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Vedute dalla Montagna del Fuoco – Intervista a Makoto Matsushita (2019)

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Makoto Matsushita è un peculiare musicista giapponese che, pur essendo oggi molto conosciuto e apprezzato dagli appassionati internazionali di city pop per i suoi notevoli album solisti ed aver lavorato a lungo come turnista per personaggi del calibro di Mai Yamane (sue le chitarre e la produzione del bell'album di debutto Tasogare) è stato per lungo tempo misconosciuto in patria.
Eppure si tratta di un musicista davvero notevole e prolifico, da sempre impegnato in parecchi progetti musicali di ogni genere, oltre che grande sperimentatore e uno dei principali responsabili del rinnovamento sonoro della musica giapponese degli anni 80.
Per omaggiarlo vogliamo proporvi la traduzione di una rara intervista che ha rilasciato nel 2019.

Lorenzo

I primi due album solisti di Makoto Matsushita, pur essendo piuttosto diversi dai capisaldi del genere, sono oggi considerati degli standard del city pop, soprattutto il debutto First Light, praticamente una pietra miliare del “genere”.

Per la traduzione dell’intervista mi baserò sulla traduzione inglese di Henkka.

 

Intervista a Makoto Matsushita

(Testo e intervista originali di Yusuke Kawamura & Rita Takaki)

 

Iniziamo con qualche cenno biografico.

Dopo essere entrato al conservatorio a 18 anni per specializzarsi in teoria, composizione e arrangiamento scegliando la chitarra come strumento, Matsushita inizia la sua carriera professionale come musicista live già l’anno seguente, collezionando oltre 500 esibizioni in 4 anni.

A 22 anni compie il suo primo lavoro in studio come arrangiatore, chitarrista e tecnico della produzione sonora di Tasogare, album di debutto della celebre cantante Mai Yamane (nota anche per The Real Folk Blues, brano di chiusura degli episodi della celebre serie tv anime Cowboy Bebop), dopodiché  continuò a lavorare per innumerevoli artisti come arrangiatore, produttore e chitarrista nel cuore della scena musicale pop giapponese.

Come solista pubblicò 3 dischi in sequenza dal 1981 al 1983: First Light, vero e proprio city pop ma con anche brani di atmosfera, The Pressures and The Pleasures (che mischia il pop all’ AOR, alla fusion e al prog) e lo splendido Quiet Skies, album molto maturo e di ancor più ampio respiro, che prende le distanze dal pop per abbracciare fusion, prog rock, AOR, new wave, world music, ambient.
Il suo quarto e ultimo album solista è Visions, del 2019, di genere ambient.

Oltre al lavoro da solista e come session man, collabora in altri progetti musicali di vari generi: pop rock con Yoshino Fujimaru negli AB’S, rock progressivo coi Paradigm Shift e Future Days, fusion jazz contemporanea coi Groove Weather, musica per cori a cappella coi Breath by Breath, funk rock coi Rainey’s Band, nonché musica ambient e improvvisazione totale in Nebula. e ricerca e sperimentazione di nuove sonorità con vari altri progetti.

Come chitarrista e arrangiatore conto terzi, Makoto Matsushita è noto soprattutto per i suoi arrangiamenti dei cori per artisti come SMAP e KinKi Kids, il suo lavoro di supporto per un gran numero di artisti e per le musiche per anime come Berserk, Evangelion e Bleach.

 

Ora (nel 2019), i suoi primi due album solisti vengono ricompilati con tracce bonus e ristampati con rimasterizzazione ad alta risoluzione di ultima generazione: First Light, disco seminale per il city pop con le sue stupende composizioni, notevole per i suoi meticolosi arrangiamenti e performance musicali, e The Pressures And The Pleasures, che riflette più da vicino i gusti personali del suo creatore con la sua forte influenza prog rock e fusion.

