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Personaggi Storici

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Eko – gli anni ’80

By Amplificatori Vintage Italiani, Bassi Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Oliviero Pigini, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Siamo giunti al termine dell'epopea Eko, un'avventura che corre lungo tre densissimi decenni e che vede la sua conclusione con le serie Master, Performance e SA, al tempo stesso punta di diamante e canto del cigno dello storico marchio.

Lorenzo

La fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 avevano visto la nascita di grandissimi strumenti interamente in massello e con tavola armonica in abete Val di Fiemme, come la Alborada e la Giuliani per le chitarre classiche e la Korral Special e la Chetro per le acustiche.

Della Giuliani, il catalogo del 1981 citava:

“Chitarra da concerto costruita solo su ordinazione. Strumento eccezionale sotto tutti i punti di vista etc. E segue: “La Giuliani è l’unica chitarra oggi reperibile per la quale il fabbricante può garantire il livello sia di potenza che di qualità del suono. Soltanto gli strumenti che superano le severissime prove di collaudo finale dell’ E.A.R.L. (LABORATORIO DEI RICERCHE ACUSTICHE) ottengono infatti il nome Giuliani.”

Sul versante elettrico erano nati gli strumenti in monoblocco, sia bassi che chitarre, come la M24, la M20, la CX7 ed i bassi BX7 e MB21. L’hardware era in ottone massiccio e veniva prodotto nelle officine interne assieme agli ottimi pick-up (antironzio in esaferrito di bario ed in alnico 5° americano – speciale lega di alluminio, nickel, cromo, cobalto e rame) che venivano offerti come alternativa ai DiMarzio.

Articolo su Strumenti Musicali 1981 – clicca sulle immagini per leggere

Ci fu anche una piccolissima produzione di DM, ovvero le versioni doppio manico della M24 che furono create a 10 (chitarra e basso), 16 (chitarra 12 corde e basso) e 18 corde (manico 6 e manico 12).
Altri nuovi modelli furono la C33 e la C44 con il corpo in acero massiccio dello spessore di 42 mm e manico sempre acero.

Sempre nel periodo fine anni 70 inizi anni 80 nacque anche la famosa M33 Short Gun, conosciuta comunemente come “Fuciletto” per la strana forma del corpo (sempre in massello di Val di Fiemme) a forma di calcio di fucile.
In quegli anni iniziò anche una collaborazione con la Camac per il mercato tedesco.

Unibody M24

Unibody M24 e SC800 nel film “In viaggio con papà”

Unibody M20

Unibody DM 10, 16 e 18

Camac

Con la stessa tecnica nacque anche la C11, ispirata alla SG di Gibson. Anche la serie dei bassi si rinnovò con una nuova serie: a fianco alle chitarre C01 e C02 fu creato il B02 con le stesse tecniche costruttive e manico a scala corta.

Per i bassi scala lunga stile Fender nacquero il B55 ed il B55S, sempre con il corpo abete Val di Fiemme con finiture Natural, Cherry e Walnut (ordinabile anche fretless).

Discorso a parte fu la rara C22, una bella Les Paul molto leggera ed estremamente suonabile, costruita con un legno particolare di nome Jelutong. Ne furono fatte talmente poche che è quasi irreperibile e chi ne ha un esemplare lo tiene o se lo fa pagare caro.

Anche per queste linee era prevista la scelta tra pickup Eko o DiMarzio (la lettera S finale nella sigla significava che lo strumento montava i DiMarzio).

C11

C02

B55

CX7 Artist

C22

Il primo sistema di elettrificazione delle acustiche fu lo Shadow piezoelettrico (i migliori pickup sul mercato di allora) e di conseguenza nacque anche l’esigenza di avere un amplificatore da abbinare allo scopo. Al reparto della sezione amplificatori, il cui responsabile era Ferdinando Canale (poi fondatore della SR-Tecnology e della Sound Engineering), crearono il meraviglioso ed eccellente SC800, con cabinet in Val di Fiemme, del quale vennero prodotti due lotti da 50 esemplari.

Nei primi anni 80, per quanto riguarda la produzione delle chitarre, la sezione delle classiche vide, oltre alle già esistenti Alborada e Giuliani, la nascita delle Conservatorio 51 e Conservatorio 53, entrambe con tavola armonica in Abete Val di Fiemme massello e la Carulli tutta completamente in massello.

Per le acustiche, dal 1983 anche la Eldorado acquistò la tavola armonica in massello di Val di Fiemme e nacque il modello D100FP sempre con tavola in massello in pregiato Val di Fiemme.
Nel 1984 Korral e Chetro rimasero in produzione, scomparve la Ranger e subentrò la AW nelle versioni a 6 e 12 corde con amplificazione elettromagnetica al manico oppure rilevatore piezoelettrico al ponte.

La linea delle acustiche

Il modello di punta della chitarra classica divenne la TK Classic, a cassa bassa interamente in massello e con sistema di preamplificazione, della quale furono costruiti solamente una trentina di pezzi.
La Tk venne introdotta anche in versione Acoustic, sempre a cassa bassa e con preamplificazione (modello molto simile alla Takamine Ef391MR).

Ai tempi i più grandi musicisti italiani utilizzavano gli strumenti acustici EKO. Le Korral e Chetro erano comunemente suonate da Guccini, Franco Mussida, Teresa De Sio, Stefano Rosso, Ricchi e Poveri, Mauro Pagani, Mario Castelnuovo, Marco Ferradini, Lucio Violino Fabbri, Claudio Baglioni (anche con SC800), Ivan Graziani, Goran Kuzminac, Ricky Gianco, Fausto Leali, Francis Kuipers, Edoardo Bennato.

TK Classic

Per gli strumenti elettrici, nel 1983 arrivarono la M6 e la M7 che montavano Pickup “Magnetics”, entrambe attive, e i bassi MB9 e MB10, anch’essi con Pickup “Magnetics”.

Nel 1984 vide la luce la serie Master con i modelli M4, M4 e M4S Electroacoustic (presentate alla fiera di Milano appena prima del fallimento), la M5, la M7 e la M7 Deluxe. Il sistema Electroacoustic era un brevetto EKO che prevedeva un pickup piezoelettrico con 6 sellette separate inserite nel ponticello di una chitarra elettrica.

Nacque anche la serie Performance con le chitarre P100, P100 DeLuxe, P200, P200 DeLuxe. Tali modelli avevano corpo in ontano massello e manico in acero. La P100 Gipsy era come la P100 ma aveva un amplificatore incorporato con altoparlante tra il pick-up al ponte ed il manico.
I bassi della serie performance erano i B25 ed i B55.

M4S

P100

M4 Electroacustic

M5 (foto di Atraz)

M7 DeLuxe

Per venire incontro alle esigenze di un pubblico giovane rockettaro nacque anche la serie Tunderbolt, con il modello T40 (pick-up humbucker DiMarzio al ponte) e la T50 con due pick-up e nuovo design del corpo.

Anche le semiacustiche furono rinnovate, con i modelli SA29, SA39, SA39 Custom. I modelli di punta erano la SA396 e la SA396 Custom, entrambe con cassa da 60 mm e pick-up Attila Zoller oppure DiMarzio DP106.

Nel 1984 cominciarono a venire al pettine tutti i nodi dei problemi finanziari dell’azienda che, di conseguenza, chiuse nel 1985. L’istanza di fallimento è in data 21 maggio 1986 a cui segue una vendita gestita dal curatore fallimentare e così, tristemente, finisce la storia della VERA EKO.

Thunderbolt

Le semiacustiche SA

SA39

Ekoisti anni ’80

Franco Cerri con M-24

Ivan Graziani con Korral

Ivan Graziani con M-55 “Fuciletto”

Edoardo Bennato con Ranger 12 Electra

Edoardo Bennato con Korral e Lucio Bardi con M-24

Edoardo Bennato prova la sua E85 nella sala prove Eko

Franco Mussida (PFM) con DM-18

Patrick Djivas con MB-21

Patrick Djivas e Franco Mussida

Flavio Premoli (PFM) con Ekosynth P15

Rino Gaetano con un raro Bouzouki Eko

I Fratelli Balestra (Rocking Horse, Superobots) con le Crossbow (balestra, appunto), derivazioni della M33 “Fuciletto” scherzosamente create per loro dalla Eko

Bobby Solo con M-24

La Bottega Dell’Arte con una Fuciletto e un mini-ampli Polyphemus

Bernardo Lanzetti (Acqua Fragile – PFM) con una M-24

Donatella Rettore con una M-33 decorata con il Sol Levante

CLICCA IL PULSANTE E GUARDA!

Donatella Rettore – “Oblio” con CX-7 Artist  (alias “la Stratokiller”), M-24 e BX-7 

I Knack con le Fuciletto

Shane McGowan dei Pogues con una Ranger 12

Andy Wickett (ex Duran Duran) con Ranger 12

Ricchi e Poveri con Chetro e Korral

Vasco Rossi con Ranger 12 Electra

Roberto Puleo e CX-7 Artist “Stratokiller” con Riccardo Fogli

Ekoisti oggi

Mauro Pagani (PFM) con Bouzouki e Chetro

Fausto Leali e una delle primissime Korral

Giorgio Zito (Edoardo Bennato) con Ranger 12 Electra

Claudio Prosperini (Stradaperta – Venditti) con una rara M-24 12

Teresa De Sio con Korral

Francis Kuipers con la sua Korral Special autografa

Chiara Ciavello con Florentine single cutaway

Cristiano De Andrè con Bouzouki

Federico Poggipollini (Ligabue – Litfiba) con una 500

Saturnino con B02

De Gregori con 100/M

Johnny Winter con Ranger 12

Phil Rocker con 500

Sean Lennon con Ekomaster 400

Salutiamo e ringraziamo l’amico Julien D’Escargot per gentilissima e fondamentale consulenza e per l’enorme quantità di materiale messo a disposizione: senza di lui l’intero articolo Eko non sarebbe stato possibile.

