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Personaggi Storici

Odyssey b500ws

Odyssey Semiacustic Series B500WS – Il Sogno di Attila Balogh

By Bassi vintage canadesi, Personaggi StoriciNo Comments

Attila Balogh era il creatore degli strumenti Odyssey, gli Odyssey erano e sono, a detta di chi li ha provati, gli strumenti più comodi da suonare mai realizzati.
Attila Balogh per arrivare a questo risultato ha investito tutto sé stesso, impiegato ogni sforzo, ci ha rimesso addirittura la vita.
Attila era un personaggio unico ed è stato un grande liutaio, completamente dedicato alla sua passione, il lavoro della sua vita: la ricerca della chitarra perfetta.

Lorenzo

E’ fin troppo facile trovare assonanze tra Attila Balogh e Mario Maggi ma così sono i veri geni: personaggi estremamente affascinanti, che vivono per la loro visione, talmente dedicati che non puoi che ammirarli e amarli.

La biografia “Attila Balogh & the quest for the perfect guitar” di Craig Jones

Attila Balogh nasce in Ungheria nel 1948 in una famiglia di artisti che nel 1956 scelsero di lasciare il paese per sfuggire al comunismo e, dopo una sosta in Belgio, nel 1959 decisero di stabilirsi definitivamente in Canada.

Il piccolo Attila cresce ereditando lo spirito artistico e la mente aperta del padre e, dopo essersi espresso in molteplici campi, approda al mondo della liuteria, acquisendo in breve un’abilità fuori dal comune. Ancora giovanissimo prende la storica decisione: ogni suo sforzo sarà concentrato nella creazione dello strumento perfetto e a detta di molti ci si è avvicinato terribilmente.

Balogh con Stanley Clarke

Nella sua breve vita è riuscito a fondare la Odyssey Guitars Limited nel 1976 a Vancouver e in sei anni produrre circa 2000 strumenti artigianali tra chitarre e bassi.

Come logo scelse un piccolo disco di ottone incastonato sulla paletta con inciso sopra un piccolo baffo e questi strumenti furono suonati dai alcuni dei più grandi musicisti a livello mondiale.

Poi Attila morì nel suo laboratorio a soli 34 anni, portando con sé la magia e il suo lavoro finì quasi dimenticato, finché il marchio venne rilevato dai suoi vecchi soci che ricominciarono la fabbricazione di strumenti di tipo più comune.

Ma per la storia di Attila Balogh vi lasciamo al libro di Craig Jones e ci concentriamo su questo bellissimo basso BW 500WS, uno dei soli 10 esemplari fretless esistenti al mondo (del modello B500 furono prodotti non più di 50 esemplari, tra i quali i fretless che erano costruiti solo su richiesta) e sicuramente l’unico esistente in Italia.
Dotato di camere tonali, è un semiacustico a cassa chiusa equipaggiato con una coppia di pickup passivi Bartolini, molto potente, suono straordinario.

Prodotto tra il 1979 e il 1980, il basso è in ottime condizioni, completamente originale tranne per il pickup al manico che è stato spostato al ponte. E’ uno strumento che si trova perfettamente a suo agio nel jazz come nel rock e nella fusion.
I B500 erano il top di gamma della serie B, che veniva prodotta nelle versioni 100, 200, 300, 400 e 500 appunto. Il basso appartiene ad Armando che, con molto dispiacere, ha deciso di darlo via.
Gli interessati possono contattarlo all’indirizzo mail

GUARDA  e ASCOLTA la demo di questo ODYSSEY B500 WS

La chitarra più grande del mondo!

Vale la pena di menzionare una delle più curiose trovate di Attila Balogh: la chitarra più grande del mondo.

La gigantesca chitarra è praticamente una enorme serie G e fu costruita nel 1977 in 500 ore di lavoro nell’arco di 6 mesi da Attila e i due soci Ken Lindemere e Joseph Sallay per fare pubblicità alla Odyssey e lasciata in esposizione al negozio Iron Music di Vancouver e alle fiere tra le quali il Namm di Chicago e il MIAC in Canada.

Questo bestione, equipaggiata con parti in ottone, veri pickup DiMarzio e corde da pianoforte, pesa la bellezza di 160 kg, è lunga poco meno di 3 metri ed è perfettamente suonabile da qualsiasi gigante!

Balogh e soci con la chitarra gigante

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Vigalondo, Stearns, López-Gallego: TRE REGISTI DA TENERE D’OCCHIO

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Sotto i radar dell'attenzione pubblica verso il cinema, passano talvolta autori degni di nota, con una loro poetica nell'affrontare problematiche legate ai rapporti umani.
In questi tempi di progressivo ottundimento, di allontanamento dalla nostra vera essenza, la visione di certi film ci riporta, con coraggio ed impegno, a tutto quello che dovrebbe essere centrale nelle nostre vite.

Daniele Pieraccini

Parleremo di tre registi che ci hanno colpito particolarmente, grazie al loro sguardo inusuale ed intelligente sulla tossicità che spesso caratterizza le interazioni sociali.
Si tratta di tre autori che la sanno lunga su tematiche non solo “terrene” e che, evitando stili ricercati e pretenziose atmosfere “d’autore”, dicono quello che hanno da dire con semplicità, direttamente ma evitando ogni banalità. E occhio ai diversi livelli di lettura di film come Colossal, Open Grave e Dual

Nacho Vigalondo

Spagnolo, classe 1977, è spesso anche sceneggiatore dei film che dirige. Compare anche come attore, in sue e di altri produzioni. Esordisce con una serie di cortometraggi molto interessanti, dal 1999 al 2007, prima di dirigere il suo primo lungometraggio Timecrimes. Seguono altri corti e tre film, Extraterrestre, Open Windows e Colossal, oltre a contributi agli horror antologici The ABCs of Death e V/H/S: Viral.

Vigalondo ha un indubbio talento nello sviluppare grandi idee (grandi inteso proprio come scala di importanza) su una scala intima dei rapporti umani. Grazie alle sue indubbie competenze bastano pochissimi mezzi economici e pochi attori: la profondità dei concetti espressi è decisamente top class. Il genere fantastico è piegato a piacimento per parlarci delle dinamiche dei rapporti umani della società.
La fantascienza da lui proposta, per quanto epica, funge da sfondo a vicende umane ispiratissime narrate con magistrale intelligenza e senso del ritmo, che lasciano dentro allo spettatore ben altro rispetto ai blockbuster hollywoodiani dal vuoto intellettivo dissimulato da tonnellate di effetti speciali.

– Personaggi falsi, distruttivi e tossici nelle relazioni: i veri mostri sono dentro di noi.

Da vedere:

7:35 de la mañana – cortometraggio (2003)
Marisa – cortometraggio (2009)
Timecrimes (Los Cronocrímenes) (2007)
Extraterrestre (2011)
Colossal (2016)

Premi Play per guardare il cortometraggio MARISA di Nacho Vigalondo

Riley Stearns

Anche lo statunitense Riley Stearns (1986) si fa inizialmente notare per dei cortometraggi, per poi passare alle opere di lunga durata, dei quali cura anche la sceneggiatura. Il suo film di debutto è Faults, del 2014, seguito da The Art of Self-Defense del 2019 e dal recentissimo Dual.

Con uno stile asciutto, semplice ma efficace, Stearns mette in scena delle satire bizzarre, dirette ma sottili al tempo stesso, che espongono la sua visione sulle attuali articolazioni dei rapporti umani e sociali e sui loro futuri sviluppi.
Dual, in particolare, visto il tema trattato e la glacialità con cui è rappresentato, sembra l’episodio mancante della serie Black Mirror, solo ancora più spietato nella sua satira sociale.

– I protagonisti delle storie narrate da Stearns sono accomunati dall’avere tratti e comportamenti piuttosto autistici, avvolti da una apparente atarassia che li rende facili vittime di manipolatori ipocriti dai doppi fini.

Da vedere:

The Cub – cortometraggio (2013)
L’arte della difesa personale (The Art of Self-Defense) (2019)
Dual (2022)

Premi Play per guardare il cortometraggio THE CUB di Riley Stearns

Gonzalo López-Gallego

Un altro iberico ha lasciato il segno con un’opera impressionante, Open Grave, che sospettiamo debba molto alla sceneggiatura di Eddie e Chris Borey. I due hanno elaborato anche lo screenplay per Boss Level, un notevole action movie basato su un loop temporale.