Oggi, grazie al crescente apprezzamento per la musica giapponese degli anni ’80, queste pubblicazioni si distinguono come capolavori acclamati sia dentro che fuori del Giappone. Entrambi questi fantastici album sono ormai dei classici fuori dal tempo.

Per commemorare la ristampa di questi album, abbiamo voluto realizzare un’intervista via e-mail con l’artista stesso. In questa rara intervista, gli abbiamo chiesto degli inizi della sua carriera, del periodo delle sue prime due uscite da solista e cosa ha fatto da allora.

makoto matsushita

— Prima di tutto, da quanto emerge dalla tua biografia hai debuttato inizialmente come musicista di supporto dal vivo e in studio all’età di 19 anni. Come si sono svolti i tuoi inizi da giovane artista discografico? C’è stata forse una “persona chiave” che ti ha ispirato o guidato nella tua carriera?

Makoto Matsushita: Per quanto riguarda l’ispirazione musicale, i primi sono stati Rolling Stones, Cream e Led Zeppelin, in seguito al liceo mi sono appassionato al prog rock di Yes, King Crimson e Pink Floyd. Di conseguenza volevo diventare anch’io un musicista, ma non avendo un background o una conoscenza della teoria musicale ho semplicemente rinunciato all’idea.

Poi un giorno mi capitò di imbattermi nell’esatto opposto del prog rock: la musica di Neil Young. Mi emozionai molto e pensai che forse anch’io avrei potuto fare il musicista dopotutto. Anche una volta entrato alla scuola di musica e iniziato a lavorare dal vivo e in studio, non ho mai rinunciato al voler fare la mia musica.

Per quanto riguarda le persone che dedicavano tempo ad ascoltare le mie canzoni, ispirandomi a diventare un artista e arricchendomi come musicista, ce ne sono troppe per poterle nominare tutte.

— Chi erano i tuoi eroi della chitarra, quelli che ti ispirarono a diventare un musicista?

Makoto Matsushita: Inizialmente non miravo a diventare un chitarrista, ero semplicemente interessato a creare musica nel suo insieme, quindi non avevo dei eroi chitarristi in particolare. Se dovessi nominare qualcuno suppongo sarebbero i chitarristi delle band che ho citato. I grandi chitarristi dovrebbero essere bravi anche a scrivere musica.

— L’aver prodotto Tasogare di Mai Yamane e l’album di Toshihiko Tahara a 22 anni ha segnato per te un punto di svolta, rendendoti successivamente molto impegnato come produttore e musicista. Hai qualche aneddotto che illustri quanto eri attivo in quei giorni?

Makoto Matsushita: Ai tempi ero follemente impegnato. Era tipico per me stare sveglio a lavorare tutta la notte due o tre giorni alla settimana, e qualunque giorno libero riuscissi a prendere, lo passavo solo a dormire per dare un po’ di riposo al mio corpo. Dicevo alla gente, quasi scherzando, che il mio unico sogno nella vita era andare a fare un giro per Shonan in estate. Non avevo assolutamente tempo per me stesso.

A proposito, scrissi la canzone “One Hot Love” nel mio primo album, First Light, proprio su quel sogno. (ride) Alla fine riuscii a fare quel viaggio solo verso i trentacinque anni ma scoprii che il mare a Shonan non era come me lo ero immaginato. Ho cercato altri posti simili dove si potesse controllare la qualità del mare, prima di trovare finalmente questo posto a Nishi-Izu. Da allora ho deciso di concedermi sempre una vacanza estiva e di andarci una volta all’anno.

— Quando i TV Asahi Studios installarono per la prima volta un sistema di registrazione a 16 tracce, vollero iniziare con una registrazione di prova. E’ stato questo che ha portato all’uscita del tuo album solista, First Light. Come è nata questa registrazione di prova ai TV Asahi Studios?