Parte del materiale è stata reperita dal gruppo FB “Eko vintage guitars”, dove ex personale Eko e appassionati condividono immagini in loro possesso o trovate sul web. Un sincero ringraziamento va quindi anche a tutti loro.

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EKO – Gli anni ’60

By Amplificatori Vintage Italiani, Bassi Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Oliviero Pigini, Personaggi Storici, Sintetizzatori Vintage Italiani2 Comments

La Eko fu non solo la più grande fabbrica di chitarre d'Italia ma anche uno dei maggiori successi mondiali nel campo degli strumenti musicali. L'artefice di tale successo fu un personaggio di nome Oliviero Pigini e a lui dedichiamo questa mostra virtuale di celebrità che hanno imbracciato i suoi strumenti.

Lorenzo

Oliviero Pigini, fondatore della Eko

Oliviero Pigini fu un leone dell’industria italiana che, dalla fondazione della Eko nel 1960, riuscì da solo a portare la quota delle chitarre italiane esportate nel mondo dallo 0,8% del 1956 al 12% del 1965.

Dopo un inizio come produttore di fisarmoniche, Pigini decise di rivolgere la sua attenzione alle chitarre e nel 1956 fondò la Giemmei (Giocattoli Musicali Italiani) a Castelfidardo, con la quale gestiva la vendita per posta di chitarre di liuteria siciliana e importate dalla Jugoslavia.

Nel 1959 fonda la Eko S.A.S. di Oliviero Pigini & Co. e nel 1960 rilevò un ex-stabilimento di fisarmoniche ed inizio la produzione in proprio con il supporto di CRB Elettronica, che già dal 1958 progettava e produceva pick-up su richiesta di Pigini.

Nel 1964 la Eko si trasferirà a Recanati, dove, mentre Pigini e Augusto Pierdominici disegnano chitarre e bassi a marchio Eko, la fabbrica produrrà strumenti anche per altre grandi ditte come la Vox.

Nel 1965 inizia la produzione delle chitarre con i nomi di animali (Cobra, Barracuda, Dragon, Condor, Cygnus) e le nuove chitarre signature come Rokes, Kappa, Auriga, Pace.

Nel 1966 fonderà La Comusik, con la quale gestirà la commercializzazione degli strumenti (Eko, Vox, Thomas) e la Genim che gestirà la parte immobiliare come l’albergo Eko di Fano che, nelle intenzioni di Pigini, sarebbe stato l’hotel dedicato alla musica e agli artisti.

Sempre nel 1966 però si verifica un incendio (a detta di alcuni doloso), che distrugge una parte dello stabilimento di Recanati e Pigini inizia la costruzione del nuovo stabilimento di Montecassiano ma non ne vedrà mai la fine poichè un infarto arresterà la sua corsa ad inizi 1967 a soli 44 anni.

Pigini con il personale della Eko

La fabbrica Eko

Purtroppo la scomparsa di Pigini coincide con l’inizio di una crisi del mercato causata dalla concorrenza asiatica e per alcune scelte non proprio azzeccate e lungimiranti: sotto la guida di Augusto Pierdominici la Eko aggiorna e diversifica la produzione, mettendo in secondo piano il reparto chitarre e puntando tutto sugli strumenti musicali elettronici, le tastiere e gli effetti incorporati come nelle chitarre Vox.

Soluzione questa che si sarebbe rivelata fallimentare, non perchè mancassero idee e innovazione, tutt’altro (prova ne è la mitica drum machine Computerythm), ma grazie alla politica commerciale aggressiva giapponese anche in campo elettronico (il governo giapponese sovvenzionava ampiamente le proprie ditte musicali mentre il governo italiano pensava a sovvenzionare il “vampiro” FIAT, che avrebbe condotto al fallimento la scena automobilistica italiana, trascinandosi dietro tutti i marchi migliori acquisiti nel tempo).

Il mercato degli strumenti a corde invece non era affatto in calo perchè la scena musicale non si fermava mai e mantenne le sue posizioni anche durante gli anni 70, 80 e a seguire. Questo mentre la Eko pagò le scelte sbagliate come quella di ripiegare sulla produzione di copie e strumenti elettronici, arrestando di fatto la curva ascendente che Pigini aveva impressso alla produzione italiana nel mercato mondiale degli strumenti musicali.

Gli ultimi tentativi di riportare la Eko ai tempi gloriosi furono sotto la guida oculata di Remo Serrangeli, che, con idee produttive innovative, iniziò una produzione di chitarre e bassi di alta qualità ma l’improvvisa entrata in campo di una nuova gestione scellerata vanificò gli sforzi portando la Eko alla chiusura a metà anni 80.

Questo articolo sarà quindi una celebrazione dello storico marchio italiano, attraverso le immagini di musicisti, artisti e quanti altri hanno amato ed usato i suoi strumenti nel corso del tempo.

Maurizio Vandelli ne I Giovani Leoni, con Eko Master 400

Franco Ceccarelli dell’Equipe 84 con la chitarra della Pace

I Dik Dik con strumenti prototipo

The Rokes con i celebri strumenti che portano il loro nome

The Rokes – Grazie a te

Caterina Caselli con Ranger 12 Electra

Adriano Celentano con Ekomaster 400

Rita Pavone (basso 995) e Giancarlo Giannini

Dario Toccaceli con Eko 100

Ricky Shayne con Eko 100

I Kings con le Eko Kappa, create per loro

Le Snobs con chitarre e basso della linea Cobra

Herbert Pagani con Ranger 12

Fausto Leali con Ranger 6 Electra

L’avventura internazionale

Pigini stabilì diversi contatti con distributori esteri, tra cui i fratelli Lo Duca per gli Usa. Perciò chitarre e bassi Eko si possono trovare con altri marchi come Eston, Shaftesbury e in seguito anche D’Agostino, Camac… Alcune Vox erano semplicemente delle Eko rimarchiate.

Oliviero Pigini (a sinistra) con Tom Lo Duca, importatore USA della Eko.

Dick Elliot, testimonial e dimostratore della Eko per gli Usa

The Grass Roots

The Blue Chip Village Band

The Jackson Five

La Eko 100 di Jimi Hendrix

Pete Townshend

Roger Daltrey

Al Stewart

Brigitte Bardot

Les Disciples

Gary Burger (The Monks)

L’articolo continua nella seconda parte: Eko – gli anni ’70

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IL FISCHIO AL NASO (1967)

By Cinema, Narrativa e saggistica, Personaggi StoriciNo Comments

Ispirato da un racconto di Buzzati, nella sua seconda regia Ugo Tognazzi costruisce un'aspra satira su come l'industria della sanità riesca a creare malati da persone in perfetta salute.

Lorenzo

Articolo di Daniele Pieraccini

(contiene spoiler)

Con la descrizione di questa industria della malattia, ho voluto rendere la degenerazione che porta la società dei consumi anche nella scienza, cioè in quella parte della società che dovrebbe invece conservare l’uomo, la sua integrità fisica e psicologica

(Ugo Tognazzi, dal libro a lui dedicato nel 1981 da Claudio G. Fava e Aldo Bernardini).

Tognazzi con il suo cast

La pellicola è gustosamente vintage (presenti complementi d’arredo tipicamente Space Age come i televisori Brionvega e le lampade Artemide), ma la vicenda narrata, distopica e kafkiana, non potrebbe essere più attuale.

Tognazzi, alla sua seconda opera come regista, elabora una critica netta di un mondo ormai perso, senza ideali né morale, in cui ciò che conta è produrre e consumare per poi essere spietatamente consegnati alla morte, dopo una vita priva di qualsiasi senso autentico.
Concetti che ribadirà nel “loganiano” I viaggiatori della sera (1979), ultimo suo film distopico (che avrebbe potuto trovare anche in Elio Petri un valido cantore) tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Simonetta.

Il fischio al naso è ispirato invece da un racconto breve di Dino Buzzati, Sette piani, pubblicato per la prima volta nel 1937 poi revisionato ed incluso, dopo varie rielaborazioni, in almeno tre raccolte.
Buzzati ne elaborò anche una trasposizione teatrale, Un caso clinico, nel 1953 (in calce all’articolo potete trovare l’audioracconto di Sette piani).

Se ne deduce che certe tematiche (il sano, ovvero l’odierno asintomatico che diventa schiavo e poi vittima della sanità) abbiano ispirato certi autori particolarmente attenti e consapevoli già nel secolo scorso, fino alla realtà odierna fatta non più di centri di cura e assistenza ma di vere e proprie aziende sanitarie. Si pensi anche a Knock ou Le triomphe de la médecine (Knock o il trionfo della medicina), opera teatrale di Jules Romains del 1923, trasmesso in versione televisiva sulla RAI nello stesso anno del film di Tognazzi.

Copertina di una edizione illustrata del racconto “I sette piani” di Dino Buzzati

«Mi dica, dottore, come va il processo distruttivo delle mie cellule?»

Nel racconto di Buzzati un avvocato di nome Giuseppe Corte (vi ricorda qualcosa?) disturbato da un malessere leggerissimo non meglio specificato, si fa ricoverare in una moderna clinica specializzata proprio nella cura del raro morbo che lo affligge.
Il sanatorio è suddiviso in sette diversi piani: i pazienti con forme più leggere vengono ricoverati in quello più alto; con l’aumentare della gravità del caso si scende gradualmente di piano, fino al primo che ospita ricoverati senza più speranza.

Quello che sembra un ricovero di breve durata in un ambiente confortevole e rassicurante, con il rientro a casa programmato al termine di una serie di esami, si rivela invece una vera e propria discesa negli inferi.