Gonzalo López-Gallego (1973), autore dell’horror fantascientifico Apollo 18, realizza nel 2013 un altro horror, stavolta post-apocalittico, che non può lasciare indifferente chi cerca qualcosa di più in un film oltre a divertimenti e spaventi superficiali.
Un approccio fatto di dura realtà materica, per parlare di qualcosa di estremamente esoterico.
E un ammonimento sul ruolo della memoria e sui meccanismi che si creano quando viene resettata.
Leggete la recensione del film sul blog e soprattutto guardatelo!

– Tra i diversi livelli di lettura e prima dell’efficace “twist” finale, altre dimostrazioni delle patologie che disturbano i rapporti umani: brutale e sparata in faccia quella dello “zombie” intrappolato nel filo spinato, che implora aiuto solo per trascinare con sé all’inferno chi prova empatia per lui.

Da vedere:

Open Grave (2013)

Premi Play per guardare una scena tratta dal film OPEN GRAVE di Gonzalo Lopez-Gallego

Il trailer del film COLOSSAL di Nacho Vigalondo

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Per un pugno di idee – 5 precursori di grandi successi hollywoodiani

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Dove nascono le idee? Come si sviluppano? Chi ha le possibilità, economiche e di marketing, di realizzare e diffondere un prodotto di successo ma cerca un'idea nuova e potente, dove la trova? Bastano le menti degli scrittori di cinema delle grandi case di produzione o talvolta bisogna rubare qua e là?

Daniele Pieraccini

Negli studi di Hollywood ne sanno qualcosa. Il panorama cinematografico mondiale offre spunti inesauribili di idee: in particolare il vecchio continente e l’Asia sono da sempre fonti di ispirazione più o meno derivativa per i produttori statunitensi.
Si prende un film interessante, con un concetto geniale e lo si converte in prodotto per le masse, attuando le dovute modifiche per andare incontro ai gusti del grande pubblico e spettacolarizzandolo con trovate visive “esplosive” e volti noti di superstars. Un processo che è sempre stato applicato per esempio anche nella musica pop e rock.

Ovviamente anche dai celebri studi nel Sunset Boulevard sono usciti lavori di un certo spessore, ma dobbiamo tenere ben presente che stiamo parlando di una vera e propria industria a scopo di lucro, una macchina finanziaria più che artistica, con regole e gerarchie rigidissime che riguardano anche l’aspetto creativo.

Vogliamo dunque presentarvi, tra i molti, cinque film che hanno fatto da precursori a grandi successi al botteghino, alcuni reiterati in sequel, remake, reboot o veri e propri franchise. Ci pare giusto riconoscere a certe opere e a chi le ha concepite il valore aggiunto di anticipatori più o meno oscuri alle masse.

1 – “Il mondo sul filo” diventa “Matrix”

Gli autori del franchise con protagonista Keanu Reeves hanno dichiarato di essersi ispirati a pellicole di animazione nipponiche come Akira, Ghost In The Shell e Ninja Scroll. Nessuna menzione per un altro anime, Megazone 23 che è quello da cui hanno attinto più dettagliatamente.

Esaminando meglio, sono molteplici le “fonti” a cui si sono abbeverati i Wachowski, tra le altre vale la pena ricordare il noir fantascientifico Dark City, il romanzo Ubik di P.K. Dick ma, soprattutto, il film per la tv Il mondo sul filo (Welt am Draht) di Rainer Werner Fassbinder, uscito nel 1973 e poi ripreso in maniera aggiornata e più soft a fine millennio nel film Il tredicesimo piano di Josef Rusnak.

Fassbinder, basandosi sul romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye, mette in scena una vicenda sorprendentemente attuale, modernissima: un programma di realtà virtuale crea un mondo i cui abitanti vivono come autentico, un mondo fatto di realtà aumentata e di simulazioni paradossalmente più vere del vero. In questo ambiente solo una “persona di contatto” è cosciente di vivere in una simulazione.
Nei primi anni settanta eravamo ben lontani dalla società dei big data e dal mondo compresso e istantaneo del digitale come lo conosciamo adesso, per questo il film di Fassbinder è un sorprendente precursore di Matrix e dei dubbi sulla veridicità delle nostre esistenze.

Premi Play per guardare il trailer di IL MONDO SUL FILO

2 – “The Vindicator” diventa “Robocop”

Conosciuto anche come Frankenstein 88, The Vindicator è un film del 1986, diretto dal canadese Jean-Claude Lord, un regista dallo stile molto hollywoodiano ma interessato a temi politici.
In seguito ad un incidente, cervello e parti del corpo di uno scienziato sono trapiantate in un robot. Il cyborg risultante mantiene una componente umana e cosciente, scatenandosi in massacri vari per ottenere la sua vendetta. Lord si è indubbiamente ispirato al mito di Frankenstein, al film del 1959 Il colosso di New York (The Colossus of New York) ed ha senza dubbio attinto all’estetica dei primi film del suo connazionale Cronenberg, ma bisogna dargli atto di aver messo a punto una vicenda che, l’anno seguente, Paul Verhoeven riproporrà (scalando in secondo piano l’aspetto umano della tragedia del protagonista) nel ben più celebre Robocop.

Premi Play per guardare il trailer di THE VINDICATOR

3 – “Sole Survivor” diventa “Final Destination”

Una donna esce indenne in maniera inspiegabile da un terrificante incidente aereo; cerca di riprendere la sua vita normalmente ma, oltre ad un comprensibile malessere psichico, strani avvenimenti e fenomeni la perseguitano. La Morte stessa vuole completare la sua opera, la superstite non potrà sfuggire al suo destino.
Sole Survivor, in italiano uscito (in sordina) come Ragnatela di morte, è una pellicola del 1983 del regista Thom Eberhardt, autore l’ anno seguente dell’interessante La notte della cometa.
Sebbene le origini di un simile concetto vadano rintracciate nel cult movie Carnival of Souls del 1962, è da Sole Survivor che James Wong ha indubbiamente tratto lo spunto per il primo film della pentalogia di Final Destination.

Premi Play per guardare il trailer di SOLE SURVIVOR

4 – “La Jetée” diventa “L’esercito delle 12 scimmie”

Terry Gilliam non ha mai nascosto la sua fonte di ispirazione per il film con protagonista Bruce Willis, ma è impossibile non tributare un omaggio ad un opera avanti con i tempi come La Jetée, un cortometraggio sperimentale del 1962 realizzato dal regista francese Chris Marker mettendo in sequenza immagini fotografiche con una voce fuori campo che narra la storia. Una sorta di fotoromanzo post-apocalittico, in cui troviamo:
-una scena di sparatoria in un aeroporto, centrale nella vicenda
-un mondo devastato da una catastrofe
-sotterranei in cui il prigioniero è forzato a viaggiare nel tempo
-misteriosi segni sui muri
-riferimenti al mondo animale
Tutti punti forti de L’esercito delle 12 scimmie, uscito oltre trenta anni dopo.

Premi Play per guardare il trailer di LA JETEE

5 – “Reazione a catena” e “Torso” diventano “Venerdì 13” e “Halloween”

Per l’ultimo “caso” che prenderemo in considerazione sarebbe più opportuno parlare di ispirazione per un intero genere, quel tipo di horror che prende il nome di slasher.
I capostipiti di questo tipo di film sono considerati, nel mainstream, Halloween – La notte delle streghe (1978) di John Carpenter e Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham.
Ma ad inaugurare ed anticipare il genere poi diventato popolarissimo e sfruttato in America sono stati due registi italiani: innanzitutto Mario Bava, con il suo Reazione a catena del 1971, poi Sergio Martino nel 1973 con I corpi presentano tracce di violenza carnale.
Dalle opere di Mario Bava hanno “pescato” in tanti, alcuni si sono anche costruiti una fama spropositata alle spalle delle intuizioni del maestro dell’horror italiano, che ha dato il via a numerosi altri generi nel corso degli anni, nonostante budget e tempi di realizzazione limitati.
Nei suoi film possiamo scoprire parecchie scene plagiate da autori statunitensi e italiani.
E’ il caso di Reazione a catena (nei mercati anglofoni uscito come Twitch of the Death Nerve, Bay of Blood, Bloodbath), pieno zeppo di sequenze copiate ovunque, da Carpenter a Sam Raimi alla citata saga di Venerdì 13. Vale la pena citare il critico Alberto Pezzotta: “ Gli slasher tipo Venerdì 13 sembrano averlo copiato spudoratamente, senza per altro aver capito l’essenziale: che Bava non rispetta alcuna regola. E non solo è più colto e più ironico dei suoi presunti epigoni, ma anche molto più cattivo”.
Anche Sergio Martino parte da una sequenza del film di Bava per realizzare una intera pellicola basata su ragazze universitarie prese di mira in un ambiente isolato. Un filone del genere slasher, quello delle studentesse peccaminose, nasce quindi con I corpi presentano tracce di violenza carnale (Torso o The bodies bear traces of carnal violence), il thriller italiano preferito da Quentin Tarantino, che dal repertorio di genere del nostro cinema ha sempre attinto copiosamente.