Makoto Matsushita: Hai davvero fatto i compiti! (ride) Avrò avuto 21 anni o giù di lì. Dopo essere stato presentato loro da un mio musicista anziano, i TV Asahi Studios mi contattarono con un’offerta per fare una registrazione di prova per loro usando una delle mie canzoni originali.

I registratori a 8 tracce erano stati la norma fino a quel momento e la mancanza di canali rendeva le cose molto difficili: le 8 tracce non erano nemmeno sufficienti per la sola sezione ritmica. Creare il tipo di suono che volevo era sempre una lotta, quindi ero molto entusiasta della prospettiva di avere accesso a 16 canali, sapendo che avrebbe risolto istantaneamente tutti i nostri problemi. Sembrava l’arrivo di una nuova era.

Dopodiché, non passò molto tempo prima che avessimo 24 canali, passammo dall’analogico al digitale, avevamo 32 canali, 48 canali e poi entrammo nell’era di Pro Tools. Ma se dovessi chiedermi se tutta questa evoluzione nelle tecniche di registrazione abbia portato anche all’evoluzione della musica nel suo insieme…? Non direi proprio di sì, no. Ho sensazioni contrastanti in merito.

— In che modo queste registrazioni portarono alla tua uscita da solista?

Makoto Matsushita: Ad un produttore di Nichion capitò di ascoltare “September Rain“, la canzone che registrai per la sessione di prova, e mi chiesero di fare un album solista. Quella canzone venne poi inclusa nell’album First Light.

— Avevi qualche idea in mente per First Light, specialmente in termini di suono?

Makoto Matsushita: Dato che era il mio primo album, cercai di mantenerlo semplice e “pop”. Feci semplicemente del mio meglio per mostrare tutte le influenze AOR che avevo assorbito fino a quel momento: non c’era nessun concetto speciale oltre a quello. Ci scusiamo per la  breve risposta. (ride)

— Ci sono opere di artisti stranieri che ti hanno influenzato e su cui hai modellato questo album?

Makoto Matsushita: Quella era l’età d’oro dell’ AOR, ed ero ancora giovane, molto impegnato a farmi influenzare da tutti i tipi di artisti diversi. Per quanto riguarda i lavori specifici che ho usato come modello, ce ne sono troppi da elencare. Se proprio dovessi, potrei citare i lavori di artisti come Airplay, Steely Dan, Pages, Jay Graydon, ecc.

Ad esempio, la canzone “Lazy Night” che è su First Light. Composi quella canzone basandomi sull’immagine di copertina dell’album Gaucho degli Steely Dan, e suona anche simile a una traccia dell’album chiamata “Glamour Profession”. Anche rispetto al resto dei loro lavori credo che quella canzone sia uno dei loro capolavori assoluti.

This is all I have for You è uno dei classici dello splendido album di debutto di Makoto Matsushita First Light.
Video da noi realizzato per il nostro canale YouTube City Pop Gems
Nel secondo link, l’album al completo.

— Il tuo primo album è stato pubblicato nel 1981 tramite la RCA/Air, mentre The Pressures And The Pleasures (1982) è stato il primo album ad essere pubblicato dalla Moon Records. In seguito avrebbero pubblicato un gran numero di dischi di artisti come Tatsuro Yamashita e altri, lavori che oggi vengono definiti “city pop“. Come siete arrivati ​​a pubblicare i vostri album attraverso la Moon Records?

Makoto Matsushita: La persona che ha fondato la Moon Records era in realtà il presidente della RCA/Air ai tempi dell’uscita di First Light, quindi mi sono trasferito lì con lui quando è diventato indipendente… Tutto qui.

— Quale fu la risposta al tuo album di debutto alla sua uscita?

Makoto Matsushita: Non ricordo che abbia venduto molto. (ride) Immagino che abbia creato un po’ di scalpore. Però mi ricordo questo… C’erano dei negozi di noleggio di dischi che erano popolari tra i giovani a quei tempi, e ricordo di aver saputo che in un paio di quei negozi—a Roppongi e in un altro da qualche parte a Osaka—fosse il loro album più noleggiato. Per me questo significava molto di più delle vendite.