Mentre la salute di Giuseppe Corte peggiora anziché migliorare, una catena di inconvenienti (sviste amministrative, ferie dei dipendenti, pignoleria di un dottore) fa sì che venga trattenuto e via via trasferito ai piani inferiori, nonostante le sue proteste comunque bloccate dalle continue rassicurazioni dei medici sulla non gravità del suo caso. In un crescendo di impotenza, tristezza e rassegnazione, l’avvocato troverà mestamente la fine dei suoi giorni internato nel primo piano.

Dino Buzzati

Nel film Tognazzi, coadiuvato nella sceneggiatura dal fidato duo Scarnicci-Tarabusa, da Rafael Azcona, romanziere e stretto collaboratore di Marco Ferreri e dal noto telecronista sportivo Alfredo Pigna, imbastisce un’operazione ancor più diretta al bersaglio e lontana da ogni spirito metaforico.

“produrre, consumare, gettare via!”

Il fastidioso fischietto che affligge la vita dell’industriale perfetto

Il protagonista, interpretato magistralmente dallo stesso Tognazzi, si chiama Giuseppe Inzerna ed è un imprenditore di successo nell’industria della carta.
Il suo motto è, come ripete più volte, “consumare e distruggere”. Già il tema musicale ricorrente, ‘La conta‘, un pezzo beat de Le Pecore Nere, ricorda ossessivamente per tutta la durata della pellicola che “oggi tocca a me, domani tocca a te”, a sottolineare una visione da catena produttiva anche del ciclo vita/morte.

Un molesto fischio prodotto dal suo naso, che gli causa imbarazzo in ambiti lavorativi e sociali, lo spinge ad accettare controvoglia dei controlli di routine presso la clinica di lusso “Salus Bank”: un nome, un programma…

“non si muore che in un momento di distrazione”

Viene ricoverato al primo piano della struttura, in attesa di tornare a casa ed alle sue attività in tempi brevissimi. Come nel racconto a cui si ispira il film, in realtà la sua permanenza non solo si prolunga come in un incubo, ma per motivi di vario genere Inzerna sarà gradualmente trasferito di piano: a differerenza dell’opera di Buzzati si tratta di una ascesa, invece di una discesa, dal primo al settimo piano.

La scalata diventa lentamente una prigionia soffocante, e da un’irrilevante fastidio come il fischio al naso spuntano fuori problemi inesistenti che alla fine lo fanno davvero ammalare. In questa “banca della salute” la salute si finisce per perderla del tutto. Non rigenerazione, ma annientamento.

Nella clinica modernissima vediamo all’opera fra l’altro la tecnologia applicata alla sanità per la quale gli uomini non sono altro che dei numeri (il 515 appeso al collo di Inzerna in qualsiasi piano si trovi). I medici agiscono come investigatori cibernetici: a forza di indagare trovano sempre e comunque qualcosa che non va.

La nota attitudine carnale di Tognazzi si manifesta negli approcci al personale medico e infermieristico femminile (attraenti come modelle ai primi piani per poi lasciare il posto a figure molto meno piacevoli via via che si sale di piano) e nel riuscire a far ricoverare anche la sua amante per averla vicino, salvo poi ritrarsi dall’intimità come svirilizzato dalle magagne fisiche che aumentano con il prolungarsi del soggiorno. Il fischio al naso infatti scompare velocemente, ma solo per lasciare posto a febbre, problemi ai reni, extrasistole, eczemi, debolezza e quant’altro.

“l’ammalato può essere una grande industria, lo so”

Durante il suo soggiorno nella clinica (riprese effettuate a villa Miani e villa Parisi, sui colli romani) facciamo la conoscenza di una serie di personaggi emblematici: tra tutti spiccano il Dottor Claretta interpretato dal noto caratterista Gigi Ballista, l’affascinante Tina Louise nei panni della Dottoressa Immer Mehr (in tedesco: sempre più…), il Dottor Salamoia, interpretato da Marco Ferreri.

Notevole lo sforzo interpretativo di Tognazzi, che riesce a calibrare le sue esuberanze e a dirigere se stesso assecondando la progressione di Inzerna dall’esuberanza imprenditoriale iniziale, alla sfiducia pragmatica nella medicina, al passare da rabbia e ribellione per il susseguirsi delle disavventure all’entrare nel meccanismo ipocondriaco fino ad uno stato di ansia e sfinimento che sfocia nella rassegnazione finale.

“curare il corpo, salvare l’anima”

Tognazzi e la Louise

Ma nell’opera si toccano anche altri temi.

A partire dalla connivenza, celata da una falsa contrapposizione, tra Chiesa e scienza, tra spiritualità di facciata e tecnologia: oltre alla tetra presenza di suore e frati, all’entrata della cappella ospedaliera è affissa la scritta curare il corpo e salvare l’anima; sopra il letto di Inzerna c’è un alloggio per immagini sacre intercambiabili con un tasto, crocefisso, Budda o altro a richiesta.

I medici ricevono i pazienti singolarmente in una grande sala della villa, in una sorta di anamnesi/confessione al termine della quale rilasciano l’assoluzione sotto forma di medicine da assumere…per arrivare alla scena nella sala in cui si sperimenta l’ibernazione e in cui si proclama che si può puntare alla ricerca dell’immortalità perché la Chiesa non si oppone alla medicina.

Si critica soprattutto, e la presenza di Ferreri e del suo sceneggiatore influisce, la borghesia incapace di avere un volto umano dedita com’è alla ricerca dell’accumulo di capitali.

Colpisce infatti l’atteggiamento dei familiari del protagonista: privi di emotività e incapaci di provare affetti veri, vivono il declino di Inzerna con estrema indifferenza.

Da rimarcare l’evoluzione del personaggio del padre di Giuseppe, che, dopo essersi tinto i capelli, prende in mano le redini della fabbrica del figlio e la converte alla produzione di santini e gadget religiosi, proclamando: “la Chiesa si prepara a vivere un’altra età d’oro”.

Una sequenza molto particolare e densa di simbolismi è quella della tentata fuga di Inzerna dalla clinica: dopo una corsa tra file di pini e olivi, in un crescendo onirico, si trova davanti un altissimo muro di pietra che lo blocca. Poi, sedotto da una nudità femminile intravista tra gli alberi, si distrae e viene catturato da due infermieri. Come dire che dal mondo del capitale e dal suo linguaggio non si scappa, si può solo essere sedotti o entrare in conflitto e finire internati.

“chi l’avrebbe detto… per un fischio al naso!”

Sono le ultime parole di Giuseppe Inzerna, ormai rassegnato e quasi assente ma con i capelli tinti in un ringiovanimento apparente e, date le circostanze, beffardo. E l’elicottero che sorvola la clinica negli ultimi istanti di vita del protagonista, come un avvoltoio tecnologico, è forse in attesa di organi freschi da trasportare? Si noti come la legislatura italiana abbia dato il via libera ad espianti e trapianti l’anno prima dell’uscita del film…

In questa vicenda e nella sua amara conclusione si palesa la trappola dell’ipocondria mascherata da moderno salutismo: vivere da malati per sperare di morire sani.

Come non vedere in questo, di nuovo, apparire la sinistra e disperata invocazione “Guariscimi, rendimi completo“?

Infermiere o incentivi?

IL TRAILER DEL FILM “IL FISCHIO AL NASO” DI UGO TOGNAZZI

Il fischio al naso (1967) di Ugo Tognazzi

Interpreti e personaggi: Ugo Tognazzi (Giuseppe Inzerna), Olga Villi (Anita, sua moglie), Alicia Brandet (Gloria, sua figlia), Franca Bettoja (Giovanna, amante di Giuseppe), Tina Louise (dott. Immer Meher), Gigi Ballista (il dott. Claretta), Marco Ferreri (il dott. Salamoia), Riccardo Garrone (il barbiere), Alessandro Quasimodo (Roberto Forges), Gildo Tognazzi (Gerolamo Inzerna, padre di Giuseppe).

Sceneggiatura: Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Alfredo Pigna, Ugo Tognazzi, Rafael Azcona

Fotografia (Panoramico, Eastmancolor): Enzo Serafin

Scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni

Musica: Teo Usuelli

Montaggio: Eraldo Da Roma

Produzione: Alfonso Sansone, Enrico Chroscicki per Sancro International (Roma)

Distribuzione: Cineriz

AUDIORACCONTO DE “I SETTE PIANI” DI DINO BUZZATI – NARRAZIONE DI ROSANNA LIA

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Wounds (2019)

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

C'è un film assai diverso, che gravita nel circuito della celebre Netflix: onore e merito alla stessa per averlo inserito in palinsesto. E' "Wounds", di Babak Anvari.

Lorenzo - Daniele Pieraccini

Wounds del regista iraniano Babak Anvari è un curioso esperimento che analizza il mondo esoterico in chiave essoterica, usando cioè una visione materiale per spiegare ciò che è intangibile.

Dopo l’ennesima visione di questo film, che ci piace davvero tanto, ci siamo confrontati e sbizzarriti con amici sulle varie interpretazioni dei messaggi che questa pellicola suggerisce.

E’ necessaria la visione del film prima di procedere nella lettura. Questo sia per capire di cosa si sta parlando, sia perchè nell’articolo saranno presenti spoiler continui.

Wounds: La trama

Will è barista in un locale di New Orleans. Una sera, durante il suo orario di lavoro, scoppia una rissa tra Eric – cliente abituale del locale – e altri avventori. Il caos creatosi e l’aver chiamato la polizia provoca il rapido dileguarsi di tutti i presenti. Tra questi ultimi c’è anche un gruppo di giovanissimi che, dopo aver ripreso la rissa, si dà alla fuga dimenticando un cellulare.

Will, senza pensarci troppo, porta a casa il cellulare deciso a contattare ai ragazzi per restituirlo, trovando in esso un video sconvolgente. Questo provocherà l’inizio di strani avvenimenti che coincideranno con la fine di ogni razionalità nella vita di Will.

nell’articolo proporremo diversi livelli di lettura del film.