“Così imparano a fare i cattivi!”

Chiudiamo con il titolo di lavorazione di Reazione a catena, ironizzando sui registi “furbetti” che abbiamo sgamato…anche se occorre ribadire che il nostro intento è più quello di offrire il giusto tributo ad artisti che, con la loro creatività, hanno offerto spunti notevoli e spianato la strada ai successi altrui.

Premi Play per guardare il trailer di TORSO

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NSU Ro 80 – Wankel: das Auto

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I motori a pistone sono lo standard presente in quasi tutti i layout dei motori a combustione interna.
Diciamo quasi, perché in realtà esiste anche uno stile che utilizza un'ingegneria unica: il motore rotativo.

Daniele Pieraccini

Gli storici stabilimenti NSU Motorenwerke di Neckarsulm

Linee elegantemente moderne, fantastica da guidare grazie alla fluida potenza rotativa, la NSU Ro80 è stata a tutto tondo un’auto eccellente per l’epoca. Il motore rotativo Wankel, un concetto tutt’oggi attualissimo, è stato sia il suo punto di forza che la sua rovina.

Felix Wankel

I motori a pistone sono lo standard presente in quasi tutti i layout dei motori a combustione interna.
Diciamo quasi, perché in realtà esiste anche uno stile che utilizza un’ingegneria unica: il motore rotativo.

L’ingegnere tedesco Felix Wankel, da autodidatta, concepì la prima idea di un simile motore già nel 1923, cercando di risolvere uno dei principali problemi dei propulsori fin lì realizzati: la perdita dell’enorme forza d’inerzia sviluppata dal moto rettilineo alternato del pistone. Era energia utile, da trasformare in moto rotativo attraverso un sistema di trasmissione biella-manovella.

Nel dopoguerra Wankel entrò come progettista nella NSU Motorenwerke, impegnandosi nello sviluppo di macchine a stantuffo rotante. Nel 1951 ebbe così la possibilità di iniziare seriamente a lavorare sul suo progetto e nel 1957 realizzò il primo prototipo, testandolo nel corso dello stesso anno.

Un rotore triangolare ad angoli smussati in una camera di forma ovale sostituiva il pistone nel cilindro. Il motore rotativo Wankel era un progetto unico e rivoluzionario, che prometteva una potenza efficiente per le dimensioni, erogata in maniera adeguatamente regolare.

Felix Wankel

Di cosa fosse capace il motore rotativo avremmo avuto dimostrazione in futuro, quando, in mano a Mazda, ha equipaggiato molte auto leggendarie, arrivando anche alla vittoria della 24 ore di Le Mans nel 1991.
Ma i motori Wankel hanno visto anche altri usi veicolari: moto da corsa, aereoplani, elicotteri e auto piuttosto oscure ma geniali hanno utilizzato o utilizzano motori rotativi non prodotti da Mazda.

NSU Spider Wankel

All’inizio degli anni ’60 la NSU inizia una fase di sviluppo e sperimentazione montando vari tipi di motore rotativo su corpi vettura derivati dalla Prinz. I problemi da risolvere a livello di affidabilità non mancano, ciò nonostante al Salone di Francoforte del 1963 NSU presenta al pubblico la “Spider Wankel”. La NSU Spider a motore rotativo era derivata dalla scocca della Sport-Prinz, per preservare lo stile italiano della coupè firmata da Bertone.

La carriera commerciale di questo piccolo gioiello motoristico però risentì di varie problematiche, relative a consumi eccessivi e tenuta delle guarnizioni del rotore stesso. Nel 1967, dopo soli tre anni di commercializzazione e appena 2375 esemplari prodotti, la NSU Spider scompare dal listino.

Wankel Spider

Uno sviluppo più efficace avrebbe richiesto investimenti non alla portata della NSU: il successo della Prinz era stato oscurato dalle vendite del Maggiolino Volkswagen.
Il motore rotativo si era comunque dimostrato una vetrina notevole: gli unici incassi realmente consistenti per la casa di Neckarlsum in quel periodo in realtà provenivano dalla vendita delle licenze Wankel (a marche come GM, Mazda. Citroen…), che consentirono la sopravvivenza indipendente di NSU fino al 1970.
In quell’anno furono prodotte 140.000 Prinz, a fronte di oltre un milione di “Beetle”. Proprio la VW, sapendo dei problemi della rivale, fa il suo ingresso nel capitale della NSU, che successivamente sarebbe stata fusa con l’Auto Union.

NSU Ro80

Prima di arrivare a questo epilogo, però, NSU insiste nel portare avanti il suo audace piano. Nel 1962 una squadra viene incaricata di progettare e sviluppare una grande berlina da famiglia, a due porte e con caratteristiche più sportive, equipaggiata da un motore Wankel da circa 80 CV (contro i 50 della Spider).
Il team è composto dal supervisore Eward Praxl, da Walter Froede allo sviluppo del motore e dal designer Claus Luthe, in precedenza tra i responsabili del disegno del frontale della gloriosa FIAT 500, oltre che delle linee della Prinz e della suddetta NSU Spider e in futuro di molti modelli Audi e BMW.

L’obiettivo è quello di mettere a punto una vettura di fascia medio alta, una berlina che deve alloggiare il rivoluzionario Wankel.
Il risultato dell’estro meccanico di Praxl e della matita di Luthe è la NSU Ro80, oggi considerata un capolavoro di design, grazie alla sua linea a cuneo decisamente sopra le righe per l’epoca, ma che sarebbe stata in voga nelle auto del decennio successivo.
Ro significa Rotationskolben (pistone rotante) e 80 indica la sigla interna del progetto.

Nell’agosto del 1967 ecco dunque la presentazione alla stampa e a numerosi rappresentanti di concessionari NSU da tutta Europa, nella cornice del Castello Solitude, presso Stoccarda.
Escono dalla fabbrica i primi esemplari e anche il grande pubblico può ammirarla al Salone dell’automobile di Francoforte.

Ro 80

Oltre alle linee innovative ma levigate, con un cx (coefficiente aerodinamico) tra i migliori in assoluto per quegli anni, la Ro80 presenta gli ingombri di una grossa berlina, con un passo volutamente lungo per agevolare l’abitabilità interna. Il motore rotativo è più leggero e meno ingombrante, il che rende possibile un frontale più basso della norma.
Il cambio è semiautomatico, quindi sono presenti solo due pedali: la frizione è attivata insieme alla leva quando il conducente cambia marcia. I freni sono a disco su tutte le quattro ruote.
Ovviamente l’aspetto più caratteristico è il motore, un birotore da 995 cm³ che eroga fino a 115 CV, realizzato con la consulenza dello stesso Felix Wankel. Grazie alla sua potenza e a dei rapporti piuttosto lunghi del cambio, la Ro80 arriva a toccare i 180 km/h.

Una carriera breve ma intensa

Nel 1968 è suo il premio di “Car of the Year”. La guida di questa auto si rivela piacevole sia per i piloti più esperti ed esigenti che per l’autista comune: i punti di forza sono rappresentati da un’ottima distribuzione dei pesi, eccellente aderenza, risposta del motore molto dolce, sospensioni sofisticate e chassis molto agile. L’obiettivo di ridurre lo sforzo del guidatore, rendendo la guida piacevole anche per gli sportivi è stato raggiunto. Il leggero motore rotativo si rivela oltretutto molto silenzioso, per gli standard dell’epoca.

Sfortunatamente si presentano ben presto anche delle problematiche, che finiranno per minare fatalmente la carriera della Ro80. L’unità rotativa infatti rivela la necessità di interventi massicci in seguito a rotture già intorno ai 50.000 km di percorrenza. Questi problemi saranno risolti negli anni a venire, ma la fama del modello è danneggiata in maniera irreparabile. Anche i consumi si riveleranno più alti del previsto; il “marchio dell’infamia” è applicato alla vettura, ormai è uno stereotipo diffuso anche tra chi non ne ha mai neppure vista una. Gli acquirenti preferiscono così rivolgersi a modelli più tradizionali.

Questo rovesciamento di risultati contribuisce al crollo della NSU: nel 1977 esce l’ultimo dei 37.406 esemplari prodotti e con esso termina la storia della casa madre, iniziata oltre cento anni prima con la produzione di macchine per maglieria, per proseguire con biciclette, moto e infine un notevole percorso nel settore automobilistico.

