccia ed essere quindi fruibile da chiunque.

Celi, Farina e Disperati

Corrado Farina nel carosello LSD

Dal punto di vista estetico, i canoni del tempo sono ben rappresentati da complementi di arredo in stile Space Age, tra cui le splendide lampade Platea Artemide disegnate da Ferrari-Mazzucchelli-Tartaglino, che si mischiano con elementi più classici, conferendo un’atmosfera algida alla pellicola, atmosfera dove i colori vengono mantenuti su tenui tinte pastello tranne che per qualche studiata rottura improvvisa con colori accesi (vedasi il maglione giallo, simbolo di conoscenza e intelletto, del Disperati nelle scene diurne in esterni e nella cripta).

Tre splendide lampade Platea di Artemide, ad adornare il soggiorno

Singolari l’inserimento di continui jingle pubblicitari interattivi che entrano in funzione nel momento in cui si utilizzano oggetti all’interno dei locali della villa e i pasti a base di cibi fluidificati, definiti ‘socialismo gastronomico’ e volutamente resi privi di forma e sapore, perché possano evitare di evocare inutili piaceri che si tradurrebbero in energie sprecate invece che utilizzate a fini ‘produttivi’.

Il ‘socialismo gastronomico’ di Nosferatu

Cinquecento da guardia

Come già accennato, Argento prenderà molto da questo film, dalle inquadrature e movimenti di camera (specialmente durante le esplorazioni per i corridoi e nella cripta), alle musiche, dalle luci-colori-scenografia della scena in cui Nosferatu suona il pianoforte di spalle e persino l’utilizzo della Hooper come caratterista per il personaggio dell’androgino Massimo Ricci in Profondo Rosso.

E’ impressionante quanto la scena del ritrovamento del registro dei ‘predestinati’, durante l’esplorazione dei corridoi, ricordi Suspiria (ma anche Inferno) per musiche ed accadimenti ma ovviamente non può non richiamare alla mente anche la celebre scena dei campi di coltivazione degli umani in Matrix.

Le culle dei predestinati

Il registro dei predestinati

Alcuni degli ‘slogan’ lanciati come mantra diabolici durante il film:

‘Gli uomini, li obblighi a lavorare e ti dicono grazie’

‘pubblicità e sesso’

‘Alice nel paese del consumo’

‘La vendita delle indulgenze’

‘La futura occupazione di tutti i bambini è di essere consumatori specializzati’

‘Ritorno alla culla’

‘Psicoseduzione dei bambini’

‘Reclutamento di nuovi consumatori’

‘La regia del consenso’

‘Come si coltiva l’ottimismo’

‘Il consumatore và aggredito quando meno se lo aspetta, nell’intimità del soggiorno, della cucina, della camera da letto’

‘Narcisimo di massa’

‘Attacco all’inconscio’

‘I capricci del consumatore’

‘La materia su cui lavoriamo è la sostanza stessa di cui è fatta la mente umana’

‘I simboli del prestigio’

‘Gli ami vengono calati’

‘L’anima in scatola’

Incredibilmente, il film di Farina venne osteggiato proprio da quella sinistra liberista che avrebbe dovuto abbracciarlo ed eleggerlo a proprio baluardo e, contro ogni ovvietà, scelse invece di snobbarlo e addirittura stroncarlo apertamente dalle pagine de L’Unità con una recensione che lascia a bocca aperta:

«Diremmo che per un’opera prima essa si mostra nell’insieme terribilmente datata con tutti i vezzi paraintellettuali che ostenta, con tutte le compiaciute “citazioni” del cinema di periodi gloriosi tipiche degli incanagliti frequentatori di cineclub, con tutto l’armamentario apparentemente dissacratorio di miti e di presenze del nostro tempo contro i quali, se si vuole davvero averne ragione, occorrono ben altre energie, ben altra lucidità, ben altro coraggio che non le funamboliche e puerili metafore di Hanno cambiato faccia»

«Spiace dire parole così severe per un’opera prima quale quella di Corrado Farina ma il fatto è che in essa l’apparente carica di azione eversiva si tinge di tali e tante corrive banalità contro le quali secondo noi sarebbe colpevole restare indifferenti o peggio acquiescenti» – Sauro Borelli, Mediocrità variabile al XXIV Festival di Locarno, in L’Unità, 10/08/1971.

Di ben altra opinione furono al Festival di Locarno di quell’anno dove, il film vinse il Pardo d’oro come opera prima.

Corrado Farina con il Pardo D’oro

Chiudiamo con le ottime parole di Salvatore Incardona, tratte dal suo articolo sul film, e una considerazione di Corrado Farina stesso:

Salvatore Incardona:

-Non ci dilungheremo su quali rovinose conseguenze ebbe all’epoca un certo tipo di commenti, ma è facile immaginare come tale ostracismo finì per condizionare il giudizio del pubblico (specializzato e non), impedendo così alla pellicola di ricevere un’adeguata distribuzione. Anzi, a frenarne sul nascere ogni possibile diffusione su larga scala arrivò anche il blocco della censura che appose un arbitrario quanto incomprensibile V.M. 18.

E a tal proposito non possono che risultare emblematiche le parole rivolte da Giovanni Nosferatu al proprio dipendente Alberto Valle dopo la proposta di mettere lui a capo di una delle società: «Lei sta pensando che questo discorso sia sproporzionato rispetto all’offerta che le faccio. Ma non è così. Io non possiedo soltanto un certo numero di fabbriche, di aziende, di grandi magazzini. Possiedo anche giornali, partiti politici, gruppi di opposizione».

A quasi cinquant’anni di distanza, a noi rimane comunque un’opera audace, preziosa, alla quale si può rimproverare forse qualche leggera pecca di regia – dovuta più che altro al limitatissimo budget a disposizione [Cfr. Corrado Farina, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono (a cura di), Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001. ] – ma che nell’insieme appare come un magma di fantasia e simbolismo, di reale e irreale, di narrazione avvincente e di critica impietosa che costituisce il suo carattere specifico e il suo miglior pregio.-

Corrado Farina:

-Non ho cambiato il mio punto di vista. Se non altro, è ancora più negativo. Considero ancora un certo tipo di pubblicità – quella che persuade o manipola, piuttosto che informare – come un volano per spingere gli esseri umani in direzioni forse utili e positive dal punto di vista economico, ma pericolose e sbagliate da un punto di vista etico e sociale. Come potrebbe dire Erich Fromm, crea un focus sull ‘”avere”, piuttosto che sull’ “essere”.-

Scheda Tecnica

… HANNO CAMBIATO FACCIA (1971) DI CORRADO FARINA

Anno 1971

Durata 97 min

Genere Fantastico – Horror – Satirico

Regia Corrado Farina

Soggetto Corrado Farina

Sceneggiatura Corrado Farina, Giulio Berruti

Casa di produzione Filmsettanta

Fotografia Aiace Parolin

Montaggio Giulio Berruti

Musiche Amedeo Tommasi

Interpreti e personaggi

Giuliano Esperati (Disperati): Alberto Valle

Adolfo Celi: Giovanni Nosferatu

Geraldine Hooper: Corinna

Francesca Modigliani: Laura

Doppiatori italiani

Renato Turi: Giovanni Nosferatu

Benita Martini: Corinna

Rassegna Stampa

Il trailer del film “…HANNO CAMBIATO FACCIA”

Corrado Farina era una persona poliedrica e si è occupato di molte cose. Sono interessanti i suoi corti e gli spot, che si possono trovare facilmente online, sono interessanti i suoi libri e gli altri suoi lavori. Si consiglia una visita alla sua pagina web.

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Wandré Etrurian Basso

By Bassi Vintage Italiani, Personaggi Storici, Wandrè2 Comments

Siamo lieti di inaugurare la "vetrina" di Classic2vintage con questo rarissimo pezzo di Italica produzione: uno splendido esemplare di basso Etrurian di Wandrè.

Lorenzo

Come molti appassionati sapranno, Wandrè era il nome di battaglia di Antonio Pioli, il genio di Cavriago, piccolo centro situato nella pianura padana.

Studioso di ingegneria e artista, prima che liutaio, Pioli cominciò ad interessarsi alle chitarre nella metà degli anni cinquanta e nel 1959 costruì una rivoluzionaria fabbrica tonda, nella quale avrà sede la sua particolare “liuteria”.

Il signor Wandrè è stato l’autore di alcuni fra i più sconvolgenti strumenti di liuteria moderna, sia elettrica (in buona parte strumenti a cassa vuota ma anche varie solid body) che acustica (lo splendido contrabbasso Naika).

Gran parte dei suoi strumenti presentano soluzioni innovative come il manico in alluminio ricoperto di resina PVC e speciali pickups ed elettronica di fabbricazione Davoli con bobina che cambia l’impedenza del pickup, così da poter ottenere da un unico rilevatore due timbriche molto definite, come se i pickup fossero due.

Grazie a questo accorgimento, in combinazione con il controllo toni, le sfumature sonore diventano molteplici e sorprendenti.

Ma la cosa che salta subito all’occhio sono le forme assolutamente inedite e le decorazioni estremamente artistiche e colorate dei suoi strumenti.

Copertina del 45 giri “Chi lo sa” (1966) del gruppo Beat degli Im-Pact, sulla quale campeggiano due Wandré Scarabeo con al centro un Etrurian

E’ il caso dello splendido Basso Etrurian che è oggetto del presente articolo: uno strumento che, come il nome suggerisce, prende ispirazione dalla civiltà etrusca, riproponendo in forme e colore un tipico vaso bucchero e utilizzando le spalle mancanti come richiamo ai manici del bucchero stesso, donandogli anche una forma ricurva che ricorda i Litui etruschi.

Ma anche il manico, il cui diapason è 854 mm, ha una forma che può ricordare vagamente anche il Lituo di Bach, una leggendaria tromba dalla forma estremamente allungata che è stata recentemente ricostruita.

I primi esemplari avevano un unico pickup al manico, controllo tono e volume e un interruttore on-off per il pickup.