Locandina del film Wounds

Cuore Di Tenebra

L’opera inizia citando “Cuore di tenebra” di Conrad, un romanzo che raffigura il male come inconsapevole di sé, in questo indicando il protagonista con la sua vacuità confusa dall’assedio di assurdo e ignoto che non comprende se abbia un’origine esterna o provenga dal suo interno.

…Gli aveva sussurrato cose su di lui che egli stesso ignorava, cose che neppure sospettava… e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. Echeggiava forte dentro di lui poiché egli dentro era vuoto.

Joseph Conrad – Cuore di Tenebra (incipit del film Wounds)

Copertina di Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Ferite (Wounds)

introduciamo il significato di “ferita”, wound appunto: un termine che in lingua inglese è il più generico per definire il concetto. Wound può essere una ferita inflitta ad un tessuto vivente, ma può avere anche una connotazione morale. Può indicare un problema, una grande infelicità, uno stress causato da qualcun altro o da qualcosa.

Uno stato emotivo o psicologico, insomma, e il regista si muove tra tutti i possibili significati, toccandoli e collegandoli tra loro ed elaborando un horror fortemente mentale e metafisico.

«Sai cosa vuoi veramente? Niente. Perché non c’è niente che ti possa soddisfare. Tu sei una brutta persona, sei solo un corpo.»

Carrie, la compagna di Will, dopo la separazione

Scena di Wounds in cui si parla del rituale segreto gnostico della “Traslazione delle ferite”

Scarafaggi

Cosa rappresentano le blatte che infestano gli ambienti in cui si svolge la vicenda e che sono sempre più numerose ed invadenti man mano che cresce l’orrore? Sono raffigurazioni dell’impuro, della persistenza del male, sono simboli del disagio psicologico e relazionale (come in Kafka) o sono araldi del soprannaturale? Sono in qualche modo legati alle abitudini alcoliche del protagonista?

«Oggi sembrano esserci più scarafaggi che clienti»

Will, parallelismo tra persone e scarafaggi

Il simbolismo degli scarafaggi che si ripete continuamente in Wounds

Stress post-traumatico e allucinazioni

Le immagini violente e da incubo che si sovrappongono alla realtà sono dovute appunto all’alcolismo di Will o da qualche disturbo psicologico conseguente a traumi? Come gli scarafaggi (protagonisti infatti di molte delle allucinazioni del personaggio) crescono con l’aumentare dell’orrore, così si sviluppano paranoie soffocanti e manie di persecuzione al pari delle visioni terrificanti.

Allucinazione con scarafaggi simile al delirium tremens

Gnosticismo

Il film non tratta di un soprannaturale generico, infatti Anvari va a pescare nella tradizione gnostica, affiancando misticismo e rituali violenti e orripilanti e collocando efficacemente questo elemento in un contesto urbano e contemporaneo.

E’ importante capire cosa sia lo gnosticismo: di chiara derivazione dalla Dottrina Segreta teosofica (della quale è una rielaborazione distorta), questa corrente di pensiero, a grandi linee, definisce il mondo in cui viviamo come come frutto di un errore di un eone (esseri superiori emanati dal Divino, che formano tutti assieme, divisi in coppie maschile/femminile, il Pleroma).

L’errore in questione condusse alla creazione del Demiurgo, ovvero un falso Dio o divinità malvagia, creatore a sua volta della realtà materiale e “grande ingannatore”. Di conseguenza, per uno gnostico l’illuminazione (o scoperta del divino autentico) si ottiene attraverso l’apprendimento dell’esoterismo o realtà nascosta del mondo.

Alcune correnti gnostiche pensano che tutti gli esseri umani portino dentro sé la scintilla divina, altre sostengono che sia invece appannaggio solo di alcuni di noi e dividono gli uomini in tre tipologie: ilici, psichici e pneumatici.

Gli ilici, o terreni, sono quelli che sono legati esclusivamente al mondo materiale e destinati a scomparire con la carne, gli psichici sono quelli che sono dotati di anima e libero arbitrio e hanno possibilità di redenzione incompleta e di ascendere, un giorno, al divino assieme al demiurgo oppure dissolversi come gli psichici; i pneumatici sono uomini nei quali è stata nascosta, ad insaputa del Demiurgo, la scintilla divina (pneuma) e sono destinati a ricongiungersi, appunto, con il divino.

Il Demiurgo crea l’uomo come “tunica di pelle vuota“, inconsapevole di trasmettere ad alcuni di loro la propria natura psichica e che alcuni celino addirittura il pneuma.

Ricerca delle informazioni sulle conseguenze del rituale gnostico della “Traslazione delle ferite”

Will come personificazione dell’uomo psichico

Will è chiaramente un uomo psichico che reca con sè la spinta, l’urgenza, il “morso” ad evolvere: galleggiando nel materialismo ilico cerca qualcosa di più e affoga la sua insoddisfazione nella ricerca della facile gratificazione terrena. Ma la spinta interiore non gli dà pace, cominciando a mandare in pezzi la sua vita di comodo.

E dopo l’ennesimo confronto con la compagna Carrie, che lo accusa di essere appunto solo un corpo vuoto, sente lo strappo rabbioso di uscire da questa sua situazione di stallo ilico. Carrie dimostrerà poi di essere lei stessa una psichica arresa che finirà il suo cammino nella dissoluzione ilica, finendo totalmente preda dell’abisso che la prosciugherà della scintilla vitale.

Ma è la spinta che sta facendo a pezzi la vita di Will, oppure è lui che, in preda alla sofferenza, sta scegliendo la strada più facile (come il Cypher di Matrix), scegliendo di tornare guscio vuoto e quindi un alloggio perfetto per un’entità malvagia, che sta soltanto accelerando gli eventi e la “trasformazione”?

Il “demiurgo” Will, avvolto (un altro dei possibili significati di wound) nel suo isolamento e “ferito” nell’anima dalle conseguenze della sua incapacità di avere relazioni amicali e sentimentali funzionali e genuine, trova infine la scintilla divina che lo guarirà e lo completerà. La troverà avvolta (di nuovo) dal corpo del ferito, fisicamente e non solo, Eric, in un tripudio di scarafaggi e con la supervisione dell’occhio-simbolo.

Eric, personaggio chiave di Wounds

Will ha quindi compiuto i passi necessari per l’ottenimento della conoscenza divina tramite il “sacrificio di sangue” di Eric (vedasi anche il film “Branded” con il sacrificio del manzo rosso con lo scopo del raggiungimento della chiaroveggenza). Questa offerta lo porta a passare da “corpo vuoto” a portatore di “scintilla divina” («Guariscimi e rendimi completo!») ed è adesso il portatore del demiurgo.

L’occhio, simbolo che appare sempre più insistentemente in Wounds, in questo caso manifestazione del falso “Dio”

Nella sua opera Babak Anvari unisce tutti questi livelli mantenendo un notevole equilibrio, consentendo allo spettatore di interpretare la vicenda privilegiando questo o quell’elemento, a seconda della sua sensibilità e degli strumenti di lettura che possiede.

Altri elementi importanti sono L’abisso Nietzscheiano, i rimandi a Lovecraft e le citazioni a registi come il Carpenter de “Il seme della follia”, la critica alla religione dominante, sempre pronta a correre “in aiuto” per colmare vuoti interiori (con scarafaggi?).

Un livello di lettura più “pragmatico” evidenzia altre tematiche di base:

L’infelicità può portare le persone a decisioni terribili.

In assenza di significati, le persone possono scegliere qualunque cosa che abbia un richiamo “forte”.

Le ferite, che siano fisiche o non fisiche, hanno il potenziale per trasformarci.

Sei tu che scruti nell’abisso…o è l’abisso che scruta in te?

Conclusioni

Abbiamo quindi una perfetta analisi della vuotezza dell’umanità attuale che, con qualcosa, deve riempire le proprie ferite interiori, il proprio corpo reso vuoto dai traumi e dalla mancanza degli stimoli della vita reale, persa com’è dietro ad una tecnologia quotidiana che l’abbrutisce, privandola, appunto, di ogni realtà e della volontà di “costruire” un’anima.

 

“Guariscimi, rendimi completo!”

invocazione di Will al Demiurgo

“Guariscimi, rendimi completo!”: è necessario fermarsi a capire da dove questa frase arriva e il contesto nel quale è inserita. Un esempio:

Invocazione allo Spirito
Vieni, Spirito eterno di Dio Illuminami, Spirito eterno di Dio vieni, luce di splendore,
da’ un senso nuovo alla mia vita, mostrami ciò che è buono e giusto.

Vieni, Spirito di Dio e consola nel profondo la mia anima che non trova riposo.
Dammi la fede in Gesù, guariscimi e rendimi completo.

Spirito di Dio, dammi il coraggio, scaccia in me dubbi e paure.
Vieni, eterno Spirito di Dio, insegnami a riflettere e pregare, a chiedere perdono per i miei peccati.

Mostrami la mia vocazione nei giorni e negli anni della mia vita.
Spirito di Dio, luce ineffabile, apri i miei occhi per accorgermi di coloro che hanno bisogno
della mia amicizia e fraternità.

Con la tua grazia restami vicino e guidami in tutte le mie vie.
(Chiesa evangelica luterana finlandese)

 

IL TRAILER DEL FILM “WOUNDS” DI BABAK ANVARI

Wounds (2019)

 

Credits/Cast

Director: Babak Anvari

Producers: Babak Anvari, Megan Ellison

Writers: Babak Anvari & Nathan Ballingrud (from his novel ‘The Visible Filth’)

Release date: October 18, 2019

Cast:
Armie Hammer as Will
Dakota Johnson as Carrie
Zazie Beetz as Alicia
Brad William Henke as Eric
Karl Glusman as Jeffrey

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Limitless (2011) – Il Pensiero Laterale

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

«Hai sentito la storia del fatto che usiamo solo il 20% del cervello? Questa cosina qui, ti da accesso a tutto quello che non usi...»