L’avveniristica aerodinamica della Ro80 e il suo propulsore Wankel

Oggi il Wankel viene continuamente aggiornato in robustezza ed affidabilità e sono stati prodotti motori con addirittura 12 rotori, ottenendo facilmente potenze assolutamente incredibili.

E per quanto riguarda la NSU Ro 80, sopravvive l’interesse dei collezionisti, attratti dalla ancora sorprendente bellezza e dall’originalità tecnica di questo innovativo ma sfortunato modello.

CLICCA PLAY PER GUARDARE LA CLIP CON IL FILMATO DI APPROFONDIMENTO DELLA NSU RO 80

CLICCA PLAY PER VEDERE UN VIDEO DEL FUNZIONAMENTO A RALLENTATORE DEL MOTORE WANKEL!

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Possessor (2020)

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Nel suo secondo algido e fastidiosissimo lavoro, Brandon Cronenberg continua il suo personale percorso nel capitalismo contemporaneo e le sue tare prive della minima etica e moralità iniziato con l'altrettanto fastidioso Antiviral.

Lorenzo

In un 2008 alternativo, Tasya Vos è un killer per conto di una organizzazione segreta che usa la tecnologia degli impianti cerebrali per prendere possesso dei corpi di altre persone e spingerli a commettere omicidi a beneficio di clienti paganti. Ma non si tratta di una cosa indolore per lei e dovendo imitare altre persone per lunghi periodi comincia a sperimentare un distacco dalla propria identità. Quando nell’ultimo incarico qualcosa va storto, Vos si ritrova intrappolata nel corpo di un uomo la cui identità minaccia di cancellare per sempre la sua…

Nel suo secondo algido e fastidiosissimo lavoro, Cronenberg jr continua il suo personale percorso nel capitalismo contemporaneo e le sue tare prive della minima etica e moralità iniziato con l’altrettanto fastidioso Antiviral.

Se nel suo primo film erano la vacuità della moda, la stupidità dell’influencing che portavano i giovani ormai squilibrati da una assoluta mancanza di valori e di scopi vitali a ricercare una trasfigurazione nello sfregiarsi attraverso l’acquisizione di malattie di personaggi dello spettacolo, in Possessor il discorso prosegue con il furto dell’identità e del corpo, la trasformazione e trasfigurazione dell’individuo in macchina unicamente anelante al dovere volto all’ottenimento del capitale, disposto a qualsiasi gesto pur di ottenere.

Andrea Riseborough è Tasya Vos

La lente del microscopio di Cronenberg è spietatamente puntata sulla perdita dell’identità della figura femminile e materna e la distruzione della stabilità della coppia e della famiglia. Lo scopo è un’umanità svuotata da ogni scintilla vitale e sacra, resa nichilista e isolata con ogni mezzo da chi tira le fila di una società meccanicizzata e non per questo meno putrescente: Vos è ormai un mostro senza identità individuale e sessuale che è costretto dopo ogni “missione” a ricordarsi di chi è tramite esercizi sistematici perchè ogni volta perde un tassello della propria essenza.

Una versione opposta e dileggiatoriamente ridicola del “Ricordo di Sé” di Gurdjeffiana memoria che, al contrario degli insegnamenti del Maestro che spingevano a riscoprire la propria sacra unicità, serve unicamente a preservare il funzionamento dell’uomo meccanico. L’immagine della farfalla usata come gancio per “ricordare” risulta ancora più derisoria per chi è a conoscenza del reale uso che ne viene fatto a livello simbolico e non a caso Vos finirà col perdere anche il senso di colpa per averla uccisa.

Locandina del film

Ogni passaggio del film è straniante, aggressivo e volutamente disturbante anche nella sua lentezza: si sta puntando insistentemente il dito sul baratro di cecità nel quale l’umanità sta precipitando per seguire una sparuta manica di pifferai imbecillemente deliranti in giacca, cravatta e montura rituale.

In questo senso si trova piuttosto azzeccata la Leigh, che ricopre la parte di Girder – spietato “master of puppets” di Vos – affarista e governante del potere e che allo stesso tempo, agendo da psicopompo, la condurrà fuori dal delirio emotivo confusionale nel quale è precipitata facendole abbandonare ogni seppur minimo trabocco di coscienza e amore: due mostruose “ex donne” ormai vecchie dentro e fuori, svuotate di ogni umanità, imbruttite e abbrutite dentro e fuori che si avviano, ormai raggiunta la tanto anelata sicurezza economica, verso un finale già scritto di solitudine mortale.

Scordatevi la distopia perchè, a meno di un immediato acquisto di consapevolezza, questa oggi sta diventando la realtà.

Una sequenza centrale del film. L’effetto, molto di Saul-Bassiana memoria, è stato ottenuto con metodi classici e senza l’ausilio di CGI. Cronenberg dichiara di aver tratto ispirazione dal cinema italiano di genere.

Altra cosa davvero sorprendente è la trasformazione della Riseborough, che non solo appare oggi completamente diversa fisicamente dalla fascinosa Victoria dell’Oblivion di pochi anni fa ma ha addirittura perso ogni traccia di femminilità, raggiungendo quasi uno stato androgineo che è sicuramente perfetto per la sua parte qua ma allo stesso tempo pone diversi dubbi sugli strani e improvvisi cambiamenti fisici e caratteriali dei personaggi del mondo dello spettacolo.

Forse Cronenberg sta puntando il dito anche su questo, forse ha davvero ricevuto l’eredità di tanto e scomodo padre e ne sta portando avanti l’opera.

A volte succede.

Brandon Cronenberg

“Possessor” (Canada, Gran Bretagna 2020) di Brandon Cronenberg

Regia Brandon Cronenberg
Soggetto e sceneggiatura Brandon Cronenberg
Produzione Ingenious Media, Telefilm Canada, Arclight Films, Ontario Creates, Particular Crowd, Crave, Rhombus Media, Rock Films
Interpreti Andrea Riseborough: Tasya Vos
Christopher Abbott: Colin Tate
Rossif Sutherland: Michael Vos
Tuppence Middleton: Ava Parse
Sean Bean: John Parse
Jennifer Jason Leigh: Girder
Kaniehtiio Horn: Reeta
Raoul Bhaneja: Eddie
Gage Graham-Arbuthnot: Ira Vos
Gabrielle Graham: Holly Bergman
Fotografia Karim Hussain
Montaggio Matthew_Hannam
Musiche Jim Williams
Distribuzione Elevation Pictures (Canada)
Signature Entertainment (United Kingdom)
Data di uscita

January 25, 2020 (Sundance)
October 2, 2020 (Stati Uniti e Canada)
November 27, 2020 (Gran Bretagna)

Durata
104 minuti

 

Curiosità

Il direttore della fotografia di Possessor è il regista e sceneggiatore Karim Hussain, già autore di Subconscious Cruelty e Ascension, film assai noti tra gli appassionati dell’horror underground.

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Il Caso Mattei (1972) – Il Mistero che non è un Mistero

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Di questi tempi si parla tanto di indipendenza energetica italiana, visto che c'è da sganciarsi dal nemico di turno dei “padroni” a stelle striscianti. L'indipendenza energetica, quella vera, è stata alla nostra portata per decenni ed è stata ostacolata dalle stesse sanguisughe che oggi vogliono imporci ulteriori sacrifici per i loro interessi economici e politici.

Daniele Pieraccini

Enrico Mattei

«Noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale.

Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».

Di questi tempi si parla tanto di indipendenza energetica italiana, visto che c’è da sganciarsi dal nemico di turno dei “padroni” a stelle striscianti. L’indipendenza energetica, quella vera, è stata alla nostra portata per decenni ed è stata ostacolata dalle stesse sanguisughe che oggi vogliono imporci ulteriori sacrifici per i loro interessi economici e politici.

La Basilicata, ad esempio, galleggia letteralmente sul petrolio. Già nel 1400 gli abitanti vedevano lingue di fuoco prodotte dal metano; nel ‘900 ebbero inizio le prime attività di ricerca, fino al 1959 quando, grazie ad Enrico Mattei, vennero alla luce i primi, importanti giacimenti.

Mattei e la parabola del gattino

Proprio a questo eccezionale e coraggioso imprenditore, la cui figura Eni continua a sfruttare per fregiarsi di un’etica che non le appartiene, Francesco Rosi dedicò nel 1972 un notevole film (mai uscito su DVD), traendolo dal libro dal libro L’assassinio di Enrico Mattei di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi (anche co-sceneggiatori del film) e affidando la parte del dirigente a Gian Maria Volonté.