— Attualmente sei impegnato a realizzare vari tipi di arrangiamenti per cori. Come pensavi a quell’aspetto della musica mentre lavoravi al tuo materiale solista? C’era qualcosa di ciò che stavi facendo nel tuo primo materiale solista che rimane immutato fino ad oggi nel modo in cui ti avvicini all’arrangiamento dei cori, cioè qualche aspetto fondamentale che non è mai cambiato? E in caso, quale?

Makoto Matsushita: Ero un membro del coro del nostro liceo. Cantare in coro è… È difficile da spiegare a qualcuno che non l’ha sperimentato, ma è un tipo di piacere completamente diverso da quello che si prova, ad esempio, suonando uno strumento o cantando come solista.

Quando la tua voce risuona con le voci degli altri e quelle vibrazioni riempiono l’aria, non riesco nemmeno a esprimere a parole quanto sia emotivamente commovente. Anche solo un semplice accordo Do-Mi-Sol, quando riesci ad armonizzarlo perfettamente non c’è un’altra sensazione simile. Quindi ho sempre avuto il desiderio di cantare in coro. Successivamente ho realizzato anche due album con un gruppo a cappella chiamato Breath By Breath.

— Oggi, il suono AOR del tuo primo album è apprezzato da molte generazioni più giovani e considerato come genere “city pop”. Quali sono i tuoi sentimenti a riguardo?

Makoto Matsushita: Guardando indietro, un aspetto importante di AOR è stato lo sviluppo musicale della sezione ritmica. La musica degli anni ’80 aveva complicate progressioni di accordi e combinazioni ritmiche e credo ci sia stata una “reazione” contro tutto ciò negli anni ’90. Hanno raschiato via tutta la carne in eccesso mentre anche i testi hanno iniziato a prendere una direzione più realistica. Anche la tecnologia informatica deve aver influenzato notevolmente la musica…

Ma a partire dal 2010 circa, non sembra che ci sia stata un’altra reazione negativa a tutto ciò? Naturalmente, quando oggi ascolti il ​​materiale degli anni ’80, la maggior parte di esso sembra piuttosto datato. Ma mettendo da parte la “freschezza” del suono in sé e parlando puramente da un punto di vista musicale, negli anni ’80 si era stabilito qualcosa di veramente musicalmente significativo. Deve essere qualcosa che ora sta raggiungendo le orecchie di quelle generazioni più giovani senza che nemmeno se ne rendano conto.

Inoltre, la musica creata sui computer non suona più “nuova”. E le persone sono sempre pronte ad annoiarsi delle cose. (ride) Musica creata interamente da mani umane: c’è semplicemente qualcosa di diverso in quel suono. Sento che queste tendenze principali si ripetono sempre, una volta ogni 20 anni circa.

— Ascolti mai la musica composta da quelle generazioni più giovani?

Makoto Matsushita: Sono sempre curioso della nuova musica. Ma anche se spuntano costantemente nuovi artisti straordinari, non posso dire di aver sentito qualcuno che sia stato influenzato da me… (ride)

— Il tuo secondo album, The Pressures And The Pleasures, ha un’atmosfera di rock elettronico/progressivo. Qual era il tuo obiettivo nel creare il sound per questo secondo album?

Makoto Matsushita: Essere riuscito a far emergere il mio lato pop nel primo album, mi ha dato il desiderio di spingermi verso qualcosa di più musicalmente ambizioso. Stavo iniziando la mia ricerca per diventare più originale in termini di musica, e ho sempre amato la musica complessa oltre al pop—King Crimson, Yes, Pink Floyd, Weather Report, Miles Davis, ecc.—quindi volevo fare qualcosa di più avventuroso.