Lorenzo

Quando sei vicino ai quaranta, in crisi profonda perchè non riesci a scuoterti da una situazione cortocircuitale nella quale non hai un lavoro, sei stato lasciato da entrambe le donne della tua vita, hai un progetto da anni ma l’insicurezza ti ha creato un blocco della creatività invalicabile… in pratica stai cercando le briciole di te stesso sotto al tavolo.

Cosa succede se arriva la soluzione a tutto questo sotto forma di pillola?

Di tutto.

Questo, in poche parole è Limitless. un film complesso e velocissimo, che affronta interessanti argomenti collaterali come il “Pensiero Laterale” dello psicologo e scrittore maltese Edward De Bono.

De Bono afferma che, se si affronta un problema con il metodo razionale del pensiero, si ottengono risultati corretti, ma limitati dalla rigidità dei modelli logici tradizionali. Quando si richiede invece una soluzione veramente diversa e innovativa, che contribuisca cioè ad un reale passo evolutivo rispetto alle condizioni preesistenti, si deve stravolgere il ragionamento, partire dal punto più lontano possibile, ribaltare i dati, mescolare le ipotesi, negare certe sicurezze e addirittura affidarsi ad associazioni di idee del tutto casuali.

Si deve perciò abbandonare il pensiero verticale, cioè quello basato sulle deduzioni logiche, per entrare nella lateralità del pensiero creativo.

Dal Pensiero Laterale si sono poi sviluppate le carte delle “Strategie Oblique”, realizzate da Brian Eno e Peter Schmidt ed edite a partire dal 1975. Queste carte, contenenti delle particolari frasi guida, sono state usate da Brian Eno in molte delle sue produzioni musicali per altri artisti (Talking Heads, David Bowie, Devo).

Limitless è un film ben girato, ben diretto, con un uso efficace ed intelligente degli effetti speciali e un montaggio molto serrato, che ben si addicono alla velocità che la storia richiede. Pur essendo una pellicola a basso budget, ogni compito è stato svolto molto bene, fino ad ottenere un prodotto con uno stile personale e ben riconoscibile, lo si può già definire un film di culto.

E’ tratto dal romanzo “I territori oscuri” di Alan Glynn ma ne segue lo svolgimento solo in parte e i finali si sviluppano in modo diametralmente opposto, tanto che il film tende ad invogliare lo spettatore all’uso delle sostanze Nootrope, oggi comunemente definite Smart Drugs, senza troppe preoccupazioni circa la loro provenienza ed i possibili effetti collaterali.

UNA SCENA DEL FILM LIMITLESS CON L’APPLICAZIONE IMMEDIATA DEL PENSIERO LATERALE

Al contrario, il racconto di Glynn, calca la mano poderosamente proprio sulla provenienza e le motivazioni della creazione di questo preparato MDT-48 (nel film ribattezzato NZT-48), cosa che verrà ulteriormente sviluppata nel seguito del romanzo, “Under the Night”.

La pillola, quindi, diventa il solito rimedio veloce ma rischioso che l’era moderna pretende dall’uomo moderno, senza curarsi del percorso necessario alla crescita interiore: una scuola che può durare anche tutta la vita.

Molto più utile in questo senso sono stati gli studi di De Bono, che si riallacciano a quelli della Quarta Via di Gurdjieffiana memoria:

Gurdjieff e Quarta Via: la casa senza padrone

«Immaginiamo una grande casa dove il padrone non è presente. All’interno si trovano molti servi, il cui lavoro però non viene coordinato da nessuno. E’ una casa dove la servitù fa quello che vuole. Arriva il panettiere a consegnare la fornitura di pane, ma apre la porta lo stalliere che fa mettere il pane nella stalla. Arriva l’idraulico che deve riparare le tubature del bagno, ma apre la porta il cuoco che lo fa accomodare in cucina.

La mancanza di coordinamento fa sì che a determinati stimoli esterni non risponda mai chi di dovere. Accade la stessa cosa nell’essere umano. Ci presentiamo a un esame universitario, ma invece che entrare in azione solo il centro intellettuale, si intromette anche quello emotivo con il suo carico di ansia, paura e imbarazzo, il che rende molto più difficile, se non impossibile, il superamento della prova.

A un incontro galante con una bella donna o un bell’uomo, entra in azione il centro intellettuale anziché il Cuore, il che ci rende logorroici e poco attraenti. Nel bel mezzo di un rapporto sessuale a un dato momento il centro intellettuale prende il sopravvento con i suoi dubbi e le sue aspettative…secondo voi quale può essere la conseguenza?

Le cose all’interno dell’abitazione vanno così male che alcuni servitori un bel giorno decidono di eleggere un maggiordomo. Questi servitori sono gli io del Lavoro, cioè quegli io – quelle parti di noi – che a un certo punto sentono il bisogno di cambiare la situazione e ci costringono a intraprendere un Lavoro su noi stessi (…) Il maggiordomo inizia a osservare, a seguire passo, passo i vari servi per capire cosa effettivamente sta succedendo nella casa.

Egli deve imparare a conoscere la casa. Il solo fatto che un maggiordomo li osservi, va già a modificare il comportamento dei servitori. L’osservatore modifica l’oggetto osservato. Non giudica, non parla, non interferisce in alcun modo, ma la presenza costante di questo silenzioso testimone, giorno dopo giorno, quasi magicamente comincia a mettere a posto le cose e prepara l’arrivo del padrone di casa: l’anima.

L’Io osservatore, il “testimone” non è morale e non giudica in alcun modo gli atti dei vari io. Se stiamo giudicando è perché non stiamo guardando con il “testimone” ma con uno degli io, cioè con una parte della nostra personalità e questo può condurre a una pericolosa scissione interna della mente…. Il testimone è pura presenza, distaccata, priva di opinioni personali riguardo a ciò che fa la macchina e a ciò che fa il mondo intorno a lei.

L’Io osservatore non fa nulla per cambiare la situazione, ma si limita a osservare con distacco – senza farsi coinvolgere – ciò che accade nell’apparato psicofisico.

Osserva la rabbia, la felicità, il disappunto, la frustrazione… sperimentate di volta in volta dalla macchina biologica, con la medesima imperturbabile obiettività. Se di fronte a una rissa la personalità vuole intervenire il “testimone” non glielo impedisce, se la personalità vuole restare passiva il “testimone” non glielo impedisce. Guarda e basta.

Perchè “costruire” l’osservatore? Siamo contenti di come ci comportiamo? Oppure abbiamo capito che la nostra Vita può essere altro che le solite reazioni agli eventi?»

Fonte

Una drammatica applicazione del Pensiero Laterale tratta dal film Limitless

Limitless

Directed by Neil Burger
Screenplay by Leslie Dixon
Based on The Dark Fields
by Alan Glynn
Produced by

Leslie Dixon
Scott Kroopf
Ryan Kavanaugh

Starring

Bradley Cooper
Abbie Cornish
Robert De Niro
Andrew Howard
Anna Friel

Cinematography Jo Willems
Edited by

Naomi Geraghty
Tracy Adams

Music by Paul Leonard-Morgan
Production
companies

Virgin Produced
Rogue
Many Rivers Productions
Boy of the Year
Intermedia Film

Distributed by Relativity Media
Release date

March 8, 2011 (New York City)
March 18, 2011 (United States)

Running time
105 minutes
Country United States

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Wandrè Blue Jeans

By Chitarre Vintage Italiane, Personaggi Storici, WandrèNo Comments

Oggi presentiamo una splendida Wandrè Blue Jeans di proprietà del collezionista Renato Cavallaro.

Lorenzo

Una delle primissime Blue Jeans con manico in legno.

La Blue Jeans, come anche il nome suggerisce, nasce come strumento economico dedicato ai giovani principianti o dilettanti.

Molto probabilmente antecedente alla sorella Piper, la B.J. verrà poi rinominata Teenager, a sugellare ancora di più il suo essere destinata principalmente a quella fetta di mercato.

Principale differenza con la Piper, è la spalla mancante Florentine, che ne alleggerisce la silouette, rendendola ancora più provocante e moderna, un classico moderno come i blue jeans, si potrebbe dire.

Per rendere più economica la BJ fu deciso di utilizzare un manico in legno, invece che di alluminio, e (su suggerimento di Athos Davoli) l’abolizione di tutti gli elementi non strettamente indispensabili come la presa jack, che venne sostituita con un cavo attaccato al battipenna.

Il prezzo venne così fissato a 18.000 lire per la chitarra e 34.000 per il set chitarra + amplificatore da 4-5 watt.

Attraverso varie modifiche, la Blue Jeans rimarrà in produzione dal 1958-59 fino al 1967, diventando così il modello più popolare e venduto della produzione Wandrè.

Nel corso degli anni, la B.J. subirà diverse modifiche, tra cui alcune rarissime come i primissimi esemplari con manico in legno dalla particolare sezione a trifoglio, quelle con i fori armonici dalla curiosa sagoma che ricorda lo zoccolo del cammello, quelle prive di fori armonici e con 3 pick-up.

Nel 1961 verranno inserite la Nuova B.J. e la B.J. Major.

La prima ha manico con “anima indeformabile in metallo, registrabile (brevetto Wandrè)” e vernice poliestere.

La Major invece ha manico in alluminio con paletta, sempre di alluminio, saldata. Il suddetto manico è fissato al corpo tramite un dispositivo basculante che consente la regolazione fine dell’angolazione manico-cassa e di conseguenza dell’action.

Ulteriori aggiunte furono il ponticello regolabile in altezza, il piano armonico convesso con una nuova foggia dei fori armonici, un nuovo battipenna dotato di due pick-up, controllo volume e tono e uscita jack microfonica.