Il legno usato per il body è l’ Ayous o Obeche (un tipo di essenza centro africana), body nel quale è ricavata un’ampia camera tonale che conferisce al basso un’estrema leggerezza.

A chiuderla troviamo dei pick-guard che può essere in plexiglass bianco, nero o rosa, oppure in formica color legno con talvolta una decorazione a foggia di giglio fiorentino.

In seguito arriverà anche l’Etrurian con due pickup.

Per maggiori informazioni vi rimandiamo all’ottimo libro “Wandré – L’artista della chitarra elettrica” scritto dal maggior esperto di Wandré, il dott. Marco Ballestri.

L’ Etrurian Basso, concepito da Wandrè in collaborazione con il giovane designer Stefano Beltrami, è innegabilmente un esempio di arte concettuale, dove lo stile moderno si lega mirabilmente al passato e il design si sposa perfettamente con l’ergonomia dello strumento elettrico. 

Ne nasce un’opera indimenticabile, che proseguirà la sua vita nel tempo, passando nelle mani di musicisti attuali e futuri: cosa potremmo desiderare di più per l’arte, se non il suo continuo rinnovarsi per rimanere eterna?

L’esemplare che vi presentiamo nelle seguenti immagini è di proprietà del collezionista Alessandro Marziali, si tratta di una prima edizione con unico pickup e mascherina in formica, senza il tipico copri-paletta in plastica, disegnato anch’esso dal designer Stefano Beltrami in collaborazione con Wandré, che verrà apposto a partire dalla seconda metà del 1965. E’ presente invece la linguetta stilizzata sulla sommità della paletta.

Sono state aggiunte 3 viti, una come rinforzo alla placca del manico e due per spostare l’attacco per la tracolla. Con il tempo e l’uso si è verificata una crepa nella copertura in PVC del manico, tra il terzo e il quinto tasto.

Non essendo stato possibile sostituire il pezzo, data la quasi irreperibilità delle parti di ricambio, ed essendo il manico ottimamente suonabile allo stato attuale, si è preferito non effettuare interventi invasivi ma solo conservativi.

Lo strumento è stato quindi totalmente pulito e revisionato, corde nuove, funziona perfettamente e con la tipica ottima suonabilità.

Per ulteriori informazioni e contatti, rivolgersi ad Alessandro, all’indirizzo [email protected]

Ringraziamenti

Ringraziamo il gruppo Facebook Wandré Guitars che, nella persona del dottor Marco Ballestri, ci ha cortesemente fornito materiale informativo e fotografico, nonchè gentile consulenza.

Un ringraziamento doveroso và poi all’artefice di tutto, quel Wandré che ci ha lasciato un patrimonio di arte e innovazione che non manca mai di farci rimanere in stupefatta ammirazione.

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I Due Mondi Di Kevin (Didn’t You Hear…?) – 1971

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

KARL KROGSTAD è venuto a mancare esattamente un anno fa.
Nell'occasione dell'anniversario del suo passaggio ad un'altra dimensione, vogliamo fargli omaggio di questo articolo, con il quale viene ufficialmente inaugurata la sezione cinema di Classic2vintage.

The Boss

Karl Krogstad

Vi chiederete chi fosse il signor Krogstad. Ebbene, non solo era uno dei registi/sceneggiatori indipendenti più stimati della scena di Seattle ma è stato, appunto, lo sceneggiatore e regista de “I due mondi di Kevin” (Didn’t you hear…?).

Adesso vi chiederete cosa sia “I due mondi di Kevin”…va bene, basta con questo giochetto: si tratta di uno dei film più particolari e difficili da reperire.

Tanto per iniziare ha una storia travagliata: dichiarato come uscito nel 1983, risale in realtà al dicembre 1970 e uscì in contemporanea in alcune sale del circuito di Seattle il 24 febbraio 1971, proprio in coincidenza di una tremenda tempesta di neve, così che venne visionato solo da uno sparutissimo gruppo di persone.

Pare in seguito sia stata programmata una più vasta distribuzione nelle sale attraverso la Futurama International per il luglio 1972 ma in realtà non sono state reperite prove di ulteriori proiezioni oltre a quelle di Seattle.

La Skip Sherwood Productions rinnovò il copyright nel 1983 (motivo per il quale gli è stato erroneamente assegnato l’83 come anno di uscita) e il film iniziò i passaggi tv in tarda serata, cominciando finalmente a raccogliere un suo seguito di fan.

Venne poi riedito nel 1985 in VHS dalla American National Enterprises (A.N.E.) Home Video/Prism Entertainment, in tiratura talmente bassa che è molto difficile da trovare anche negli Usa.

Non è nemmeno chiaro se sia stata prodotta una versione DVD o meno.

Insomma, il classico film fantasma, del quale forse si sono perse le tracce…se non fosse che Classic2vintage possiede quella che sicuramente è l’unica copia in italiano esistente in VHS, pazientemente registrata oltre 25 anni fa durante un passaggio tv.

Ed è anche di qualità più che accettabile.

Sinceramente non sappiamo nemmeno come sia possibile che esista un’edizione italiana di questo film.

E dopo aver fatto un po’ di cronistoria, andiamo adesso a parlare del film stesso.

In un’epoca nella quale il cinema psichedelico e sperimentale era cosa all’ordine del giorno, si pensò di lanciare Didn’t You Hear come “il primo film con colonna sonora totalmente elettronica! Sperimenterete suoni e sensazioni che non avete mai avuto prima“.

Della composizione della soundtrack, appunto, si occupò lo specialista in elettronica Mort Garson, operandola con il suo Moog modulare, mentre oggetto/sceneggiatura e regia (erroneamente attribuita al produttore Skip Sherwood) furono opera del nostro signor Krogstad.

Copertina del vinile

Mort Garson

Ma di cosa tratta il film?

Dunque, Kevin è uno studente del college con un’elevata sensibilità e con parecchi problemi a confrontarsi e vivere a contatto con i propri coetanei.

In pratica quello che oggi verrebbe facilmente liquidato come nerd sociopatico: estremamente timido e con una grande difficoltà a rapportarsi con l’altro sesso, vive in pratica quella difficile situazione nella quale una persona si trova ad essere quando è più matura e sensibile rispetto alla propria età fisiologica.

Impossibilitato a legare con gli altri nella realtà, si rifugia in sogni psichedelici ad occhi aperti dove lui e i compagni di classe (gli amici che non riesce ad avere nella realtà) si impadroniscono di un veliero abbandonato a pochi metri dalla riva, lo battezzano Regina di Saba e giocano alla vita dei pirati, solcando in lungo e in largo un arcipelago di isolette (principalmente Lopez Island e le San Juan Islands).

In questi viaggi, infarciti di dialoghi e considerazioni filosofiche interessanti e simboliche (“perchè gli umani ad un certo punto della vita smettono di giocare?” – ci stanno derubando della nostra individualità), incontrano gli abitanti delle isole e ne nescono situazioni spesso surreali e colorate.

E’ questa la parte degna di nota del film, assieme alla fotografia psichedelica e alle gestualità rituali e votate al simbolismo.

Per quanto riguarda invece la parte “reale”, girata nel campus della Washington University, è sicuramente prevedibile ma serve appunto come efficace preambolo di lancio per la parte onirica.

Krogstad si occupò anche della fotografia ed è piuttosto chiaro che il progetto gli stesse parecchio a cuore. Il risultato non è affatto male, la colonna sonora di Garson, ricca di sonorità particolari e atmosfere vintage, è sognante e psichedelica e si sposa ottimamente alle immagini surreali delle avventure che i novelli pirati psichici vivono tra le isole.

Passiamo al comparto recitazione: Kevin è interpretato da un giovanissimo Dennis Christopher, caratterista super prolifico e protagonista di alcune pellicole di culto come All American Boys e Dissolvenza in Nero (Fade to Black), probabilmente però in Italia il suo ruolo più famoso è quello di Eddy Spaghetti nella prima, ottima, versione di IT realizzata da Tommy Lee Wallace e Larry Cohen.

James, unico amico di Kevin nel mondo reale, è il noto Gary Busey e Paige, compagna dei sogni di Kevin, è l’affascinante Cheryl Waters, qua al suo debutto.

Dennis CHristopher

Gary Busey

Cheryl Waters

L’unico trailer reperibile è però virato sulle scarse scene d’azione presenti e non rende quindi un’idea reale del film.

Trailer del film

“I due mondi di Kevin” è una pellicola che, tutto sommato, conserva una buona freschezza e tiene vivo l’interesse alla visione e al suo messaggio giovanile che in realtà vale per tutte le età.

Il parere di Classic2vintage è che il film meriti la visione; l’augurio, a questo punto, è di riuscire a trovarlo.

Recensione del film alla prima

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Dedicato a Mario Maggi (parte terza)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Il nome lo scelsi dopo numerose notti insonni, doveva essere un nome breve che finisse con la X, è probabile che abbia influito anche Tex Willer, all’epoca Bonelli mi faceva impazzire… La grafica invece è stata in parte ispirata da una società di componenti elettronici, con questi tagli orizzontali che fecero scalpore; sottoposi la cosa al grafico in Elka e loro completarono le fonts necessarie."

Lorenzo

Il Synthex

Ed eccoci arrivati al capolavoro storico di Mario Maggi, quello che gli ha finalmente concesso la rivincita su Prophet e Oberheim, a fronte di maggior polifonia e grandi potenzialità tra cui il sequencer polifonico, il filtro multimode, il chorus, il ring modulator e un prezzo a dir poco vantaggioso rispetto alla concorrenza. Un capolavoro dalla genesi travagliata ma che ha finalmente visto trionfare il nostro ingegnere.

“Il Synthex è stata la conclusione logica di oltre 12 anni di lavoro con i sintetizzatori. Per capirlo bene, devi guardare lontano nel passato. Comunque, dopo aver programmato la produzione in serie del MCS70 venni a sapere che un nuovo dispositivo stava per arrivare sul mercato: un sintetizzatore polifonico chiamato Prophet-5. Questa era la ragione. Fino ad allora, avevamo un piccolo laboratorio con un piccolo numero di tecnici freelance, con cui abbiamo prodotto l’ MCS70. Fui quindi costretto a bloccare la costruzione di altri 9 MCS70 che erano in programma e iniziai a lavorare su un progetto polifonico io stesso…il progetto Synthex era iniziato. Per il Synthex, era chiaro che c’era bisogno di un’azienda consolidata con una fabbrica per un progetto così ampio.