Un film-inchiesta che dovrebbe essere visto da tutti, proiettato nelle scuole e riconosciuto come testimonianza imprescindibile di una vicenda che ha modificato profondamente le sorti del nostro Paese.

Partendo dalla fine, ovvero dalla morte di Mattei, avvenuta in un “incidente” aereo nel 1962, Rosi mette in scena un racconto dei fatti svolto con rigore documentario ma avvincente, originale e obiettivo al tempo stesso. Usando diversi registri narrativi e mai sbilanciandosi in conclusioni affrettate, il regista napoletano si mette in gioco artisticamente ed umanamente, realizzando, con l’apporto del solito, grande Volonté, un mosaico magistrale di inchiesta politica.

Soffermandosi un attimo su Volonté, pensate che nello stesso anno girò anche La classe operaia va in paradiso di Elio Petri

Locandina del film

“NON VOGLIO ESSERE RICCO IN UN PAESE POVERO”

Nel 1945 Enrico Mattei viene nominato commissario straordinario per la liquidazione dell’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP). Ben presto il dirigente marchigiano contravviene agli ordini, scavalcando il CDA fresco di nomina dell’AGIP e ordinando nuove trivellazioni nel lodigiano, convinto delle potenzialità dell’azienda che era stato chiamato a liquidare.
Mattei ritiene necessario mantenere in mano italiana la possibilità di beneficiare di eventuali sviluppi fruttiferi nel settore degli idrocarburi, scatenando polemiche e contrasti tra chi è pronto ad appoggiarlo e chi invece teme soprattutto una reazione da parte degli Alleati.

I sospetti di Mattei sulle insistenze per la liquidazione dell’AGIP sono confermati dalla generosa offerta, di 250 milioni, proveniente dagli Stati Uniti per l’acquisizione delle strutture dell’azienda, nonché dall’improvviso aumento di tecnici stranieri nel lodigiano e dal contestuale rilascio di permessi per esplorazioni e ricerche.
Sostenuto vivamente dai geologi, Mattei convince con le sue relazioni il Ministro dell’Industria Giovanni Gronchi e il Ministro del Tesoro Marcello Soleri: è infine nominato vicepresidente con l’incarico di continuare l’esplorazione mineraria.

Successivamente Mattei fonda l’Eni, costruendo gasdotti per lo sfruttamento del metano, ottenendo concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica.
La sua attività rompe l’oligopolio delle compagnie petrolifere mondiali (che egli stesso chiamò “le sette sorelle”), inserendo l’Italia in un periodo di autonomia nazionale oltre che rendendola competitiva nel mondo, fuori dalle logiche di sfruttamento del cartello economico.

Enrico Mattei e il cartello petrolifero (dal film “Il caso Mattei”)

Con il passare degli anni, impegnandosi anche attraverso media e politica (fonda il quotidiano Il Giorno) e aprendo ai paesi africani e mediorientali con un approccio paritario lontano da logiche colonialiste, Mattei accresce la sua potenza e mira ad uno sganciamento politico ed economico dall’orbita degli Alleati.

L’intervista (dal film “Il caso Mattei”)

Il discorso di Gagliano e la morte

Il 27 ottobre 1962 Enrico Mattei si trova a Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna. La zona è promettente in fatto di giacimenti di gas e petrolio, ma la politica locale del periodo è al soldo degli americani e cerca di sbarrargli la strada.
Mattei si rivolge alla gente del posto, alla miseria e alle speranze della gente del posto; le sue sono parole importanti, a futura memoria (se la memoria ha un futuro). Chi prese il suo posto all’Eni è andato in direzione opposta alla sua: le trivelle scorazzano selvaggiamente in Val di Noto e nei nostri mari, ma per rifornire gli arsenali della NATO.

Poche ore dopo Enrico Mattei, insieme al pilota e ad un giornalista statunitense che avrebbe dovuto intervistarlo, trova la morte a bordo del suo piccolo velocissimo jet privato che precipita mentre rientra a Milano da Catania.

Quella di Enrico Mattei non è una storia di un passato ormai lontano, non più di interesse: è la storia del nostro sciagurato Paese, trasformato in terra di conquista di altre nazioni, è la storia di un Uomo assassinato, tolto di mezzo e rimpiazzato da altri per portare avanti obiettivi ben precisi. Obiettivi ad oggi, sessanta anni dopo il suo sacrificio, sempre più evidenti.

Guardate il film.

Enrico Mattei – L’arroganza dei potenti

Articoli dell’epoca sul film

Mattei in una delle sue frequenti visite ispettive agli impianti

FRANCESCO ROSI PARLA DEL SUO FILM

“Il Caso Mattei” (Italia 1972) di Francesco Rosi

Regia Francesco Rosi
Soggetto e sceneggiatura Tito Di Stefano, Tonino Guerra, Nerio Minuzzo, Francesco Rosi, Fulvio Bellini (non accreditato), Alessandro Previdi (non accreditato)
Produzione

VIDES

Franco Cristaldi
Fernando Ghia

Interpreti Gian Maria Volonté: Enrico Mattei
Luigi Squarzina: il giornalista liberale
Gianfranco Ombuen: ingegner Ferrari
Edda Ferronao: signora Mattei
Accursio Di Leo: personalità siciliana
Furio Colombo: assistente di Mattei
Peter Baldwin: Mc Hale
Aldo Barberito: Mauro De Mauro
Fotografia Pasqualino De Santis
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Piero Piccioni
Distribuzione CIC
Data di uscita

26 gennaio 1972

Durata
118 minuti

 

CURIOSITA’:

Negli ultimi giorni del luglio del 1970 Rosi contattò il giornalista del quotidiano palermitano L’Ora Mauro De Mauro per ricostruire le ultime ore di vita di Mattei a Gagliano. De Mauro, si recò a Gagliano dove grazie al signor Puleo, gestore del locale cinema, riuscì a procurarsi il nastro con l’ultimo discorso fatto dal Mattei; ebbe colloqui anche con Graziano Verzotto, politico e amministratore dell’Ente Minerario Siciliano (da molti indicato come molto vicino alla cosca di Giuseppe Di Cristina) e con Vito Guarrasi, personaggio molto ambiguo vicino tanto ad Amintore Fanfani quanto ai Servizi Segreti Statunitensi. Il 16 settembre del 1970 De Mauro venne sequestrato sotto casa a Palermo e non fu mai più ritrovato.

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Black Merda: una band dal “bad karma” immeritato

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I Black Merda erano un combo funky rock originario di Detroit, conosciuti soprattutto per il loro primo, omonimo album. Il loro suono era uno spesso mélange di sonorità hendrixiane, funk sporco, chain-gang blues alla Muddy Waters, soul psichedelico e finanche di passaggi acustici piuttosto folky.

Daniele Pieraccini

«Let us introduce ourselves to you/We’re not prophets like some people might say/But we can save you from this mass of confusion/If you wanna be saved, we better hear you say/‘Set me free!»

Black Merda

I Black Merda erano un combo funky rock originario di Detroit, conosciuti soprattutto per il loro primo, omonimo album. Il loro suono era uno spesso mélange di sonorità hendrixiane, funk sporco, chain-gang blues alla Muddy Waters, soul psichedelico e finanche di passaggi acustici piuttosto folky.

Secondo il parere di Ellington “Fugi” Jordan (one-man band di funky psichedelico dei fine ’60 che si interessò della band in seguito ad una collaborazione, tanto da procurare loro un contratto discografico con la nota Chess Records) il loro nient’altro era che “black rock”, rock fatto da neri.

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Ellington “Fugi” Jordan con i futuri Black Merda

Il nome, estremamente infelice quando proposto a madrelingua di una lingua romanza, proviene dallo spelling slang della parola “murder”. Il gruppo lo volle per ricordare la violenza dilagante vissuta da molti afroamericani in quel periodo, soprattutto nei centri urbani del paese più “democratico e libero” del mondo, tra crisi economica e integrazione razziale accelerata. Una dichiarazione politica contro sistema poliziesco e Klan.
E’ il caso di dire che la loro reputazione (al pari del nome) li precede: ne hanno cantato le lodi, nel corso degli anni, personaggi come Julian Cope e Beastie Boys. Questo culto coltivato negli anni nei confronti del loro lavoro ha infine portato ad una reunion nel 2005.

Anthony e Charles Hawkins alle chitarre, VC Lamont Veasey (aka VC L Veasey, Veesee L Veasey, The Mighty V!) al basso, Tyrone Hite alla batteria formano la band alla fine degli anni sessanta, dopo molte esperienze in comune come turnisti: fra i tanti hanno spalleggiato Edwin Starr, Wilson Pickett, Joe Tex, The Chi-Lites, The Temptations, Eric Burdon.
Ben presto il loro look afro e soprattutto l’attitudine incendiaria dei live (a cui, a loro dire, il primo LP non renderà affatto giustizia) li denotano come leaders della scena black rock e heavy funk che sta per conoscere anche Funkadelic e The Bar-Keys.