Nelle B.J. si susseguirono poi ulteriori modifiche, come il battipenna in plexyglass, il manico neck-thru, la foggia differente dei fori armonici ed addirittura la loro scomparsa.

Il nome Tri-Lam è invece improprio e deriva dal compensato tri-lamellare con il quale veniva fabbricata la B.J. ma anche la maggior parte degli altri modelli Wandrè.

Per maggiori informazioni vi rimandiamo all’ottimo libro “Wandré – L’artista della chitarra elettrica” scritto dal maggior esperto di Wandré, il dott. Marco Ballestri.

…ma come suona?

Clicca il pulsante e ascolta il suono della Blue Jeans dalle dita del grande Mario Evangelista.

Panoramica della stupenda Blue Jeans di Renato Cavallaro

Una recensione di una Wandrè Blue Jeans del nostro affiliato Fernando Temporão

Ringraziamenti

Ringraziamo il guppo Facebook e nostro affiliato Wandré Guitars che, nella persona del dottor Marco Ballestri, ci ha cortesemente fornito materiale informativo e fotografico, nonchè gentile consulenza.

Un ringraziamento doveroso và sempre all’artefice di tutto, quel Wandré che ci ha lasciato un patrimonio di arte e innovazione che non manca mai di farci rimanere in stupefatta ammirazione.

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Swiss Made 2069 – 1969

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Swissmade è una trilogia di minifilm sul futuro della Svizzera, il terzo dei quali, 2069, è la pellicola che vede all'opera un giovane H.R. Giger, agli inizi della sua carriera nel cinema.

The Boss

Yves Yersin, Fritz E. Mäder, Fredi M. Murer

Essendo un vecchio ammiratore di Giger, da lungo tempo speravo di poter guardare il suo primo lavoro per il cinema, il mediometraggio ‘Swiss Made 2069’, del quale si erano perse le tracce da molti decenni.

Capitò un giorno che, in concomitanza con l’annunciato scioglimento dei Daft Punk, mi tornasse in mente dopo tanti anni questo curioso esperimento cinematografico del buon H.R. in collaborazione col suo amico regista F.M. Murer, autore del documentario ‘Passagen’ dedicato a Giger stesso.

Tentando l’ennesima ricerca sul web, credendola anche stavolta infruttosa, trovai invece con grande meraviglia un link ad un video di 39 minuti: un altro vecchio sogno realizzato grazie al web.

Swissmade è una trilogia di minifilm sul futuro della Svizzera, nel primo, ‘1980 (Der Neinsager)’ di Yves Yersin, un rivoluzionario che torna dal Brasile e scopre che i suoi compagni rivoluzionari hanno perso la determinazione e l’entusiasmo iniziali. Viene visto come una caricatura del passato e finirà con il fare l’attore in una pubblicità per una banca.

Il secondo film, ‘Alarm’ di Fritz E. Maeder vede un operaio che vuole ribellarsi contro il sistema e ad una moglie megera.

Il terzo è il nostro ‘2069’.

Swissmade 2069 è scritto e diretto da Fredi M. Murer, collaboratore di lunga data di Giger, e le impronte di Giger stesso sono ovunque nel film.

Lo script nasce da un dubbio, come sarà la società svizzera tra 100 anni?

Il mondo del 2069 è un insieme di stati corporati che sono guidati ciascuno da un proprio ‘Brain Center’, ovvero un computer ad intelligenza artificiale che amministra e controlla i cittadini in ogni loro mossa. Tutti portano una macchina fotografica e si salutano scattandosi delle foto.

I cittadini possono e devono contattare periodicamente il “Braincenter” da innumerevoli colonnine intercom “Braincorner”. Niente può succedere senza stretto controllo, viene registrato anche il deterioramento dei dati del cibo, per il quale è stato istituito un sistema di allerta.

E’ una popolazione compiacente, che commette volontariamente atti di auto-sorveglianza e i patrioti vengono emarginati e liquidati come pazzi, per essersi voluti allontanare da questa società del controllo.

Sono i cittadini stessi a sottomettersi “volontariamente” a questa autodefinita ‘Democrazia Totale Scientifica’ basata sulla lettura del pensiero, la mancanza di individualità e di scelta: ogni decisione viene presa dalla AI, che gestisce anche i rapporti sessuali tra i cittadini con il “calcolo del compagno ideale giornaliero” che viene comunicato ai richiedenti tramite i Braincorner.

I rapporti sessuali vengono mantenuti strettamente occasionali per mantenere un distanziamento sociale che impedisca alle persone di potersi unire in possibili associazioni eversive; anche le mansioni lavorative e il posto di lavoro vengono continuamente cambiati, in modo che le persone non arrivino ad instaurare rapporti di conoscenza interpersonale.

Ogni forma di emozione, comprese quelle derivanti dal contatto con la natura, sono bandite.

Le famiglie sono strettamente programmate ed amministrate e i figli della famiglia tipo sono una coppia di gemelli.
L’età massima alla quale è consentito giungere è di 41 anni, dopodichè si viene eliminati.

Un “cittadino integrato con il sistema ma con una tendenza latente ad allontanarsene” viene incaricato dal “Brain Center”, un computer che controlla la società, di produrre un film report sulla missione sconosciuta di un essere alieno. L’alieno è un extraterrestre con una cinepresa Bolex, un microfono e un registratore a nastro Nagra incorporati, che viaggia per il pianeta Terra del 2069 per esplorarne le condizioni attuali.

Un “filosofo”, nel suo studio situato in una sorta di grande villa-cattedrale e aiutato da un team di 7 giovani ancelle, da lui stesso telecomandate attraverso vari impulsi di audiofrequenze, sta studiando il sistema per poter trasformare la Svizzera in un luogo dove le varie corporazioni-stato possano, pagando, scaricare i dissidenti del sistema in apposite riserve.

L’ultimo pensiero raccolto è quello di un tecnocrate che sottolinea – rivolgendosi con vigore e sprezzantezza al pacifico visitatore – quanto questo sistema di Democrazia Totalitaria sia vincente, poiché, essendo basato sulla raccolta dei dati elaborati e gestiti dal computer, «Non esistono cittadini superiori o subordinati. Non ne sai nulla della nostra Democrazia? Da quale pianeta in via di sviluppo provieni?»

L’osservatore silenzioso raccoglierà pensieri e testimonianze di vari campioni di umanità di questo mondo distopico, dagli allineati ai dissidenti (con preferenza verso i secondi), per poi venire sequestrato, privato di telecamera e registratore (testa e cuore) e quindi normalizzato da “scienziati” del Brain Center, coi volti celati da una mascherina, impedendogli il ritorno e di poter portare aiuto al proprio mondo.

Dopo questo ultimo terribile atto, l’umanità pensante sventola una simbolica bandiera bianca in fiamme e si prepara ad abbandonare completamente la società-automa.

Una velata critica alla società Svizzera apppare piuttosto chiara: la Svizzera viene mostrata come ormai completamente assente dalla mappa dell’Europa, al suo posto vi è ormai un immenso lago, come un mare interno.

Gli emarginati si sono riuniti su una barca e si allontanano sul lago verso l’orizzonte, abbandonando definitivamente questa società.

Il finale mostra come sarà qualche tempo dopo il “pianeta in via di sviluppo” dell’alieno, non lasciandogli alcuna speranza.

Il giornalista cinematografico è interpretato dallo stesso Murer. Tutti i partecipanti al film, nella vita reale erano autentici attivisti del 1968, alcuni dei quali in seguito fecero carriera politica o artistica.

In una breve scena è presente anche Li Tobler, allora compagna e musa di Giger, il quale appare nel film nelle vesti di un artista/eminenza grigia che produce i piani di questa società distopica, una sorta di ‘Architetto dell’Universo’ che si interfaccia con il Brain Center attraverso una poltrona con terminale, anticipando la postazione con la quale l’equipaggio della Nostromo si relazionava con il computer di sistema ‘Mother’ nel film Alien, idea che verrà sviluppata anche nel celebre ‘La fuga di Logan’ ma anche nel confessionale di ‘THX1138’ di George Lucas.

Li Tobler

H.R. Giger

Tina Gwerder è l’alieno

E’ quasi superfluo sottolineare come anche l’alieno stesso di Swissmade 2069 sia una anticipazione dello Xenomorfo del film Alien, esattamente come il Brain Center sia una versione in fasce e senza ‘filtri’ del computer Mother.

Chiudiamo segnalando l’evidente somiglianza tra il personaggio dell’alieno osservatore e e quello del Thomas Jerome Newton protagonista del romanzo di Walter Tevis ‘L’uomo che cadde sulla Terra’. Somiglianza resa ancora più evidente dalla scena finale di 2069 con quelle che descrivono il pianeta Anthea nella versione cinematografica del racconto di Tevis diretta da Nicholas Roeg.

UN RARO ESTRATTO DA UNO SPECIAL TV SU GIGER E “SWISS MADE 2069”

Credits/Cast

Buch, Regie, Kamera, Schnitt: Fredi M. Murer
Aufnahmeleiter: Giorgo Frapolli
Ton: Christian Kurz
Foto:
Doris Quarella
Future-Design:
H. R. Giger
Science-Couture:
Silvia Wolfensberger
Labor:
Cinegram SA, Zürich/ Genève
Lichtbestimmung:
Johannes Anders
Mischung:
Bruno Müller / Sonorfilm AG, Bern
Trick:
Charly Kresling / Probst film, Bern

Sprache: Hochdeutsch
Dauer:
40 min
Originalversiont: Farbe, 35mm
Verleih: FMM Film Verleih

Cast:
Humanoid (visitatore): Tina Gwerder

Reservatbewohner (abitanti della riserva)
Asther Altorfer, Hannes Bosshard, Carmen Corti, Ivett Epper, Kurt Eler, Kiky de Groot, Manon Küng, Anna Leskinnen, Ruth Murer, Sabine Murer, Robi Müller, Toni Holz Portmann, Lili Schiess, Hans Stamm, Verena Voiret, Paul Weibel

Integrierte Staatsbürger (cittadini integrati)
Dieter Ackerknecht, Gianni Bacchetta, Elisabeth Besmer, Sylvia Besmer, Alex Böckli, Pino Bühler, Ines Diemer, Doris Ehrler, H.R Giger, Cornelia Grossmann, Thomas Held, Peter Hürzeler, Daniela Indemini, Andreas Kappeler, Regine Kappeler, Su Kappeler, Bruno Klieber, Frieda Kurz, Egon Meichtry, Margrit Röllin, Raymond Scholler, Li Tobler

Ringraziamenti

Si ringrazia il sito del regista F.M. Murer per le immagini.