Il nome lo scelsi dopo numerose notti insonni, doveva essere un nome breve che finisse con la X, è probabile che abbia influito anche Tex Willer, all’epoca Bonelli mi faceva impazzire… La grafica invece è stata in parte ispirata da una società di componenti elettronici, con questi tagli orizzontali che fecero scalpore; sottoposi la cosa al grafico in Elka e loro completarono le fonts necessarie.

C’è stato il prototipo che venne presentato alla Elka, con un pannello molto diverso da quello attuale: non aveva il chorus, non c’era il sequencer, c’era il minimo: due oscillatori, un filtro con vca, due inviluppo e un lfo, il minimo indispensabile. Però aveva già un suono che si riconosceva.

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Il primo abbozzo di programma per il Synthex, un programma da 1,5 Kb, è stato realizzato scrivendo a mano le istruzioni sulla carta e digitando con la tastierina esadecimale su un sistema di sviluppo a basso costo, calcolando tutti i salti relativi in esadecima a mano, non c’era niente di niente. Poi, man mano che il progetto andava avanti uscì un primo sistemino dove c’era un assemblatore. Mi attrezzai con questo sistema che aveva, di base, 256 bytes di RAM, zero memoria di massa, non c’erano floppy, non c’erano hard disk… niente.

Per fortuna c’era un’interfaccia a cassette e quindi, con due registratori audio, potevo salvare i programmi che altrimento dovevo scrivere su carta… In questo modo si potevano salvare i programmi e assemblarli; tempo di assemblaggio per un programma stile Synthex era pari a 5 minuti… impensabile per i ritmi di oggi.

Nei due anni di realizzazione per il prototipo del Synthex, (che finalmente aveva il microprocessore a bordo) bisogna comprendere anche il tempo necessario per imparare a scrivere software con strumenti primordiali; all’inizio, per visualizzare il programma, avevo a disposizione solo un display da venti caratteri, ad una sola riga… Dovevo leggere il programma una riga alla volta, successivamente riuscii a costruire una prima scheda video per poter visualizzare più caratteri tutti insieme, ma dovetti partire da zero perchè non c’era nulla di disponibile. Qualche anno dopo sono riuscito a mettere le mani sul primo floppy disc.

Nel Synthex c’è un unico processore – a quei tempi costavano una tombola e quindi il suo inserimento era considerato un lusso notevole – con velocità pari a 1 mHz, lo stesso processore dell’Apple II e del Commodore 64, il modello 6502 ancora oggi in produzione da parte della Western Design Center. L’antagonista di quei tempi era lo Z80, contenuto nel Prophet 5 e, prima ancora nello Spectrum Sinclair.

Inizialmente ho offerto il progetto a tre altre società prima che la ELKA alla fine accettasse. Per prima cosa l’ho offerto a Galanti, proprietario di GEM, poi a EKO e infine a Mario Crucianelli, proprietario di CRUMAR. Soprattutto i negoziati con CRUMAR sono durati diversi giorni, ma fortunatamente per me hanno finalmente rinunciato al progetto.

Dopo alcuni mesi, stavo per arrendermi.

Poi è successo che un amico decise di andare a Castelfidardo per far riparare il suo organo alla ELKA. decisi di andare con lui e portare con me il prototipo del SYNTHEX per fare un ultimo tentativo di trovargli un produttore.

Il direttore del dipartimento musicale di Elka e anche il consiglio rimasero estremamente colpiti dal suono e dalle molte possibilità. E senza perdere un secondo di tempo, mi chiesero se volevo presentare il Synthex alla prossima fiera della musica per testare le reazioni dei visitatori.

Due mesi dopo, insieme a Elka, presentammo il Synthex al Musikmesse, con funzionalità aggiuntive e un nuovo pannello. Ebbi modo di conoscere i partner di vendita Elka di tutto il mondo e, a sua volta, il giovane Paul Wiffen, che era stato assunto da Elka UK, e che in futuro sarebbe diventato anche il dimostratore Synthex.

A Francoforte arrivai con ben due giorni di ritardo, per i soliti problemi dell’ultimo secondo e appena arrivato sullo stand c’erano già due distributori che stavano aspettando per ascoltare lo strumento, non ebbi neanche il tempo di lasciare i bagagli in albergo: appoggiai il prototipo su un bancone e feci la dimostrazione con il sequencer polifonico.

E tieni presente che, a quei tempi, un sequencer polifonico funzionante era una cosa clamorosa, sopratutto incorporato in un sintetizzatore, era un’esperienza inedita. Subito dopo la Fiera c’era un bell’impatto di credibilità e, in Elka, si prese la decisione di partire con una prima serie di cinquanta strumenti.

La mia sensazione era che fossero troppi, mi prese il panico… non pensavo che sarebbe stato possibile venderli tutti (io avrei proposto dieci macchine), loro decisero cinquanta e invece azzeccarono in pieno le previsioni perchè gli strumenti furono letteralmente ingoiati dal mercato musicale.

Oggi, i primi cinquanta modelli li puoi riconoscere da un particolare: furono usate manopole costosissime, di produzione inglese, con il body verniciato di nero e questa vernice, con l’uso, tendeva a sgraffiarsi perdendo la satinatura, mettendo in vista il colore nero sottostante.

Gli strumenti successivi ebbero manopole fatte internamente alla Elka, da un loro stampatore di fiducia, che non presentano questo inconveniente. Comunque, tanto per tornare alle previsioni di mercato, non fecero in tempo a finire i primi cinquanta che furono obbligati a lanciare un nuovo ordine di altre duecento macchine.

La cosa è stata un crescendo continuo; non si faceva in tempo a costruirli e a consegnarli, i distributori erano assetati di macchine, era una situazione quasi tragica, se non fosse stata comica.

In Elka avevano una gran pratica di organi da casa, e -per facilitare la linea di produzione -proposero subito il mobile in legno con la possibilità di agganciare le gambe indipendenti; di listino, lo strumento era disponibile con un flight case, le zampe e la custodia delle zampe; non vennero mai prodotti dei pedali dedicati.

La macchina costava cinque milioni e mezzo dell’epoca; a quei tempi l’alternativa era rappresentata dal Prophet 5, che qui costava sette o otto milioni e poi Oberheim OBx, insomma c’erano solo macchine molto più costose che, tra l’altro, avevano una polifonia più ridotta e non possedevano sequencer interno.”

“Dopo la prima serie di 50 venne fuori il MIDI, una novità clamorosa; divenne necessario fare un retrofit. Per fortuna, sul Synthex avevo previsto un multiconnettore per l’interfaccia computer – prima che esistesse il MIDI ero già cosciente delle possibilità di controllo offerte dal microprocessore sulle voci dello strumento, per fargli fare cose che erano impensabili per uno strumento analogico.

Arrivato il MIDI, si fece un nuovo circuito stampato, si sostituirono le EPROM del software e si otteneva la compatibilità a livello di nota on/nota off, e sopratutto si ricevevano e trasmettevano le note da e per il sequencer interno.

C’è una serie di caratteristiche funzionali che oggi sono considerate uno standard, ma che sono state inserite per la prima volta in uno strumento musicale proprio con il Synthex; te le elenco: il filtro multimodo con gestione polifonica, il chorus analogico on board, il sequencer multilinee e multitimbrico, gli oscillatori ibridi.

Insomma, i milleottecento cinquanta strumenti costruiti dalla Elka a suo tempo (e non è un mistero per nessuno che, tra gli utenti “blasonati” è possibile citare Keith Emerson, J.M. Jarre, Tangerine Dream, Stevie Wonder, Nick Rhodes, Geoff Downes…insomma, gente col manico), oggi sono oggetto di una caccia spietata tanto da parte dei collezionisti vintage che da parte di musicisti “militanti”…

E allora perchè, partendo da quell’esperienza, non fare qualcosa di ancora più potente, analogico e definitivo?

Del resto io sono il proprietario del progetto, che ho creato assieme al nome, al logo, al layout del pannello, al design della circuit board e al codice delle eprom, quindi ho registrato il marchio di fabbrica a mio nome.”

Questo ha logicamente messo fine al sogno della finlandese Soundion (che dopo aver acquisito la Elka, sperava di poter fabbricare anche il Synthex) ma non a quello di Mario, che da anni sta lavorando alla nuova versione della sua creatura, il Synthex 2, le cui immagini indicative e le impressionanti specifiche si possono vedere sul sito di Maggi, di nuovo un’autentica innovazione in un settore dove è già stato fatto praticamente tutto e che ci auguriamo possa vedere presto la luce.

Da sempre uno dei maggiori e appassionati fruitori del Synthex, Jean Michel Jarre ci spiega il perchè del suo amore per questo sintetizzatore, che utilizza anche con la mitica interfaccia Arpa Laser.

Clicca sotto e guarda il video di Jean Michel Jarre che parla del Synthex e spiega il perchè del suo amore per questo sintetizzatore.

Ma cosa fece il nostro Mario, dopo l’avventura del Synthex, a cosa dedicò la sua brillante inventiva?

“Dopo il Synthex, ho realizzato diversi progetti al di fuori del mondo musicale (attrezzature di collaudo, apparecchiature medicali…) e poi ho fatto un equalizzatore parametrico, controllabile via MIDI, che ha la possibilità di morphing tra i parametri; una sorta di equalizzazione dinamica che può essere automatizzata completamente. Su questo progetto ci sono state lunghe trattative con la Audio Kinetics e con la Solid State Logic…”

Siamo riusciti a reperire anche un’affascinante testimonianza del suo fraterno amico Templeton, che parla proprio dei giorni della creazione del Synthex:

Artwork creato da Roberto Bellucci di Elettronica Musicale Italiana, per la prima edizione del “Museo del Synth Marchigiano e Italiano”.