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“Prophet”, prima traccia del primo LP

Il primo LP(1970), oggetto di culto tra appassionati e collezionisti, è un ponte ideale tra Hendrix e Funkadelic (passato e futuro del black rock) forse non così rivoluzionario come spesso è stato dipinto, ma viscerale e quasi proto-punk (del resto siamo nella patria degli MC5). Gli autori non sono però soddisfatti del risultato a livello di produzione, si sentono derubati del loro big sound e delle dinamiche che rappresentano il loro orgoglio dal vivo.

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“Cynthy-Ruth”

“Windsong”, che prefigura “Maggot Brain”

Il successo del disco è tutt’altro che travolgente, sebbene i Merda raccolgano consensi entusiasti nelle loro esibizioni live. Si rifiutano comunque di impegnarsi in tour prolungati in supporto di un disco che ritengono sotto i loro standard di musicisti.
Si spostano per un periodo in California, vivendo un buon momento di brillantezza musicale e personale, finché non sono costretti a rinunciare al batterista Tyron Hite, divenuto inaffidabile.
Subito dopo ricevono una chiamata dalla Chess records: sono convocati per registrare il seguito al primo disco, con un nuovo produttore ed un nuovo batterista. Accettano di buon grado, volenterosi di esplorare nuove direzioni musicali.
Per il secondo album (1973), Long Burn the Fire, decidono dunque di cambiare il nome in Mer-Da (!), ma non è l’unico elemento che mi ha sorpreso. La notevole svolta intrapresa dai nostri comprende elementi di pop che ricordano i Love di Arhur Lee o gli Hot Chocolate di Cicero Park. Archi compresi…

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“For you”, primo brano del secondo album “Long Burn The Fire”

Fin dal brano di apertura, la vagamente caraibica For You, il filo conduttore dell’album è evidente: le oscillazioni tra accordi minori e maggiori ci parlano di crisi bipolari, di uno scenario sociale dal quale si vorebbe fuggire, di crisi personali vissute e narrate tra metafore ed introspezioni non convenzionali e prive di sentimentalismi inutili.

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“My Mistake!”

La traccia finale, We Made Up, dimostra infine come la band ridotta all’osso strumentalmente, sappia coniugare ritmo funky ed introspezione senza neppure necessità di parole.

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“We Made Up”

Gli esiti di questa nuova parentesi artistica tuttavia si rivelano fatali. La band non prova più interesse nel progetto, non riesce più ad identificarsi in una situazione che vive da molto tempo (i tre “superstiti” si conoscono e frequentano fin da bambini) e, complici alcune scelte manageriali sbagliate, decide di interrompere l’esperienza.

Fino appunto al 2005, quando si riuniscono, un anno dopo la morte di Tyrone Hite.

Per concludere, è interessante come abbiano sempre evitato di allinearsi ad organizzazioni politiche di sinistra stile Black Panthers, nonostante le loro canzoni trattassero spesso temi politici, sociali e razziali.
“Potevamo vedere da dove provenivano e condividere punti di vista politici con alcuni di loro – sapevamo quali erano i problemi”, afferma Veasey. “Ma essere coinvolti con loro non era il nostro genere. Eravamo più dediti a essere musicisti e cantautori e, anche se non stavamo pubblicando le cose in modo esplicitamente politico, abbiamo trasmesso i nostri sentimenti.”

I RIFORMATI BLACK MERDA DAL VIVO CON “CYNTHY-RUTH”

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Como Vou Fazer – Dois Irmãos e Mariana De Moraes (2006)

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Ci sono momenti in cui la musica, la vera musica, nasce da sola per afflato divino e ci colpisce con la sua Verità.

Lorenzo

Succede ancora oggi, in tempi di “musichetta fast food” che sarebbe meglio non aver mai nemmeno ascoltato, che la bellezza assoluta riesca ad arrivare a noi, oltrepassando con la sua luminosa verità la spessa barriera del brutto che ci circonda.
Mai dirompente, più spesso è come un messaggio nella bottiglia che giunge a chi doveva arrivare, alle spiagge che erano predestinate a riceverla.

E, come un messaggio nella bottiglia, stavolta ha preso la forma di una apparentemente semplice collaborazione tentata per esperimento: un remix di uno splendido brano bossa nova scritto dai due musicisti Antoine Olivier e Glaucus Lynx (i Dois Irmãos ovvero Due Fratelli) e interpretato dalla magica voce di Mariana De Moraes.

La copertina originale dell’album “Putumayo Presents: Brazilian Lounge”

Il brano originale è Meu Amor ed è tratto dall’album Real Brasil che il duo ha realizzato nel 2006 per l’etichetta Cavendish Music e che si trova su iTunes mentre lo splendido remix del quale stiamo trattando è stato realizzato dallo stesso produttore dell’album Real Brasil sempre nel 2006 ma per l’etichetta statunitense di world music Putumayo ed è compreso nella bella raccolta Putumayo Presents: Brazilian Lounge.

La copertina dell’album “Real Brazil”

Se dei due musicisti Antoine Olivier e Glaucus Lynx (autore effettivo di Meu Amor) purtroppo poco si sa, lo stesso non si può dire di Mariana De Moraes, attrice e cantante che deriva da una famiglia da sempre dedicata al campo artistico che comprende celebri musicisti, parolieri, attori, registi, fotografi, scrittori, poeti…
Personaggi come Luíza Barreto Leite, Vinicio De Moraes, José Sanz, Sérgio Sanz, la madre Vera Valdez ma anche gli amici di famiglia come Caetano Veloso e Gal Costa, non potevano non lasciare la loro eredità sull’affascinante Mariana che, nata sotto il segno della Bilancia, ha spontaneamente donato l’energia di Venere, dea dell’Amore, a questo brano da brividi.

Mariana De Moraes

Ed è proprio questo l’effetto che provoca all’ascoltatore: brividi piacevoli e profondamente rilassanti. Nonostante le parole contengano le tracce cariche di profonda malinconia di una storia d’amore ormai finita narrata da chi gli strascichi li porta sempre addosso, questa canzone ha il potere di spalancare le porte chiuse dell’animo umano e parlare diretta al cuore, rilassando l’ascoltatore e invitandolo ad affrontare eventi della propria vita ancora mai risolti facendoci pace.

Basta leggere le decine e decine di commenti entusiasticamente innamorati per capire che questo, più che un brano musicale, è un vero e proprio atto di magia guaritrice: un abbraccio, una carezza lenitrice, un dono da parte dell’Amore e della Bellezza stessi ad una umanità ormai fin troppo provata e costretta da correnti disumane a rinunciare a sé stessa.
Un invito a recuperarsi, a riabbracciare la propria anima e il proprio Io più vero e profondo, a smetterla di cedere alle costrizioni di chi non potrà mai capire, a riprendere la consapevolezza della propria splendida essenza ed unicità e farne la propria forza vitale come doveva essere fin dall’inizio, prima di incontrare i traumi che ci hanno allontanati da essa.

Non è assolutamente un caso che Mariana De Moraes si occupi di Meditazione Trascendentale come non è un caso che la sua sensibilità emerga in questa esecuzione, che è direttamente la prima ripresa, la versione demo del pezzo poiché i seguenti tentativi in studio non riuscirono ad eguagliarla: la spontaneità è quando l’Anima si esprime.
Non resta quindi che immergersi in queste acque, in queste note liquide e amniotiche e lasciarsi trasportare da questa “Como Vou Fazer” di Dois Irmãos e Mariana De Moraes.

Ascolta il Brano “Como Vou Fazer”

Como Vou Fazer (Antoine Olivier e Glaucus Lynx)

Como eu vou fazer…
Meu amor pra sobreviver?
Deixa eu partir não quero mais…,
Pra não mais sofrer.
O amor é poesia de amar…,
Sem os teus carinhos
Não sei mais o que fazer.
Os teus olhos silenciam
O que restava do meu ser…,
Tinha uma vontade
Que esse amor me fez perder.
Eu não sei mais o que faço,
Já não falo mais.
Ando pela praia esperando te encontrar;
Quando vejo alguém ao longe,
Ai meu deus porquê?
Voltam as lembranças de tudo o que sofri por você.
Como eu vou fazer…
Meu amor pra sobreviver?
Deixa eu partir não quero mais…,
Pra não mais sofrer…
Eu não sei mais o que faço,
Já não falo mais.
Ando pela praia esperando te encontrar;
Quando vejo alguém ao longe,
Ai meu deus porquê?
Voltam as lembranças de tudo o que sofri por você.
Como eu vou fazer
Meu amor para sobreviver?
Deixa eu partir não quero mais não quero,
Para não mais sofrer.