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Wandrè Rock 6

By Chitarre Vintage Italiane, Personaggi Storici, WandrèNo Comments

Parlando di personaggi iconici, è difficile che non venga subito in mente Wandrè con i suoi lavori al limite del paranormale e la Rock 6 è una delle sue più strane creature.

Lorenzo

Trovarsi al cospetto di uno strumento di Wandrè è come trovarsi di fronte ad un’opera d’arte moderna, lavori del genere dovrebbero avere un loro posto di diritto in ogni museo di arte contemporanea del mondo, talmente sono votate al design e all’arte concettuale.

Il nostro amico Gordy ha gentilmente prestato i suoi due esemplari di Rock 6 per la realizzazione di questo articolo, dicendoci che una delle due chitarre è disponibile per la vendita.

Incredibilmente ispirata alla tavoletta del w.c., prende le sue forme dalla Spazial, modello del quale conserva il perimetro ma modificandone sensibilmente le dimensioni: la Rock è più lunga di circa 7 cm, più stretta di circa 5 alle spalle e 7 ai fianchi mentre lo spessore è di circa 2 mm in meno.

Il modello Rock, sia basso che chitarra, è una vera e propria scultura, che richiama feticci e simbolismi ancestrali, una sorta di idolo ligneo inneggiante alla ‘Libertà’, che Wandrè identificava nel rock ma anche nell’atto della minzione stessa in quanto atto liberatorio, da questo l’ispirazione alla forma della ciambella del w.c.

L’essenza scelta per il body è il meraviglioso Padouk africano finito ad olio, legno durissimo e pesante tanto quanto affascinante, che contribuisce a conferire un gusto tribale a questo strumento unico.

Come di prassi, manico e paletta sono in alluminio, neck through e con la consueta copertura in plastica sul retro. Inizialmente attraversava il foro maggiore fino al tallone, ancorandosi ad una staffa trapezoidale di alluminio. In seguito venne accorciato e il foro rimase così libero, con grande guadagno del look generale dello strumento.

Per la Rock 6 non venne disegnata una paletta dedicata ma furono utilizzati i modelli già montati su Selene, Waid e Spazial dello stesso periodo.

La parte elettronica consta di due pickup Davoli e di volume, tono e selettore dei pickup, inseriti nel tipico scatolotto di lamiera di ottone cromato già usato in tutte le altre chitarre tranne la Bikini.

La particolarità estrema delle forme di questo strumento è data appunto dai due fori che si aprono nel body, quello grande che spesso ha forma di cuore o fagiolo, e quello piccolo, di sagoma variabile dal rotondo all’ellittico.

Si è erroneamente pensato che la foggia dei fori corrispondessero a diversi periodi produttivi, mentre più probabilmente differivano a piacere dell’operatore addetto alla sagomatura, oppure, molto più spesso, erano dettati dalla necessità di correggere eventuali difetti del legno, errori o scheggiature verificatesi durante la lavorazione di un legno difficile come il Padouk.

La Rock 6 è caratterizzata da un suono decisamente caldo e da un notevole sustain donato dal Padouk e dal foro inferiore che donna al corpo una forma tipo il celebre Scacciapensieri (o Marranzano), imitandone le capacità fisiche.

In questa chitarra ci si può soprendere a vederci di tutto, da una strana faccia con un solo occhio, alla sagoma di un uccello (personalmente ci vediamo qualcosa di molto simile all’uccellino Woodstock dei Peanuts).

La Rock 6 venne prodotta dal 2 settembre 1961 fino alla fine del 1962, i due esemplari qua in esposizione appartengono alla produzione del 1962.

Per ulteriori informazioni vi rimandiamo all’ottimo libro “Wandré – L’artista della chitarra elettrica” scritto dal maggior esperto di Wandré, il dott. Marco Ballestri.

Panoramica della Wandrè Rock 6

Vi starete chiedendo quale delle due chitarre sia in vendita, ebbene si tratta dell’esemplare con i segnatasti a dot che vi mostriamo qua sotto.

Sembra che questo esemplare sia lo stesso suonato da Eddy Grant con gli Equals, come visibile nel video di ‘Baby come back’ a Top of the Pops.

Per richieste di informazioni potete rivolgervi a Gordy.

Eddy Grant con The Equals in ‘Baby come back’ (Top of the Pops – 1968)

…ma il suono com’è?

Demo dei suoni della Wandrè Rock 6

…e il basso?

La versione basso probabilmente nacque prima della chitarra, e fu battezzata, appunto, Rock Basso.

Chitarra e basso condividevano lo stesso diapason di 32,6 ma il basso aveva un solo pickup e rimase in produzione fino alla fine del 1964.

Paletta e attaccacorde erano gli stessi del modello Waid e anche il controllo di volume, come nello stesso Waid, si trovava alla base dell’attaccacorde.

Come suona un Wandrè Rock Basso

Ringraziamenti

Ringraziamo il guppo Facebook e nostro affiliato Wandré Guitars che, nella persona del dottor Marco Ballestri, ci ha cortesemente fornito materiale informativo e fotografico, nonchè gentile consulenza.

Un ringraziamento doveroso và sempre all’artefice di tutto, quel Wandré che ci ha lasciato un patrimonio di arte e innovazione che non manca mai di farci rimanere in stupefatta ammirazione.

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La Mala Ordina – 1972

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Quale si può considerare il film della carriera di Mario Adorf? Sicuramente il ruolo del piccolo ruffiano Luca Canali che, davanti alla disperazione, si rivela una trigre indomabile, potrebbe essere il candidato ideale.

Lorenzo

Fernando Di Leo con Woody Strode

Luca Canali è un piccolo sfruttatore di prostitute, ingiustamente accusato dalla sua organizzazione d’avere rubato a Corso, grosso trafficante, i proventi d’una spedizione di droga, incassati invece dal boss don Vito Tressoldi. Due mafiosi americani, David Catania e Frank Webster, giunti a Milano, si mettono sulle sue tracce, mentre Tressoldi, nell’intento di catturarlo e consegnarlo agli americani, ne fa uccidere la moglie e la figlia.

L’uomo, rivelatosi più duro del previsto, metterà in atto la sua vendetta…

L’interpretazione di Adorf è eccezionale, talmente realistica ed efficace da essere realmente rara nel suo genere.Personalmente considero questo uno dei massimi film di genere, dove la sceneggiatura e la regia di Di Leo e il montaggio di Amedeo Giomini, con contorno delle splendide musiche di Armando Trovajoli, contribuiscono a creare un’opera noir magistrale e indimenticabile.

La scena dell’inseguimento, dove sono palpabili il dolore, la forza della disperazione e il sudore è, a nostro parere, la più bella mai vista nella storia del cinema, talmente vivida ed indimenticabile da lasciare a bocca aperta e riuscire a mettere in disparte anche quelle dei classici d’oltreoceano quali “Il braccio violento della legge” o quelle dei polar francesi.

Il cast è stato ben concertato da Di Leo e tutti danno il loro piccolo o grande contributo. Henry Silva è eccellente nel ruolo del gangster italoamericano, trovando una valida spalla in Woody Strode. Adolfo Celi è eccellentemente spietato nel ruolo del boss Tressoldi, Luciana Paluzzi fa presenza con il suo tipico fascino, Franco Fabrizi dona la sua tipica simpatia nel piccolo cameo del meccanico zoppo e traditore ma realista.

Femi Benussi sorprende, superando il tipico ruolo della sgallettata e rendendo bene l’immagine dell’inasprita donna di vita, l’alttssima Francesca Romana Coluzzi è efficace nel ruolo della hippie che lancia i suoi messaggi politici e anche le apparizioni flash di Renato Zero hanno un loro perché, contribuendo a dare un colore lisergico alla pellicola. Silva Koscina appare quasi straniata nel ruolo della moglie di Canali, un ruolo fuori dalle righe per lei.

La cura di scenografie e costumi è perfettamente curata e i colori saturi e vividissimi, rendono ad hoc l’atmosfera calda di una tragedia che si svolge, improvvisa, in una estate milanese di 50 anni fa.

I clichè del mondo mafioso sono perfettamente esaltati, in questo secondo capitolo della Trilogia del Milieu di Di Leo, gangster che sbocciano e spargono denaro a fiumi in night club pieni di belle donnine discinte e sculettanti, costumi sgargianti e cafoni, dialoghi aggressivi e coloriti, battute salaci e spicce.

Ma su tutto svetta il personaggio di Canali, dotato di una simpatia contagiosa e per il quale non si può non parteggiare, impossibile non calarsi nei suoi panni di uomo braccato, un antieroe che si dimostra più valoroso, coraggioso e profondamente leale di ogni altro personaggio del film, anche quelli apparentemente puliti e che, al contrario di lui, vengono rispettati dalla società.

Il merito di Adorf è talmente evidente, lampante, scintillante, che non si capisce perché nel cinema italiano non gli siano stati offerti altri ruoli del genere, invece di relegarlo sempre in ruoli di contorno.