“Mario Maggi aveva una sua filosofia personale e un modo unico di studiare e sviluppare i suoi progetti. Era avanti a tutti gli altri di almeno 10 anni. Assurdo che l’industria elettronica non abbia voluto sostenerlo nelle sue geniali ricerche.

Ricordo ancora molto bene i problemi con l’acquisto degli speciali integrati AD-DA dalla Intersil e altri produttori. Sapevo che fortunatamente Mario era supportato nella sua ricerca da altri giovani che lo aiutarono molto, alcuni dei quali fornendo gratuitamente la componentistica.

Da parte mia, ho rastrellato tutte le scorte di componenti d’Inghilterra per trovare degli integrati con le caratteristiche adatte!

Molti di coloro che prendevano ancora il biberon in quegli anni, e usano questo strumento oggi, hanno difficoltà a capire le dure condizioni alle quali questo grande e allo stesso tempo modesto sviluppatore ha dovuto lavorare in Italia. Quasi nessuno può immaginare quanto fosse difficile trovare uno sponsor per un nuovo progetto.

Mario Maggi si è praticamente sempre dovuto autofinanziare il suo lavoro, e questo vale anche per il SYNTHEX. Fortunatamente ha avuto piccoli aiuti dagli amici, come piccole donazioni, supporto logistico, fornitura di tonnellate di pasticcini (come carburante per il cervello), fornitura di componenti speciali e molto altro.

Ma tutto questo era solo una goccia nell’oceano, rispetto alla dedizione e all’investimento che ha portato questo uomo disinteressato a realizzare le sue idee.

Non è stato quasi mai supportato dalle pubbliche istituzioni e più avanti, è stato solamente sfruttato dalle varie ditte. Mario Maggi era, è, e sarà sempre, una persona capace e modesta, senza grandi pretese tranne il portare avanti il proprio sogno, gentile e generoso con tutti, un vero idealista.

È un uomo al quale si può affidare fiduciosamente la propria carta di credito e il proprio portafogli con la certezza che non si prenderà un soldo.

Ha collaborato con varie società nel campo della musica elettronica (Crumar – Elka). Aziende che ebbero una grande fortuna ad averlo come consulente tecnico, ma come tutte le aziende a scopo di lucro non sempre lo capivano come persona e come sviluppatore e finivano con lo sprecare il suo lavoro.

Electronic & Music Maker dell’Aprile 1983, articolo
sul Synthex

Mario era ed è un amico, un amico dei musicisti, di tutti i musicisti, anche quelli che non ha mai incontrato ma che apprezzano lui e gli strumenti che ha costruito. Una persona che amorevolmente si impegna a spiegare il lavoro che ha fatto sul Synthex.

Se solo una volta aveste visto il suo laboratorio, dove trascorreva ore a mettere a punto il software, riprogrammandolo, cancellando costantemente la eprom del Synthex per correggere questo e quell’errore.

Se almeno una volta aveste trascorso una delle migliaia di notti con lui, seduti a distruggersi gli occhi davanti al monitor a 14” a fosfori verdi, al costante, caparbio e paziente lavoro dalle 3 del pomeriggio fino alle 3 o le 4 del mattino…forse allora riuscireste a capire.

E agli amici che lo prendevano in giro per questa sua “ossessione” per il suo lavoro rispondeva sempre con un sorriso amabile e quando lavorava era sempre in piena serenità: mai un’imprecazione, nemmeno quando, rapidissimo, lavorava contemporaneamente alle tastiere di due computer, saldava, dissaldava, controllava con l’oscilloscopio, programmava e riprogrammava eprom senza sosta.

Mario per me era la felicità incarnata, unita a una competenza così unica che avrebbe potuto lavorare in qualsiasi grande centro di ricerca o alla Nasa.

Ma lui preferiva il suo mondo, il mondo della musica e della sua cantina-laboratorio.

Sfortunatamente, questo mondo da lui così tanto amato lo ha ben poco supportato, solo pochi gentiluomini tra i musicisti. Oggi avrebbe come minimo ricevuto i ringraziamenti di tanti. Ma Mario Maggi non ha ricevuto alcun ringraziamento da questo mondo. Se lo cercate su Internet, troverete tristemente solo 46 riferimenti in varie lingue su di lui (a partire dall’ottobre 2004) che ne hanno anche parlato perlopiù superficialmente e telegraficamente.

Sono convinto che se Mario Maggi avesse lavorato in America, i suoi progetti sarebbero diventati assai più popolari. Non voglio dire che non sia stato proprio supportato da nessuno, ma era troppo ‘piccolo’. Coloro che si offrirono volontari per lavorare con lui furono, come lui, gli ultimi idealisti e passeranno alla storia come illustri sconosciuti.

Il mio ultimo ricordo di Mario Maggi è stato quando lo sentii l’ultima volta (per ragioni professionali non ho avuto l’opportunità di venire in Italia e incontrarlo) e mi disse che era stanco, ma voleva continuare a lavorare con tutte le sue forze sul progetto DIGITAL MODULAR SYNTH (ndr. immaginiamo stia parlando del progetto conosciuto come Synthex 2).

Ricordo ancora i suoi occhi che irradiavano allegria e il nostro ultimo banchetto a base di dolci. Negli ultimi anni, ho cercato di trovarlo e incontrarlo di nuovo, ma senza risultato. Forse è davvero andato a lavorare in un altro mondo, dove ha trovato maggior apertura mentale verso le sue idee.”

Music Maker cover (aprile 1985) – Keith Emerson con il suo Synthex

Una recensione del canale YouTube SynthMania

Un recente splendido videoclip demo dei suoni del Synthex, realizzato dal collezionista e compositore Reuben Jones, al quale va tutta la nostra stima per la passione dedicata a questo synth!

L’ultimo video realizzato dal nostro amico Reuben Jones è una jam con tre dei più bei synth Italiani, tra i quali spicca il rarissimo Logan Vocalist

E’ notizia di questi giorni, di un esemplare di Synthex messo in vendita sullo stesso sito di aste online dove è stato venduto il guitar synth modulare, Vemia, che è stato restaurato e messo a punto da Mario stesso, forse è un segno che il nostro caro ingegnere è finalmente tornato al lavoro?

RINGRAZIAMENTI

Mille grazie a Roberto Bellucci, grande e appassionato conoscitore di strumenti Italiani, nonchè curatore della importante pagina Facebook Elettronica Musicale Italiana, per le generose consulenze e la gentile concessione del materiale in suo possesso. Grazie anche a Daniele, alias mr. VSMI, per la rarissima foto del misterioso mono synth.

Grazie ad Enrico Cosimi, per la sua ottima intervista a Mario Maggi e per i suoi articoli e commenti sempre illuminanti.

Grazie ad Amazona, per l’intervista che è risultata fondamentale per chiarire alcuni punti che erano oscuri, soprattutto riguardo al MCS70 e grazie anche a Marco Molendi e Andrea Manuelli per averlo fatto tornare in vita!

Brochure tedesca del Synthex con le specifiche al completo

Grazie a Templeton per il suo appassionato racconto dei momenti vissuti con Mario, che è servito a rendere un ritratto dell’uomo, oltre che del genio. Sempre sul bel sito di Robert Wittek si trova un bellissimo articolo che tratta estensivamente il Synthex, compresa la parte tecnica.

Grazie all’ottimo sito Tonehome.de per l’ottimo materiale fotografico sul Syntar e al sito Suonoelettronico.it per le specifiche e le informazioni tecniche a riguardo. Grazie a Francesco Mulassano di Soundmit per le immagini dell’articolo sul Synthex della rivista E&MM.

Infine,

Grazie a tutti i contributi degli appassionati (tra i quali Reuben Jones e MrFirechild per il loro amore e i loro bei video demo del Synthex) recuperati in ore ed ore di paziente e ostinata ricerca sul web: scrivere un articolo sul signor Maggi è stata una delle esperienze umanamente più appassionanti, belle e formative e, pur non avendo avuto modo di incontrarlo, questo ostinato, umile e mitico pioniere sembra di conoscerlo da sempre e si finisce davvero per amarlo come l’amico e il fratello che avremmo sempre voluto avere.

Chiudiamo quindi con un ultimo, fondamentale ringraziamento e un sentito augurio:

GRAZIE E LUNGA VITA, MARIO MAGGI !

Clicca sotto e scarica i consigli di Mario Maggi per l’utilizzo del Synthex

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Dedicato a Mario Maggi (parte seconda)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Con tutta probabilità il monofonico più potente ed accessoriato progettato e costruito ai tempi, il MCS70 fu un progetto di innovazione: molto facilmente il capostipite dei monofonici con le memorie (richiamabili addirittura in 5 millisecondi), realizzato ancor prima che fossero disponibili sul mercato le prime memorie su circuito integrato, doppio filtro, routing di modulazione complesso, tastiera con sensori a infrarosso che annullavano i problemi meccanici.

Lorenzo

Stabilità assoluta degli oscillatori garantita dai migliori componenti analogici mai prodotti, utilizzati in quello stesso periodo solo da Buchla e Roland. Uno sconosciuto ed oscuro capolavoro di ingegneria Italiana che ha resistito per quasi 50 anni alla prova del tempo e dell’evoluzione tecnologica.

Ma per capire meglio di cosa stiamo parlando è meglio dare uno sguardo alle specifiche sulla brochure:

Si trattava di una macchina totalmente avveniristica e Maggi pensava in grande, quindi per la promozione pensò alla creazione di un progetto discografico che avrebbe prodotto un 33 giri interamente creato utilizzando il solo MCS70: un’autentica demo da usare come campagna promozionale per la sua creatura, in vista delle fiere del seguente anno.

Maggi contattò l’amico Romano Musumarra del gruppo “La bottega dell’Arte” e che era già sotto contratto con la EMI.

Musumarra introdusse Maggi all’etichetta, la quale accettò la proposta, concedendo per sole 4 settimane i suoi studi di Roma e suggerendo Claudio Gizzi come membro da aggiungere al progetto, data la sua formazione classica e la maggior esperienza.