Come farò…
mio amore, per sopravvivere?
Lasciami andare, non voglio più…,
Per non soffrire più.
L’amore è poesia d’amore…,
senza il tuo affetto
Non so cos’altro fare.
i tuoi occhi tacciono
Ciò che restava del mio essere…,
aveva una volontà
Che questo amore mi ha fatto perdere.
Non so cos’altro fare,
non parlo più.
Cammino lungo la spiaggia sperando di trovarti;
Quando vedo qualcuno in lontananza,
Oh mio Dio perché?
I ricordi di tutto ciò che ho sofferto per te tornano.
Come farò…
mio amore, per sopravvivere?
Lasciami andare, non voglio più…,
Per non soffrire più…
Non so cos’altro fare,
non parlo più.
Cammino lungo la spiaggia sperando di trovarti;
Quando vedo qualcuno in lontananza,
Oh mio Dio perché?
I ricordi di tutto ciò che ho sofferto per te tornano.
come farò…
mio amore, per sopravvivere?
Lasciami andare, non voglio più, non voglio,
Per non soffrire più.

ASCOLTA L’ALBUM “BRAZILIAN LOUNGE”

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Mike Bloomfield – Dalla testa, dal cuore e dalle mani

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Muddy Waters lo chiamava “my son”. Eric Clapton lo definì “music on two legs”.
Una personalità originale, un chitarrista che fece cose che nessuno aveva mai sentito prima, che influenzarono ed influenzano tuttora chiunque suoni rock.

Daniele Pieraccini

«The whole idea is that if you turn your amp up to 10, you should still be able to play at a whisper – you’ve got to learn to control your hands»

Mike Bloomfield

Muddy Waters lo chiamava “my son”. Eric Clapton lo definì “music on two legs”.

Mike Bloomfield trasformò per sempre la scena blues di Chicago. Con i suoi soli lunghi e ispirati, che attingevano anche ai Raga indiani, rappresentò un’influenza enorme su tutti i chitarristi venuti dopo.

Una personalità originale, un chitarrista che fece cose che nessuno aveva mai sentito prima, che influenzarono ed influenzano tuttora chiunque suoni rock.

Al festival di Newport

Michael Bernard Bloomfield nasce a Chicago il 28 luglio del 1943 sotto il segno del Leone.
Figlio di una famiglia ebrea benestante, ben presto realizza di non appartenere a quel lato della città. Il ragazzo non ha nessuna intenzione di ereditare l’attività familiare: passa il suo tempo nella zona sud, nei locali in cui suonano i suoi idoli. Chicago è il paradiso del blues elettrico: i nomi di riferimento che circolano sono quelli di Sonny Boy Williamson, Little Walter, Otis Spann per non parlare dei due giganti, Muddy Waters e Howlin’ Wolf.

Non ci vuole molto perché Mike salga sul palco insieme a loro: a 17 anni ha già suonato in jam improvvisate con i più grandi. Un privilegio riservato a ben pochi bianchi.

Ma all’inizio degli anni sessanta il blues ha un calo di popolarità: quello che va di moda è il folk revival. Bloomfield imbraccia la chitarra acustica, mai dimenticando le sue radici, infatti continua a suonare con veterani come Sleepy John Estes o Big Joe Williams.
Apre anche un locale, il “Fickle Pickle”, dove si suonano folk e blues acustico.

Con Howlin Wolf

Con Sunnyland Slim al Fricke Pickle

Ben presto però decide di spostarsi a New York, in cerca di un contratto discografico.
Con la sua Telecaster a tracolla è ormai un chitarrista maturo e Paul Rothchild, presidente dell’Elektra, vuole inserirlo nella Paul Butterfield Blues Band.
L’operazione non è così semplice: Bloomfield è a conoscenza della ruvidezza con cui l’armonicista interpreta il ruolo di band-leader. Butterfield è noto per il suo stile innovativo ed incisivo, ma anche per il suo ego sproporzionato e non vuole cedere spazio ad altri protagonisti.

Un compromesso viene però in qualche modo raggiunto, dando vita ad una delle prime band di blues rock della storia: Born In Chicago (1965) è l’esordio di uno dei primi gruppi misti del paese, con una sezione ritmica formata da Sam Lay e Jerome Arnold, ex membri della band di Howlin’ Wolf, Elvin Bishop alla chitarra, Mark Naftalin alle tastiere e Butterfield alla voce e armonica.
Oltre, ovviamente, al nostro Mike, che si scatena in un assolo memorabile su Blues With A Feeling.

La freschezza e la potenza di quel disco sorprendono anche oggi; il lavoro di chitarra di Bloomfield
lo classifica come influenza determinante nel revival del classic-blues di Chicago che prende il via proprio in quel periodo.

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Blues with a Feeling – Paul Butterfield Blues Band

Dylan lo vuole in pianta stabile nel suo gruppo, ma dopo il celebre live di Newport Mike saluta la compagnia per dedicarsi al suo personale progetto. In realtà la collaborazione non poteva durare a lungo: il volume del suo amplificatore è insostenibile per il pubblico di Dylan, anche i meno intransigenti sono comunque “educati” ad un ascolto folk.
Il motivo principale dietro all’abbandono di Bloomfield consiste però nei limiti imposti dal band-leader, che limitano i riferimenti all’amato blues ed impediscono al nostro di brillare come con Butterfield.

Poco male, anzi benissimo, visto che nel luglio del 1966 Bloomfield con la solita Butterfield Blues band pubblica East-West, che sconvolge un mondo di musicisti in un periodo certo non avaro di opere innovative e memorabili.

Oltre al blues si trovano infatti, fuse insieme mirabilmente, influenze soul e rock, free jazz e indiane.
La title track è uno dei brani più influenti della storia del rock: la partenza ed il primo sviluppo si aggirano ancora in territorio blues, ma dopo qualche minuto il territorio da esplorare si estende fino al jazz (la musica modale di John Coltrane) e alla musica indiana (i Raga di Ravi Shankar), per approdare ad un dialogo tra chitarre (la sua e quella di Elvin Bishop) che prefigura quello che sarà il segno distintivo degli Allman Brothers.

Bloomfield, con una Les Paul Goldtop del 1956 in un amplificatore Gibson Falcon, si cimenta in tredici minuti epocali di musica, che battezzano in anticipo le chilometriche jam di fine ’60 e l’acid rock di San Francisco, aggiungendo alla lista degli “ispirati” da Bloomfield anche Jefferson Airplane e Grateful Dead.

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East/West – Paul Butterfield Blues Band

I Got A Mind to Give Up Living – Paul Butterfield Blues Band

La collaborazione con Bishop giunge ben presto al termine, quest’ultimo infatti reclama uno spazio maggiore dopo una crescita musicale che senz’altro deve a Bloomfield e se ne va in cerca di nuovi stimoli.

Mike, ad inizio 1967, fonda una nuova band, Electric Flag. Si tratta di una delle prime horn bands della musica rock e comprende l’organista Barry Goldberg, il batterista Buddy Miles e il cantante Nick Gravenites oltre ovviamente una sezione fiati.
Subito Peter Fonda gli chiede di incidere la colonna sonora di The Trip; Bloomfield ed i suoi eseguono, mescolando sorprendentemente elettronica, rumore, psichedelia, country, ragtime e blues.

Nel giugno dello stesso anno la band si esibisce al festival di Monterey, in cui Bloomfield si presenta con quella che sarà la chitarra più iconica della sua carriera: una Gibson Les Paul Standard Sunburst del 1959.
L’esibizione degli Electric Flag lascia decisamente il segno, innalzando le aspettative da parte di stampa e pubblico.

Electric Flag a Monterey

Il momento d’oro non è sfruttato dalla band, che ultima il disco successivo in ritardo, forse per problemi di droga e sicuramente a causa di cambi di formazione che richiedono molto tempo passato in studio a provare.
Eppure, quando finalmente esce nel 1968, A long Time Comin’ non delude le aspettative.

In gran parte devoto a blues, soul e jazz, il disco presenta addirittura suoni e voci “campionati” e missati con la musica eseguita dal gruppo. Sicuramente Miles Davis trarrà ispirazione da questo lavoro. Bloomfield esegue una versione della Killing Floor di Howlin Wolf come fosse un infervorato comizio psichedelico e regala altri momenti entusiasmanti come Wine e Texas.