Attore dotato di una mimica facciale unica unità ad una fisicità imponente, riesce ad essere al tempo stesso a proprio agio ed impacciato, eppure eccellente nelle scene d’azione, fino a dimostrarlo pienamente nella già citata incredibile scena dell’inseguimento, autentico nodo centrale che trasforma quello che poteva essere un qualunque film di gangster in una pellicola epocale.

Da notare che l’attore esegue la scena il più delle volte direttamente, senza quasi l’utilizzo di controfigure, davvero impressionante.

LA SCENA DELL’INSEGUIMENTO DE “LA MALA ORDINA”

«A differenza di Melville e di Houston, io non avevo una visione romantica e idealizzata dei delinquenti, perché li conoscevo bene, essendo figlio e nipote di avvocati penalisti» dirà Di Leo del proprio cinema.

La mala Ordina è tratto da un racconto di Giorgio Scerbanenco, uno dei nostri vanti letterari a livello internazionale, autore di alcuni dei più bei racconti noir in assoluto.

Il racconto preso in esame è proprio quel “Milan by calibro 9” che Di Leo userà come titolo per il primo capitolo della sua trilogia.

Mario Adorf è Luca Canali

Henry Silva è David Catania

Woody Strode è Frank Webster

Adolfo Celi è don Vito Tressoldi

Luciana Paluzzi è Eva Lalli

Franco Fabrizi è il meccanico zoppo Enrico Morosini

Sylva Koscina è Lucia Canali

Francesca Romana Coluzzi è Triny

Femi Benussi è Nana

Trailer del film “La Mala Ordina” by Peripheral Visions con colonna sonora dei Calibro 35

Locandina minimal by Federico Mancosu

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Buone Notizie – 1979

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

L'ultimo film di Elio Petri è un testamento che contiene un grido silenzioso e disperato.

The Boss

Ombretta Colli, Giancarlo Giannini, Elio Petri

Dopo molti anni sono stato folgorato dal ritrovamento casuale di questo film e lo abbiamo visionato la sera stessa.

Questo articolo contiene spoiler (anticipazioni di trama) dall’inizio alla fine, si consiglia di guardare prima il film e poi tornare a leggere l’articolo.

In una Roma angosciantemente ricolma di immondizia ovunque, si svolge la tragedia di un uomo ridicolo, anzi, di una umanità ridicola e ipocrita, sempre più preda dell’ego e del vuoto narcisismo che contraddistingue i tempi attuali.

Il protagonista, innominato, è il simbolo incarnato di una umanità triste e puerile, che si nutre solo di materialismo, egoismo, sesso senza senso, dove i valori sono l’ombra di loro stessi, ormai solo un retaggio cattolico citato unicamente per salvare le apparenze e mettere a tacere la propria illuridita coscienza.

L’inversione dei costumi e un nuovo agguerrito femminismo sono alle porte, i metaforici “pantaloni” sono adesso un costume femminile, e la femminilizzazione della figura maschile è già in atto: è l’oggi.

In questa società devastata e devastante, si muove, malissimo, come il peggior pesce fuori d’acqua, l’innominato impersonato da Giannini, un ometto viscido al quale è stato affidato un ruolo di dirigenza in una grande stazione televisiva, fin troppo facilmente immaginabile di quale si possa trattare.

Questo omuncolo, che passa la sua vita tra il vittimismo e i continui tg catastrofici che emettono solo notizie terroristiche, è il centro di una storia surreale che si tinge di giallo.

Egli viene un giorno avvicinato da un vecchio amico di scuola ormai quasi dimenticato, che gli confessa il suo timore di venir presto ucciso da una ignota associazione che, per qualche non chiaro motivo, lo ha preso di mira con lo scopo di eliminarlo.

Gualtiero, lo strano personaggio interpretato da Paolo Bonacelli, sembra avere una forte attrazione verso l’innominato e dichiara più volte che questi è il suo più grande amico, cercandolo continuamente per tentare di coinvolgerlo nella propria vita, spingendolo anche tra le braccia della moglie, con la quale ha un rapporto di reciproca massima “libertà”, dicendosi felice che i due possano fraternizzare, visto che lui verrà presto ucciso e si dichiara unicamente interessato alla pratica della masturbazione, fatto che pare rafforzato da un manuale che si porta sempre dietro.

L’innominato ha una giovane moglie, insegnante, che ha spesso comportamenti infantili o adolescenziali e con la quale vive un rapporto di continui contrasti ma nel quale è comunque sempre viva la componente sessuale.

Nonostante questo, l’innominato cerca continuamente e goffamente conferme del proprio fascino da altre donne, che cerca sempre di circuire per soddisfare il proprio narcisismo, arrivando poi a non stringere mai nulla perché, come detto da Ada, moglie di Gualtiero, innominato non è altro che un mentalista moralista che non può godere naturalmente di nulla nella vita, nemmeno di 10 minuti di sesso liberatorio.

Il rapporto con il ritrovato Gualtiero si rivela sempre più sconvolgente per lui, che comincia a sospettare un interesse che và al di là dell’amicizia. Inoltre rivelerà di essere fortemente in difficoltà con la fissazione dell’amico, che vive in attesa del suo assassino, perché l’innominato stesso ha una paura folle di morire.

Non manca assolutamente nessun difetto a questo personaggio mai citato per nome, egli è proprio la perfetta allegoria di ogni bassezza umana e arriverà a rivelare del tutto la propria ipocrisia quando la moglie, che gli aveva dichiarato di essere incinta, gli confesserà di esserlo in realtà di Gualtiero, con il quale aveva una relazione, dicendogli di averla avuta perché Gualtiero gli ricorda lui.

Gualtiero verrà finalmente ucciso e l’innominato si recherà all’ospedale dove aveva lasciato l’amico, mettendo in atto una scena pietosa nella speranza di scagionarsi da un’eventuale  accusa di omicidio.

Il commissario di polizia che lo interroga sul posto, rimanendo fortemente colpito da questa ipocrita recita, comincia a dubitare che i due potessero avere una relazione e, ridendo, lo getta in faccia all’omuncolo, il quale, stizzito come suo solito, negherà quello che già dentro di sé in realtà teme.

Il film finisce nel solito parco dove il personale della emittente TV è solito andare durante le telefonate bombarole tipiche di questa società marcia. Sono proprio queste scene nel parco a puntare maggiormente il dito su quanto l’umanità si sia ridotta ad una puerile massa di adulti che sono in realtà adolescenti mai cresciuti.

Nell’ultima scena, l’innominato aprirà una busta che Gualtiero gli ha lasciato, sulla quale c’è scritto “da non aprire” e la quale contiene altre buste a matrioska con la stessa dicitura e alla fine una serie di biglietti con sempre scritto “da non aprire”, che innominato/umanità cercherà di buttare via e in seguito ad un ripensamento, raccogliere, come ultima risorsa per ritrovare sé stesso/a.

La citazione simbolica è ancora al famoso memoriale di Aldo Moro, già citato nel finale della sua opera precedente, ‘Todo Modo’, che fa capire che molto probabilmente ci troviamo davanti al secondo capitolo di una trilogia della quale il suo incompiuto “Chi illumina la grande notte” era il capitolo finale che, forse, mai vedremo.

Petri con il cast

Il comparto recitativo è eccellente: troviamo un Giannini in grande spolvero, un Bonacelli perfettamente in parte, il simpatico Ninetto Davoli in un ruolo molto marginale e un esilarante Franco Javarone nel ruolo del commissario.

Il misterico lato femminile si avvale di una giovane Angela Molina, già molto brava, nella parte di Fedora, la giovane moglie dell’innominato, Aurore Clément, eccellente nel ruolo di Ada, moglie di Gualtiero e una sorprendente ed affascinante Ombretta Colli nel ruolo della Tignetti, collega del protagonista. Si registra una apparizione della giovane e attraente Ritza Brown nel ruolo di Benedetta, amica di Fedora.

Venne proposto un ruolo anche a Giorgio Gaber, il quale rifiutò proponendo invece di prendere, appunto, la moglie Ombretta Colli.

Giancarlo Giannini è l’innominato

Angela Molina è Fedora

Paolo Bonuccelli è Gualtiero

Aurore Clément è Ada

Ombretta Colli è Tignetti

Di tutti i film di Petri, questo è sicuramente il suo più triste e sconsolato atto di denuncia, arrivato quasi in punta di piedi alla fine di una grande carriera dedicata al denudare l’umanità dalle ipocrisie e dal provincialismo e perbenismo cattolico.

Dopo la lucida ma arrabbiata analisi attuata nel precedente Todo Modo, scintillante pur nel suo essere profondamente ammantata di gesuitica oscurità, in Buone Notizie, come accade al suo protagonista, sembra non riuscire a trovare pace e non vede una possibile soluzione a questa società marcia e contorta nell’intimo.

I fiumi di immondizia presenti ovunque, strade, parchi, marciapiedi, lungo il tevere e sulle spiagge, sono il più chiaro e ovvio simbolo di quello a cui l’umanità si sta riducendo e allo stesso tempo sono il simbolo di malagestione che i personaggi alla guida della nostra società ci stanno imponendo da anni, annichilendo l’animo umano, costretto a questa immagine di marciume e bruttura.

La figura femminile è rappresentata come una sorta di scultura modiglianesca che, con un misterioso sorriso giocondiano (e senza astenersi dallo sferrare qualche salace giudizio critico), contempla la puerilità di questa umanità resa folle da preconcetti e ingegneria sociale, quelle armi che l’umanità stessa tollera e si autoinfligge per continuare a servire un ridicolo ordine sociale che non ha alcun altro scopo che rovinarla.

Con questo suo ultimo disperato atto di amore, Petri, spera di risvegliare l’umanità da questo sordido torpore di comodo, prima che arrivi all’inevitabile autodistruzione alla quale stiamo assistendo proprio adesso, in questo preciso istante.

Giannini e Petri

Trailer del film “Buone Notizie”