I due musicisti si occuparono della composizione di una facciata ciascuno, Gizzi il lato A e Musumarra il lato B, mentre Maggi stesso si occupò della programmazione del suo sintetizzatore e nacque così Automat, album di synth pop/dance che è diventato un mito tra appassionati e addetti ai lavori.

Dal disco vennero tratte almeno due hit di successo, delle quali una in particolare, Droid, venne successivamente usata per una miriade di sigle televisive in Italia e all’estero (in Brasile, grazie anche all’uso che la Rete globo ne fece, divenne una hit da classifica): nessuna sorpresa che sia ancora oggi un disco di culto, al quale si ispirano molte delle attuali synth band revivaliste.

Booklet dell’album Automat

Album Automat (1978)

Da questo glorioso debutto del MCS70 rimase particolarmente impressionato Jean Michel Jarre, che ricevette una copia di Automat direttamente da Mario Maggi nel 1978:

“Durante la Musikmesse ho conosciuto il sig. Cavagnolo. Mi invitò a Parigi per presentare il mio MCS70 in una serie di conferenze. Cavagnolo era stato contattato da Jarre una settimana prima per altre questioni, per questo aveva il suo numero di telefono. Il primo incontro che Cavagnolo organizzò per me dopo la manifestazione fu in privato con Jarre”.

Pare che Jarre fosse rimasto talmente impressionato dall’MCS70, da volerne acquistare uno all’istante.

L’MCS70 aveva ricevuto così tanti apprezzamenti che Maggi ormai faceva progetti per la grande produzione…però proprio allora uscì il Prophet 5, che, a causa della polifonia a 5 voci (benchè a detta di chi ha potuto esaminare entrambe le macchine, l’ago della bilancia della qualità pendesse decisamente a favore del MCS), mise purtroppo KO il glorioso MCS sul nascere, anche se Maggi si prenderà in seguito una bella rivincita morale sul Prophet, ma di questo parleremo in seguito.

E’interessante la descrizione che Maggi fa della sua creatura:

“MCS70 era un progetto di sintetizzatore monofonico programmabile, realizzato in un’epoca in cui ancora non c’erano microprocessori, era interamente costruito con logica discreta ed era l’anno che stavano arrivando i primi microprocessori. Fare un software per i nuovi componenti era un’avventura, non c’erano sistemi di sviluppo e tantomeno a basso costo.

Dopo diversi anni di costruzione di soli sintetizzatori convenzionali, con programmi non memorizzabili, nel 1972 ho realizzato che avrei potuto sviluppare una versione completamente programmabile di un sintetizzatore. Senza l’aiuto di nessuno, dovetti fare a meno di un microprocessore. Da quanto mi ricordo, scrissi i codici su un minicomputer DIGITAL PDP 11.

Era il primo programmabile monofonico della storia, con doppio filtro; uno dei due lavorava come passa basso 24 db e passa alto, sempre 24 db; i due filtri erano collegabili in serie o in parallelo, tre oscillatori, di cui uno con possibilità di FM lineare e, simultaneamente, AM. Il secondo modulatore era usato come modulatore per la FM e l’oscillatore 3 come modulante AM; poi c’erano due inviluppi.

Quando stavo presentando il modello MCS70, Tom Oberheim venne allo stand della Jen Elettronica dove ero ospitato e diede uno sguardo all’interno dell’apparecchiatura, rimase impressionato perché era il primo strumento programmabile, interamente programmabile voglio dire, che era in giro.

Lui faceva un qualcosa del genere ma era un programmer parziale, che influenzava solo una parte dei parametri, gli altri dovevano comunque essere riposizionati a mano. I suoni, soprattutto quelli in FM lineare, erano particolarmente inediti per quel periodo, anche perché era una sintesi tra forme d’onda complesse, non tra semplici sinusoidi come sarebbe successo anni dopo con la Yamaha DX7.

La tastiera era a quattro ottave. Ne venne realizzato uno solo, venduto poi a Patrizio Fariselli degli Area (se vuoi sentirlo, puoi ascoltare un album che si chiama Tic Tac).

Lo stesso strumento venne utilizzato anche per fare l’album Automat con Romano Musumarra, dove mi occupai di tutta la programmazione e ogni suono presente derivava dal mio synth, compresi accordi e batterie elettroniche. Accidentalmente, l’unico aiuto esterno venne dall’utilizzo di uno dei primi sequencer della Sequential Circuits, perchè ancora non ne avevo approntato uno per l’ MCS70.

Ho sentito recentemente Patrizio e mi confermava che lo strumento è ancora nelle sue mani, gelosamente custodito, e non mi è sembrato per niente intenzionato a volermelo restituire…”

Area – Tic & Tac (1980)

Pare che in seguito l’ MCS 70 sia stato utilizzato anche in “Magie d’ Amour” 1980 di Jean Pierre Posit, uno dei nomi d’arte di Claudio Gizzi stesso, ed in altri dischi dei quali non siamo però a conoscenza, prima di finire nell’arsenale di Fariselli e farsi onore su “La torre dell’alchimista”, brano che apre l’album “Tic&Tac”, per poi venire successivamente messo a riposo a causa dello scioglimento degli Area stessi.

Jean-Pierre Posit ‎– Magie D’Amour  (1980)

Fariselli stesso ne parla nella sua intervista pubblicata su Strumenti musicali, nel numero 243 del Giugno 2001:

“Ricordo il giorno in cui il mio Arp Odissey si ruppe irrimediabilmente, doveva essere il 1975, prima di un concerto a Roma: sound check nel pomeriggio, lo accendo e non funziona più. Frenetico giro di telefonate e mi suggeriscono di andare a trovare una persona che forse poteva fare qualcosa.

Fu così che conobbi Mario Maggi, uno dei pochi grandi progettisti di tastiere in Italia. Capì subito come non ci fosse nulla da fare per l’Odissey, perché occorreva sostituire una parte essenziale, e mi mostrò la macchina che lui stesso stava progettando, il prototipo che ancora oggi posseggo e che si chiama MCS70. Prototipo e unico esemplare rimasto, che comperai subito perché era proprio un sintetizzatore monofonico fantastico, immaginiamo un Minimoog all’ennesima potenza.

La qualità dei componenti era eccellente e soprattutto aveva 64 memorie, che rappresentavano allora una novità assoluta. Pensiamo al lavoro terribile che toccava sia a me che a Paolo Tofani in ogni situazione, di dover cioè tarare e ritrovare certe sonorità che andavano ricostruite ogni volta, consentendoci di poter sviluppare non più di quattro o cinque suoni a concerto. Di colpo avevo a disposizione 64 suoni memorizzati!”

Da quello che si apprende dall’intervista rilasciata da Maggi al sito web Amazona.de (https://www.amazona.de/interview-mario-maggi-der-elka-synthex-erfinder), di MCS ne dovevano essere realizzati almeno 10, che dovevano venire destinati a vari studi di Roma, e che il prezzo ai tempi era di circa sei milioni di lire, speriamo quindi di rivederne presto riemergere qualcun’altro!

Molto recentemente il buon Patrizio ha pubblicato un post sulla sua pagina facebook dove ha annunciato che il suo mitico MCS è in assistenza a farsi bello per tornare presto in azione, il che può solo renderci felici. Ha anche rilasciato tre fotografie di questa mitologica macchina, della quale le immagini finora purtroppo scarseggiavano. Eccole a voi:

AGGIORNAMENTO Febbraio 2020:
L’ MCS 70 è stato finalmente restaurato alla perfezione grazie allo specialista Marco Molendi che, in collaborazione con altri operatori, ha provveduto a rilasciare un primo video demo che analizza la struttura costruttiva e le capacità sonore di questa splendida e impressionante macchina:

MCS 70 Restoration

Seguono alcuni test audio effettuati da Andrea Manuelli durante il ripristino del MCS70 effettuato dal grande tecnico restauratore Marco Molendi:

MCS 70 Restoration Backstage

Marco Molendi e Patrizio Fariselli

Patrizio Fariselli – Andrea Manuelli – Marco Molendi

Ed eccolo, finalmente tornato in azione nelle mani di Patrizio Fariselli:
Patrizio Fariselli Trio – Caterpillar

Il Syntar

Immagine di Daniele Marziali VSMI

Il Jen GS-3000 Syntar è probabilmente la versione integrata del synth monofonico da chitarra, della quale Maggi parlava riferendosi a quella ancora in suo possesso, quella presentata al Musik Messe del 1978.

Pur essendo stato pensato specificamente per essere usato con la chitarra elettrica, alcuni tastieristi hanno fatto attuare una conversione per suonarlo con un controller keyboard. Logicamente nel caso di questo synth non era prevista una memorizzazione dei programmi e per i “preset” ci si doveva affidare ad una serie di schede da sovrapporre al pannello, nelle quali erano segnati i vari parametri del suono che si desiderava ottenere.

Per una più approfondita descrizione abbiamo deciso di riproporre il testo presente sul sito Suono Elettronico:

“Il Syntar della Jen può essere utilizzato con qualsiasi chitarra a cui va applicato il pick-up custom fornito dalla Jen, per le misure single coil o humbucking.

Il fissaggio dei pick-ups sulla chitarra avviene mediante nastro biadesivo, sistema comodo perché non bisogna forare il corpo della chitarra, tuttavia il fissaggio con il biadesivo pare non risulti sufficientemente stabile.

In dotazione al pick-up nastri biadesivi di diversi spessori, per la scelta della corretta distanza dalle corde.

Il pick-up è piuttosto alto e questo costringe ad alzare un po’ le corde della chitarra.

Il “Pitch to voltage converter” è un pò lento nel passaggio tra frequenze lontane ma sufficiente per un buon uso dell’apparecchio.

Una serie di regolazioni posteriori (da tarare con estrema cura) consente di regolare il segnale proveniente da ciascuna corda.

Sei leds rossi indicano quale corda sta controllando il sintetizzatore, un led verde indica la presenza del segnale di gate. Quando questo non si accende si dovrà procedere alla ritaratura dei sei segnali d’ingresso.