Il disco però si rivela un insuccesso commerciale e nel frattempo Buddy Miles sta prendendo sempre più le redini del gruppo; Bloomfield, afflitto da problemi di insonnia che cerca invano di “curare” con l’uso di eroina, lascia così il gruppo.

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Killing Floor – Electric Flag

Texas – Electric Flag

Al Kooper, che ha invece mollato i Blood, Sweat & Tears, lo ammira al punto da considerarlo il miglior chitarrista mai visto e riesce nell’intento di smuoverlo coinvolgendolo nella registrazione di una jam session in stile jazz ma con forte connotazione rock.

Dopo aver lasciato la chitarra (ritenendo più che sufficienti le sei corde di Bloomfield…) per passare definitivamente all’organo, Kooper registra sei ore di jam nel maggio 1968, ricavandone cinque brani magistrali. Bloomfield, usando soltanto la sua Les Paul attaccata ad un Twin Reverb e le sue dita, sfodera forse il suo capolavoro: His Holy Modal Majesty, di nuovo ispirata da jazz e Raga.

Albert’s Shuffle, uno degli strumentali di blues chitarristico più belli di sempre, con la sua ferocia controllata, è esemplare della personalità musicale di Mike: energia, feeling, precisione ritmica, tocco, intonazione, gusto…i suoi fraseggi e il tono della sua Gibson rendono letteralmente vocale quello che esce dall’amplificatore.

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His Holy Modal Majesty – Al Kooper, Mike Bloomfield

Albert’s Shuffle – Al Kooper, Mike Bloomfield

Kooper però, al risveglio del giorno successivo alle registrazioni, non trova più Bloomfield. Il chitarrista se ne è andato, tormentato dall’insonnia. Il disco viene quindi trasformato in una jam da super gruppo, formato che andrà di moda negli anni immediatamente successivi.
Super Session vede quindi la luce con il contributo di Bloomfield limitato alla prima facciata, sostituito da Stephen Stills nella seconda.
Il disco, in termini commerciali, risulterà il più grande successo di Bloomfield, che tuttavia non se ne curerà mai più di tanto.

Il nostro ricompare per una serie di live con Kooper, dai risultati non meno che spettacolari.
Ben presto però scompare nuovamente, sostitutito da Steve Miller prima e da un giovane messicano sconosciuto di nome Carlos Santana, convinto di suonare con il suo idolo Bloomfield e conseguentemente deluso dall’assenza di quest’ultimo, al punto di dichiarare, tempo dopo, che avrebbe volentieri scambiato quella favolosa opportunità con la possibilità di suonare con Mike.

Nonostante uno stato psicofisico non ottimale, Bloomfield si ripresenta a dicembre 1968 per suonare in un live che lancerà la carriera di Johnny Winter.

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I Wonder Who – Al Kooper, Mike Bloomfield

Il 1969 lo vede suonare in dischi importanti (Janis Joplin, Muddy Waters, Mother Earth) e debuttare a suo nome con It’s Not Killing Me.
Lo vede anche esibirsi con Nick “The Greek” Gravenites in un micidiale concerto che sarà immortalato in due dischi, Live at Bill Graham’s Fillmore West e My labors.

Il suo stile è giunto all’apice, purtroppo può dirsi lo stesso del demone che lo tormenta da anni.

Insonnia e droga lo stanno uccidendo: nel 1970, a 27 anni non muore come Hendrix o Joplin, ma abbandona la sua poesia, la chitarra. L’eroina lo sta svuotando completamente di ogni stimolo e forza.

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Moon Tune – Nick Gravenites ft. Mike Bloomfield

Gli anni ’70 sono una discesa verso il buio. L’uomo che a 17 anni divideva il palco con Muddy Waters, che ha cambiato il mondo della musica rock e lo stile con cui approcciare la chitarra, pioniere delle jam rock e di altri formati divenuti classici, si ritrova a musicare film porno, schiavo di alcol ed eroina.

Dopo averci lasciato qualche altra gemma, nascosta qua e là in una produzione che risente inevitabilmente del suo declino umano, Michael Bernard Bloomfield abbandona questo mondo nel 1981 in seguito ad una overdose. Un decesso avvenuto in circostanze non chiare: molti parlavano di una festa privata e del successivo trasporto del suo corpo in auto, per essere scaricato altrove.

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The Gospel Truth – Mike Bloomfield

Mike Bloomfield, nell’immaginario comune, non è considerato un “guitar hero”, un personaggio “maledetto” da poster per le camerette degli adolescenti.
Non è un nome subito collegabile ad un immaginario condiviso da molti ed in grado di suscitare entusiasmo ed approvazione a comando.

Ma l’eredità che ci ha lasciato e gli obiettivi artistici raggiunti hanno pochi eguali.
In molti hanno in casa dischi in cui ha suonato e magari neppure lo sanno.

L’invito è quello di scoprirlo o rivalutarlo, gli ascolti di molti suoi lavori riservano sicure ricompense e possono offrire una prospettiva poco sfruttata ma imprescindibile con la quale inquadrare la storia del blues e del rock.

CLICCA E GUARDA Il FILM SULLA STORIA DI MIKE BLOOMFIELD!

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La Sorprendente Melita!

By Chitarre Vintage USA, Personaggi StoriciNo Comments

Quando questa chitarra pazzesca, ovviamente artigianale, ci venne incontro, capii subito che dovevamo averla. Costruita a metà degli anni '50, è stata attribuita all'opera o fabbricata per conto di Sebastiano “Johnny” Melita, che fu ovviamente il progettista del ponte Melita. Anche se non abbiamo provi documentali di questo, la cosa ha assolutamente senso quando si studia lo strumento.

Izzy Miller

Oggi è nostra gradita ospite una chitarra unica, assolutamente inedita: una splendida solid body Melita di proprietà del nostro amico Izzy Miller, gran cacciatore e collezionista di strumenti di pregio.
Ce ne parlerà lui stesso:

«Quando questa chitarra pazzesca, ovviamente artigianale, ci venne incontro, capii subito che dovevamo averla. Costruita a metà degli anni ’50, è stata attribuita all’opera o fabbricata per conto di Sebastiano “Johnny” Melita, che fu ovviamente il progettista del ponte Melita. Anche se non abbiamo provi documentali di questo, la cosa ha assolutamente senso quando si studia lo strumento.

Iniziamo con il fatto che il ponte Melita originale trovato su questo strumento include l’assurdamente rara sordina per corde originale, che abbiamo visto solo su pochi altri ponti Melita nel corso degli anni.

Siamo sicuri che Melita fosse in accordi commerciali con Gretsch in quel periodo, il che spiega le prime manopole Gretsch in metallo prive del marchio G o della freccia sulla parte superiore, il pickup DeArmond Dynasonic (originariamente ne montava una coppia, come evidenziato sotto il pickup Hofner non originale e non funzionante) e le chiavette Grover (che sono state trovate su un certo numero di strumenti Gretsch).

L’associazione con Gretsch ha senso anche riguardo la costruzione del manico in due pezzi e della forma del tallone del manico e della sua copertura. La connessione con Filadelfia è ulteriormente corroborata dalla pagina di quotidiano di Filadelfia della metà degli anni ’70 che abbiamo trovato in una delle cavità posteriori.

La cordiera è artigianale ed è di per sé un pezzo piuttosto impressionante. Il capotasto in alluminio originale sembra essere un primo tentativo fatto in casa di un capo regolabile. Insieme alla cordiera, sono molto, molto belli.

Sembra che il signor Melita l’abbia costruito e poi lo abbia utilizzato per testare le idee nel corso degli anni. Anche il foro nel battipenna entra nel corpo, ma sembra che nulla vi sia mai stato montato e cablato.

La piastra di plastica nera sul retro e la fresatura sottostante sembrano essere un tentativo successivo di alleggerimento del peso, poiché la chitarra essendo in acero massiccio è un po’ pesante. Il manico è grosso e scendendo verso il corpo acquisisce una leggera forma a V. Oltre ad essere comodissimo, ha delle bellissime fiammature.

Lo strumento è privo di truss rod regolabile e il manico presenta un leggero rilievo. Assieme ai tasti in ottone originali che mostrano una discreta quantità di usura, l’azione è bassa dove dovrebbe esserlo ma sono presenti molti punti che friggono su e giù per la tastiera.

È ovvio che questo strumento si stato suonato davvero molto e siamo sicuri che qualcuno là fuori abbia sicuramente altre tessere del puzzle da aggiungere a questa storia misteriosa…»

Ringraziamo Izzy per la storia e le immagini di questo strumento unico ed affascinante.

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