Si avverte la mancanza di un “Sample and Hold” (il circuito che mantiene la frequenza stabile anche quando il livello di segnale fornito dalla corda scende sotto il minimo richiesto per il funzionamento del sintetizzatore).

Questo limita indirettamente anche l’uso del generatore di inviluppo lasciando tuttavia allo strumento una buona versatilità.

Due sono i VCO con onde triangolari, dente di sega, quadra simmetrica e tre quadre asimmetriche. Molto comodo il commutatore di ottave che consente al chitarrista di collocare il sintetizzatore sopra e sotto la frequenza prodotta dalla corda.

I due oscillatori sono provvisti di controlli separati di volume.

Un LFO (low frequency oscillator) dispone di onda triangolare, dente di sega, dente di sega invertito, quadra a due quadre asimmetriche.

Esso può controllare il VCO (vibrato), il VCF (wha-wha), il VCA (tremolo). Può essere escluso mediante l’interruttore a pedale in dotazione.

Il filtro (VCF) è dotato di regolazione di frequenza, di taglio e di risonanza, le sue prestazioni sono in linea con il resto dell’apparecchiatura.

Il Syntar ha due generatori di inviluppo a tre sub-eventi: attack, release, sustain. Essi controllano separatamente il VCF ed il VCA consentendo una buona libertà nella generazione dei suoni, anche se in parte limitata dalla mancanza del circuito di “sample and hold”.

Il Syntar non è dotato di presets nè di memorie.

Lo strumento è dotato di astuccio rigido in cui trovano posto anche gli accessori.

La timbrica in generale è soddisfacente, peccato che, mancando un ingresso per i normali pick-ups della chitarra, non è possibile miscelare i suoni dello strumento con quelli generati dal sintetizzatore.

Il Syntar, è monofonico nonostante la presenza di due oscillatori, è provvisto di “glide” e dispone di due uscite: una per l’amplificatore e l’altra per la cuffia, con comodi controlli di volume separati, la precedenza delle corde per il controllo della frequenza è verso l’acuto.”

Jen Syntar by Maggi

due demo del Syntar.

-L’articolo continua nella terza parte: il Synthex

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Dedicato a Mario Maggi (parte prima)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Il nome di Maggi è indissolubilmente legato al suo capolavoro, il bellissimo sintetizzatore analogico Synthex. ma il geniale progettista ha avuto un passato tutto all’insegna dell’innovazione, che lo pone accanto a personaggi come Moog, Buchla, Taro, Pearlman.

Lorenzo

Con questo articolo viene ufficialmente inaugurata la sezione del sito che riguarda la Sintesi.

Il sintetizzatore, strumento elettronico attraverso il quale si cerca di riprodurre sonorità già note e di crearne sempre di nuove, vede il suo più noto esponente nei prodotti commercializzati dal celebre ingegnere statunitense Robert Moog ma esistono tutta una serie di inventori che hanno contribuito in maniera più o meno incisiva allo sviluppo del synth come strumento innovativo.

La musica e la ricerca dell’imitazione dei suoni sono antiche quanto il mondo. In effetti quasi ogni essere terrestre reca in sè lo strumento musicale più antico, la voce, che raggiunge delle capacità elevatissime nell’uomo, talmente tanto da poter essere facilmentemente considerato il primo sintetizzatore della storia.

Nel corso del tempo ne sono state estese le possibilita’ a livelli davvero affascinanti fino ad ottenere la polifonia vocale, se ne trovano esempi in particolar modo nelle culture asiatiche ma anche in musicisti a noi più vicini.

E’ il caso di Demetrio Stratos, il compianto cantante degli Area, che rese ampia dimostrazione delle sue eccezionali capacita’ vocali in alcuni dischi solisti dedicati proprio al tema del ‘suonare la voce’ e che illustrano ampiamente le sue incredibili capacità di polifonia vocale (diplofonia, triplofonia, suoni bitonali e difonici, fischio laringeo).

Ma esiste tutto un fervente movimento di artisti che stanno sviluppando il discorso della polifonia vocale, una esponente di spicco è la musicista tedesca Anna Maria Hefele.

Demetrio Stratos – Flautofonie ed altro (Cantare La Voce – 1978)

Hanna-Maria Hefele – Dimostrazione di Canto Polifonico

Torneremo comunque su questo argomento più avanti e passiamo invece ad occuparci del signor Mario Maggi.

Il nome di Maggi è indissolubilmente legato al suo capolavoro, il bellissimo sintetizzatore analogico Synthex. ma il geniale progettista ha avuto un passato tutto all’insegna dell’innovazione, che lo pone accanto a personaggi come Moog, Buchla, Taro, Pearlman.

Chi ha seguito il suo lavoro da vicino sa bene che Mario Maggi era avanti a tutti gli altri di almeno 10 anni e che l’industria elettronica italiana non ha fatto molto per investire su di lui e sostenerne la ricerca come invece sarebbe stato logico fare.

Eppure la sua storia, come scopriremo, è quella di un grande innovatore e, per la determinazione e gli enormi sforzi che ha dovuto sostenere per potere dare al mondo i suoi capolavori, anche di un vero e proprio eroe.

E non è affatto strano che, negli appassionati di synth italiani e negli addetti ai lavori, udire o leggere quel nome un po’ mistico, risvegli sempre un mix di affetto ed orgoglio nazionale, quel tipo di sentimento che scalda il cuore degli appassionati, come succede con l’Alfa Romeo e la Ferrari.

E’ quindi assolutamente doveroso dedicargli un omaggio e, trattandosi di un personaggio lontano dalle scene, del quale non è facile reperire notizie e ricostruire storia e cronologia, questo articolo verrà aggiornato nel corso del tempo, mano a mano che ulteriori notizie verranno alla luce, in modo da poter rendere un quadro più accurato possibile della storia di questa persona così affascinante.

Ma apprestiamoci ad iniziare.

Alla fine degli anni 60, un giovanissimo ingegnere elettronico innamorato del mondo dell’elettronica musicale, invia i suoi primi progetti alle riviste di settore. Il primo di cui si ha notizia ad oggi, pubblicato su CQ Elettronica, è un circuito di effetti che collegato a chitarra o organo produce “suoni spaziali”, probabilmente qualcosa di simile ad un ring modulator.

Primo circuito Maggi

Ma lasceremo che sia lui stesso a raccontare gli inizi della sua carriera:

“Quando avevo 17 anni creai un’intera collezione di effetti per chitarra per un amico. Un pomeriggio, venne a casa mia con un disco di Emerson Lake & Palmer e mi fece ascoltare Lucky Man. Il suono di quello che lui credeva essere un assolo di chitarra, lo aveva così impressionato da chiedermi di costruirgli un effetto che potesse far suonare la sua chitarra in quel modo.

Quello che lui pensava essere un effetto, tuttavia, non era una chitarra, ma il più meraviglioso solo di synth che avessi ascoltato fino ad allora. Io capii immediatamente che questo suono non poteva venire da una chitarra.

Una settimana prima, ero stato in un negozio di elettronica ed avevo scoperto una rivista con un’immagine impressionante sulla copertina. Nella foto c’era una grande tastiera per pianoforte con un pannello di controllo altrettanto grande con sopra un numero enorme di pulsanti colorati.

Arp 2500

Dalla rivista scoprii che si trattava di un ARP 2500 esposto in una galleria d’arte moderna a Milano. Alcuni giorni dopo contattai quella galleria e riuscii ad ottenere un appuntamento. Quando arrivai là, rimasi completamente solo per alcune ore nella stanza in cui l’ARP 2500 era in mostra e fui in grado di studiarlo ampiamente.

Riesco a malapena a trovare le parole per esprimere le emozioni che provai in quelle ore, ma fu allora che decisi di dedicare tutto il mio lavoro e la mia creazione allo sviluppo e alla progettazione di sintetizzatori.”

Ci spostiamo agli inizi degli anni 70, quando viene alla luce il prototipo monofonico ancora oggi in possesso ed uso di Enrico Olivieri del gruppo progressivo Metamorfosi e suo amico dai tempi di scuola, e grazie al quale il nome di Maggi entra a far parte dell’immaginario collettivo degli appassionati italiani ed esteri.

“Dopo l’episodio con il mio amico, ho iniziato a costruire il mio sintetizzatore monofonico.

All’inizio, avevo problemi a compensare le fluttuazioni di temperatura degli oscillatori fino a quando non ho trovato un circuito integrato che non era usato da nessuno in quel momento. Probabilmente perché era solo molto costoso. Usando questo integrato, improvvisamente mi sono reso conto che il mio primo sintetizzatore, in termini di stabilità dell’oscillatore, era di gran lunga superiore a qualsiasi altro dispositivo sul mercato.

Questa è stata la ragione fondamentale per cui ho deciso di continuare a costruire sintetizzatori. Volevo renderli sempre migliori.”

Questo synth chiaramente è possibile ascoltarlo nei dischi dei Metamorfosi e nei concerti che tutt’oggi il gruppo tiene.

Enrico Olivieri con il suo synth monofonico by Maggi

Enrico Olivieri (Metamorfosi):

“Tutto cominciò ai tempi della scuola, nel 1970, quando io e il mio amico Mario Maggi frequentavamo l’istituto tecnico per elettronica Enrico Fermi.

A quel tempo Roma pullulava di cantine e locali dove una miriade di formazioni musicali trovavano spazio per “provare” ed esibirsi e, mentre io passavo da una formazione all’altra (prima accompagnato dal mio inseparabile organo Farfisa, poi dall’organo Pari e dal piano elettronico Crumar, entrambi amplificati con un Leslie Lombardi 250 watt), Mario si dilettava a modificare amplificatori, ottimizzare effetti per chitarra e voce, e metteva il naso in tutto ciò che riguardava l’elettronica del tempo al servizio della musica, il più delle volte con risultati entusiasmanti.

Un giorno Mario m’invitò ad andare al suo laboratorio e, senza darmi altre spiegazioni, mi disse che voleva farmi provare una “bomba”.

Enrico Olivieri con il suo monofonico by Maggi e il Synthex

Una volta arrivato, sopra un tavolo che in quanto a disordine non aveva nulla da invidiare a quello del famoso Archimede Pitagorico della Disney, vidi un groviglio multicolore di fili elettrici in mezzo ai quali si distingueva a fatica un lamierino con alcuni potenziometri scoperti: si trattava del primo oscillatore con filtro passa-basso costruito dal mio amico.

Passammo l’intera nottata ad ascoltare e visualizzare sull’oscilloscopio sinusoidi, denti di sega, quadre modulabili, inviluppi di filtro e tutto ciò che poteva produrre quella piccola diavoleria, con la stessa curiosità di un bambino alle prese con il giocattolo nuovo.

Da quella sera, molti furono gli incontri durante i quali Mario mi faceva provare e ascoltare il risultato degli ampliamenti e miglioramenti del suo progetto; dopo una gestazione durata molti mesi, nacque un vero sintetizzatore monofonico, il primo costruito da Mario Maggi, che entrò di prepotenza a far parte della mia strumentazione. Ancora oggi, a distanza di 35 anni dalla sua costruzione, è perfettamente funzionante e lo utilizzo in tutti i concerti di Metamorfosi.”

Un estratto dall’album Metamorfosi (Inferno – Introduzione)

Di probabile derivazione del primo, fu quest’altro misterioso monofonico, che si pensa risalente alla prima metà degli anni 70, anche questo in un unico esemplare, e del quale purtroppo si sa poco, tranne che venne prodotto dalla Jen, in alcune decine di esemplari, con un’altra grafica di pannello e il nome ‘Synt-O-Rama’.

Di quelle decine di esemplari, ad oggi conosciamo solo quello in possesso di Lucio Kraushaar, che ne personalizzò il mobile costruendone uno in noce e che ci ha gentilmente fornito un’immagine, assieme a quelle del depliant e a questa piacevole testimonianza:

«Il primo synth lo progettò qui a casa mia, ero single e lo ospitai per alcuni giorni. Ai suoi aveva detto che andava in vacanza al mare, gli lasciai le chiavi di casa, io dovevo volare (lavoro). Lui dormiva di giorno e studiava la notte. Mi ricordo che per un turno mi dovevo alzare presto ma avevo la sveglia rotta. Avevo un registratore a cassette, Mario in quattro e quatr’otto fece un circuito che, collegato al registratore, mi svegliava con la musica.»

Synth derivati da questi due primi lavori vennero realizzati, tra gli altri, per Vittorio Nocenzi del Il Banco del Mutuo Soccorso, Roberto Turbitosi, Mario Natali. Il SYNTH monofonico disegnato da Mario Maggi era un vero gioiello di stabilità: nessuna traccia dei problemi di contatto dell’ Arp Odyssey, e non soffriva delle croniche perdite di intonazione del MiniMoog alle basse frequenze.
Il mono-synth di Maggi era stabile, estremamente stabile, e non c’è da meravigliarsi che Enrico Olivieri lo usi tutt’oggi.

Seguirà poi il guitar synth modulare che Maggi realizzò nel 1975 (anche questo in un esemplare unico) che gli venne commissionato da un cliente di Bologna e che adesso dovrebbe trovarsi in Francia.

Maggi Modular Guitar Synth

A quanto dichiara la casa d’aste che ne ha curato la vendita (link), il tecnico che lo ha revisionato sostiene si tratti di un lavoro dalla realizzazione altamente superiore, in termini di design e organizzazione dei circuiti, ai PPG di concezione similare.

Sembra che in quegli anni 3 fossero i personaggi ad occuparsi a studi del genere applicati al campo della sintesi: il signor Buchla, il team del signor Roland Ikutaro “Taro” Kakehashi e…indovinate un po’, il nostro Mario. E sostanzialmente dovrebbe trattarsi proprio di un progetto tecnicamente e qualitativamente comparabile a quelli di Buchla, personaggio con il quale gli studi di Maggi di quell’epoca avevano diversi punti in comune.

Racconta Maggi:

“Realizzai un monofonico modulare, con i patchcords per le connessioni, appositamente disegnato per essere pilotato tramite chitarra elettrica, il tutto per un cliente di Bologna. La conversione Pitch to Voltage era risolta con un filtro che si agganciava sul segnale di entrata togliendo più armoniche possibile, poi con una controreazione, se il segnale si abbassava troppo, il filtro si apriva automaticamente; poi c’era uno zero crossing ed un circuito che convertiva il tempo elaborato in una tensione corrispondente; gli oscillatori non andavano in deriva termica (a differenza di quelli Moog del periodo, ad esempio).

Poi ci fu una versione integrata del sintetizzatore per chitarra, di cui posseggo ancora il prototipo. Sul prototipo c’è ancora attaccato un adesivo della MusikMesse 1978…un documento storico!”

Come suona il guitar synth modulare di Maggi. Per l’originale vai al link

A quanto pare questo stesso guitar synth passò anche dalle mani di Hank Marvin degli Shadows, come ci dice questa rara foto dell’epoca.

Maggi aveva però già intuito che le cose stavano cambiando e che la maggior diffusione dei synth, anche per uso domestico, aveva portato alla necessità di macchine con interfacce sempre più user-friendly rispetto all’essere costretti a modificare continuamente i parametri per ottenere il suono deisderato e che si sarebbe sentita la necessità di poter memorizzare i propri suoni, senza dover per forza usufruire solamente dei preset di fabbrica.

Ai tempi però i microprocessori a basso costo ancora non esistevano, perciò già nel 1974 si era messo al lavoro su di un progetto di logic board a componenti discreti che gli permettesse di evitare l’uso degli appunto indisponibili processori e che, unito alla creazione di una rivoluzionaria tastiera a sensori ottici, che permetteva di evitare le noie date dai contatti elettromeccanici, porterà nel 1977 al completamento di MCS70, ovvero Memory Controlled Synthesizer.

Ma di questo parleremo nella SECONDA PARTE.

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La storia degli effetti Cosmosound, Silversound, Goldsound – intervista a Sandro Marchetti (parte seconda)

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Continua l'intervista a Sandro Marchetti, creatore dei pedali Cosmosound, Silversound, Goldsound.

Lorenzo

C2V: “Sandro, come nacquero i pedali in stile Fender?”

SM: “Nel ’76 Baldoni ebbe l’idea di riprendere il case dei Fender Blender in estruso di alluminio, anche il principio degli effetti era simile ma in realtà i circuiti erano un po’ diversi, abbiamo creato i distorsori (E-6 Powerful Sound e E-8 Wild Sound) e ci abbiamo aggiunto anche altri effetti (ndr. il distorsore con tremolo Cosmosound E-7 Fearfully Sound, tremolo che fu fatto anche come effetto separato, E-5 Shaking Sound). Tra l’altro arrivarono richieste dai chitarristi per un riverbero esterno da poter collegare agli amplificatori che ne erano sprovvisti. Di conseguenza creai un modulo in stile rack con riverbero a molla con più ingressi e controlli di volume e tono da poter utilizzare con chitarre e tastiere (CSE-10). Poi venne il Leslie elettronico Cosmosound (CSE-18): all’inizio li facemmo con le linee di ritardo ITT ma il costo era alto quindi ne facemmo pochi pezzi e nel frattempo ne studiammo uno con gli operazionali 741, molto più piccolo, che in pratica era un phasing doppio con due forme d’onda che funzionavano in opposizione simulando proprio il suono leslie. In seguito abbiamo ricreato anche l’effetto di cambio velocità. Agli inizi fu un po’ difficoltoso regolarlo ma con la pratica diventò una cosa estremamente rapida.”

C2V: “Ecco, a proposito di Leslie, ne producevate solo di elettronici o anche meccanici?”

SM: “No quelli erano solo elettronici, un leslie meccanico lo feci nei primi tempi alla MET, Baldoni e Polverini (Logan, GIS) stavano cercando un nome adatto e io uscii fuori con Rolling Sound, che piacque moltissimo. Ne facemmo alcuni campioni ma poi smisi di occuparmene perché nel frattempo, nel 1975, uscii dalla EME per dare vita, assieme e a Baldoni, alla ditta dove mi dedicavo ai pedali, la EF-EL, e il progetto del Rolling Sound K200 venne passato alla MAC di Carlo Mandolini la quale lo rinominò SC200 R e ne cambiò il mobile, mentre quello creato da me era decisamente più piacevole rispetto alla media degli altri leslie, anche se poi altri produttori una mezza scopiazzata gliela diedero, a quel mobile lì…del resto ai tempi era normale. Con la EF-EL creai anche dei componenti Hi-Fi e dei piccoli amplificatori da chitarra da 5 e 10 W, di quelli ne furono fatti parecchi. Degli ampli Hi-Fi (ndr. marchio MARSAN, che sta appunto per Marchetti Sandro) vennero prodotti modelli da 25 e 40 RMS e anche una tiratura limitata di 7 esemplari da 75+75w rms su 8 ohm, dei quali uno l’ho fatto per me e lo uso regolarmente.”

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C2V: “E tornando ai tuoi pedali, per quali altri marchi venivano prodotti?”

SM: “Li abbiamo fatti per vari marchi, anche per Meazzi e Vox.”

C2V: “E questo spiega perché si trovano gli stessi pedali Cosmosound a marchio Vox.”

SM: “Esatto, ai tempi a Montecassiano c’era la EME di Ennio Uncini (il padre del campione di motociclismo Franco Uncini) che aveva molti contatti all’estero e che produceva e importava per la Thomas e anche per Vox, anche se non ho idea di chi producesse gli amplificatori. Mi chiese se volessi fare i miei pedali con la scritta Vox e io accettai. Ma poi li feci anche per altri, per esempio Crosio di Parigi, un grosso negozio che importava le fisarmoniche, mi chiese i pedali e io glieli feci. Ma anche DO RE MI (poi diventata C D E, di Alfonso Barabino) e Cavagnolo ci distribuivano I Goldsound e i Silversound a tappeto in Francia. In seguito però sorsero problemi col mio socio Baldoni, inoltre il mercato dei pedali in quell’epoca cominciò a scendere e la produzione dei pedali rallentò. C’è da capire che il mercato va dietro alle mode, una volta nelle Marche era tutta una produzione di fisarmoniche, poi solo chitarre e tu vedevi ovunque complessi che suonavano solo chitarre, la Eko faceva gli straordinari nella produzione. Poi cominciò il periodo degli organi e tutti gli altri produttori aspettavano il modello nuovo della Farfisa per studiarselo e, anche se non i circuiti, almeno l’idea generale dello strumento gliela copiavano.”

C2V: “Quindi tu cosa facesti in seguito?”

SM: “Nel 1976 lasciai la EF-EL a Baldoni e andai alla Logan, con la quale avevo già cominciato a collaborare per gli organi. All’epoca la Logan era appena partita, agli inzi andai a dargli una mano e poi finii per rimanere con loro. Logan ai tempi produceva una tastiera di strings che era risultata la migliore in giro, poiché, al contrario delle altre ditte che usavano solo 2 linee di ritardo ITT (tra cui la Eminent, che aveva brevettato le tastiere strings), usava ben 3. Il capo tecnico della Logan, Costantini, aveva fatto alcuni esperimenti quando era stato precedentemente a lavorare alla Farfisa e si era reso conto che più linee di ritardo c’erano e migliore usciva il suono prodotto. Si avevano in pratica 3 oscillatori sfasati di 120° tra loro, con notevoli risultati finali. Alla fine chi la ascoltava restava innamorato e andò che i migliori gruppi usavano questa tastiera di violini. Il problema fu che la Elka fu la prima a produrre le Strings e anche la prima a portarle alla fiera di Francoforte, di conseguenza vendette tutto perciò la Logan, che arrivò in ritardo, rimase fregata per quell’anno. Ma le cose andarono ben diversamente l’anno seguente e la Logan vinse su tutti i fronti. Morale, io rimasi in Logan fino al 1982 e finii la mia carriera nel mondo degli strumenti musicali con loro perché dopo ci fu la crisi, alla quale i giapponesi contribuirono non poco: i primi anni vennero a Francoforte e fotografarono tutto quello che vedevano, non gli sfuggiva niente. In seguito si presentarono con prodotti migliorati sia esteticamente che tecnicamente migliorati, cogliendoci di sorpresa e mettendo fine alla storia della produzione italiana.”

C2V: “E questo accadeva alla fine degli anni 70, un vero peccato…”

SM: “Eh si, perché fino ad allora si stava benissimo e c’era un mare di lavoro per tutti, eravamo sommersi dalle richieste. Del resto i giapponesi avevano aiuti dal governo che noi, come al solito, non avevamo (pare che il governo giapponese pagasse in anticipo alle ditte gli strumenti che venivano esportati e si occupasse poi di gestire i pagamenti dilazionati dei vari clienti).”

C2V: “E da qua si entra nella storia che tutti in Italia ben conosciamo. Tornando  di nuovo ai Pedali, come funzionava il ciclo di costruzione?”

SM: “Agli inizi, quando ero ancora alla MET, progettai il tutto e ne avviai la produzione. In seguito, quando avviai la EF-EL, la MET (che aveva officina meccanica) continuò la produzione della parte meccanica e io mi occupavo di farli verniciare e finirne l’assemblaggio: montaggio della parte elettrica, finitura, collaudo e imballaggio.”

C2V: “Anche di applicare i vari marchi ti occupavi tu, quindi. Quali erano, ti ricordi?”

SM: “Eh, ricordarli tutti è difficile…c’erano i G.I.S., che aveva l’esclusiva in Italia di vari marchi e gli EUR che erano per i mercati paralleli.”

C2V: “Ce ne sono in giro anche di marchiati JEI, GUN, WERSI, ZENTA, EMTHREE (che è sempre Meazzi), MAC e ovviamente della tua EF-EL.”

C2V: “E come funzionava invece la promozione? C’erano già i dimostratori di strumenti?”

SM: “Si, eccome, noi avevamo Johnny Charlton dei Rokes e anche Peter Van Wood, che si prendeva più che altro i prototipi, tutte le cose “strane”: avevamo fatto un prototipo di octaver con ottava alta e bassa che era una cannonata, l’intento era quello di perfezionarlo e metterlo in produzione ma se lo prese lui e non lo vedemmo più, poi nel frattempo io me ne ero già andato. Un altro prototipo che facemmo era distorsore, repeat e un altro effetto che adesso non ricordo, il tutto controllabile con i piedi (ndr. la descrizione ricorda molto quella dell’Eko Multitone), ma erano cose che perlopiù non entravano in produzione perché non c’era mercato.”

C2V: “Dopo il settore musicale su cosa ti sei orientato?”

SM: “Mi sono occupato di tutt’altro, dai rubinetti elettronici, sia come meccanica che elettronica, alla creazione di prototipi in plastica e alluminio di apparati di illuminazione per la Guzzini, i cataloghi venivano realizzati con quelli. Da dopo la pensione ho coltivato l’hobby dell’aeromodellismo e ho costruito una decina di motori, a scoppio due e quattro tempi, a vapore, aria compressa, che sono stati pubblicati su riviste del settore.”

C2V: “Una vita all’insegna dell’artigianato vero e poliedrico, complimenti! Benissimo Sandro, a questo punto non mi rimane altro che ringraziarti per questa bellissima chiacchierata e per tutte le informazioni che ci hai dato!”

SM: “Figurati, è stato un piacere!”

Ringraziamenti

Si ringraziano ToneHome ed ElectricMister per la gentile concessione dell’uso di alcune delle immagini presenti nell’articolo.
Un ringraziamento all’amico Sebastian Galassi per la foto del Rolling Sound K200.

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La storia degli effetti Cosmosound, Silversound, Goldsound – intervista a Sandro Marchetti (parte prima)

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Gli anni 60 e 70, come ben sappiamo, furono un periodo di enorme fermento creativo per la nostra penisola e in particolar modo per le Marche, dove si trovavano i grandi numeri della parte creativa e manifatturiera.

Lorenzo

Sandro Marchetti

E fu grazie all’ingegno e alla creatività di persone come Oliviero Pigini e Remo Serrangeli (Eko reparto chitarre), Terzino Ilari (EME ed Eko reparto elettronica), Aldo Paci e Giuseppe Censori (Eko reparto elettronica), Carlo Lucarelli (Farfisa, che lasciò nel 1976 per aprire la Siel), Giovanni Livieri (CRB), Bravi e Jura (Crumar synth), Orsetti e Pannelli (Crumar organi), Elio Zamorato (Farfisa, Elka), Alfredo Gioielli (fondatore di Pari e Milton), Marcello Colò (collaudatore e creativo CRB, Elka, Gem – Generalmusic, Ketron), Sandro Marchetti (EME, EF-EL, Logan) che furono creati gli strumenti marchigiani che invasero il mercato, lasciando un marchio ancora oggi indelebile.

Dietro a quelli che sono, assieme ai Jen, i pedali più famosi della produzione italiana, si cela la mente di Sandro Marchetti, poliedrico tecnico elettronico e meccanico marchigiano. Siamo fortunatamente riusciti a contattarlo per chiedergli di svelarci i segreti di questi ancora misteriosi pedali effetto e lui, con molta gentilezza e disponibiltà, ha accettato ed ecco finalmente tutta la storia della creazione di questi mitici effetti:

C2V: “Sandro, com’è iniziata la tua avventura nel campo degli strumenti musicali?”

SM: “Allora, ho inziato nel 1960 con la MET (Micro Elettro Tecnica) di Carlo Baldoni (MET, Logan, GIS, EF-EL) come tecnico progettista di motori elettrici in corrente continua a 6 espansioni polari che dovevano servire per magnetofoni, che erano gli apparecchi che “tiravano” ai tempi. Questi motori furono passati alla Phonola ma nel frattempo il mercato era cambiato e cominciarono ad andare le fonovalige (giradischi portatili) perciò fui costretto a progettare un motore a 3 espansioni adatto alle fonovaligie, per i quali brevettai anche un braccetto con contrappesi.”

C2V: “Ah, il classico giradischi con il quale siamo cresciuti!”

SM: “Si, e le fonovaligie inizialmente avevano un problema, la puntina aveva un braccetto che la premeva con troppa forza sul disco e dopo il primo ascolto il disco era da buttare. Così fui costretto a inventarmi questo sistema di contrappesi per ridurre la pressione del braccetto e funzionò molto bene. A seguito del calo di richieste dei mangiadischi venne fuori quella degli strumenti musicali e, oltre alle parti meccaniche ed elettroniche per chitarra per ditte come Eko, Melody, Welson (ndr. tra le quali la bellissima borchia dado conica che blocca gli ingressi jack che troviamo anche in buona parte dei prodotti italiani dei tempi), creai dei pedali volume per la gran parte dei produttori di organi della zona (Crumar, Elgam, Logan, Moreschi etc.) e da li iniziai la progettazione e realizzazione di vari pedali effetto ispirati a quelli presenti sul mercato ai tempi ma anche di scatolette da inserire direttamente nell’input della chitarra, tra le quali preamp, booster per bassi e alti e altri effetti.”

C2V: “Ed eccoci arrivati ai pedali…”

SM: “Si, uno dei primissimi fu il wah con distorsore, che era quello che andava per la maggiore, e i vari distorsori. Dopo facemmo il Phasing, che rispetto agli altri era particolare in quanto per creare la sfasatura del suono usavamo dei transistor FET (transistor ad effetto di campo) che erano tutti selezionati, cosa che gli altri produttori non facevano e di conseguenza la rotazione non risultava bella. Invece noi utilizzando i FET selezionati avevamo ottenuto una modulazione perfetta. In seguito vedemmo che immettendo il segnale di uscita nell’ingresso del phasing veniva fuori un filtro attivo che produceva un effetto somigliante ad un sintetizzatore e quello lo chiamammo Super Phasing. Nonostante i nomi fossero Cosmosound, Silversound e Goldsound, i pedali avevano gli stessi circuiti ma ne venivano variati l’estetica e il nome a seconda delle richieste del distributori dei vari paesi.”

(L’intervista continua nella SECONDA PARTE)