Questa ricerca è ciò che ha portato alla creazione di due canzoni: “The Pressures And The Pleasures” e “The Garden Of Walls”. Era un suono completamente diverso rispetto all’approccio pop del mio primo album, quindi i ragazzi dell’etichetta discografica devono essere rimasti piuttosto sorpresi. (ride)

Inoltre, poco prima di iniziare a lavorare su questo album, ebbi l’opportunità di assistere al concerto che segnò ritorno di Miles Davis in Giappone. Fu una grande ispirazione per me. Mi commosse profondamente vederlo andare oltre i confini del jazz e costruire la sua musica in un modo del tutto originale, il tutto sopportando la sua malattia. “The Garden Of Walls” è il mio tributo a Miles.

— The Pressures And The Pleasures conteneva qualche altro concetto?

Makoto Matsushita: Essendo coinvolto nella produzione del suono negli anni ’80, c’era una cosa che mi dava fastidio: il fatto che fossero praticamente tutte canzoni d’amore. Per dirla senza mezzi termini, ne ero disgustato. “Non c’è nient’altro che vuoi esprimere come essere umano oltre al tema dell’amore ?!”

Sono cresciuto con la musica influenzata dal movimento Flower Power. Le canzoni con temi contro la guerra e la libertà avevano il sostegno di tutti i giovani: c’era un senso incoraggiante di una nuova era che si inaugurava. Ma la verità è che quando siamo entrati negli anni ’80, le canzoni con quel tipo di temi svanirono in sottofondo… Questo è ciò che mi ha fatto decidere di scrivere canzoni su altre cose oltre all’amore.

Io stesso stavo crescendo spiritualmente in quel momento, e così fui risvegliato all’intera idea del dualismo: “si può crescere solo quando si vedono entrambi gli estremi delle cose”. E “The Pressures And The Pleasures” era una canzone nata da tutto questo. Incaricai Chris Mosdell di scrivere i testi, e ricordo che mentre gli stavo spiegando tutto queste mie necessità nel mio inglese scadente, a metà della mia spiegazione stava già dicendo: “Oh, capisco!” Capì immediatamente.

È un peccato come ora sembriamo involvere, allontanandoci dall’intera mentalità di “libertà e amore per il prossimo” che avevamo allora… Questa conversazione ha preso una piega un po’ difficile, eh? (ride)

Carnaval: The Dawn è la notevole hit tratta dall’album di Makoto Matsushita The Pressures And The Pleasures.
Video da noi realizzato per il nostro canale YouTube City Pop Gems
Nel secondo link, l’album al completo.

— All’epoca suonavi dal vivo qualcosa di questo materiale solista?

Makoto Matsushita: Suonavamo “The Pressures And The Pleasures” e “The Garden Of Walls” con la mia band, i Paradigm Shift. “The Pressures And The Pleasures” va avanti per oltre 11 minuti anche sull’album, ma quando la facevamo con la band divenne un’epopea di oltre 40 minuti.

— Finora hai pubblicato quattro album da solista e, considerando la lunga durata della tua carriera, non è molto. C’è qualche motivo per cui ritieni che collaborare con band e progetti ti si addica meglio del lavoro da solista?

Makoto Matsushita: Non particolarmente. Ho semplicemente iniziato a concentrarmi maggiormente su Paradigm Shift.

— Sembra che ci sia una separazione tra il tuo lavoro da solista e i tuoi vari progetti di arrangiamento/produzione. A quei tempi, il tuo entusiasmo era più forte quando si trattava del tuo materiale solista e dei lavori in cui eri un artista principale?

Makoto Matsushita: Una domanda un po’ azzardata, eh! (ride) Beh, dal momento in cui è stato deciso che avrei pubblicato la mia musica, pubblicarla con il mio nome è stata una decisione che escludeva completamente qualsiasi prospettiva commerciale: volevo semplicemente creare qualcosa che nascesse esclusivamente dai miei gusti musicali.

Il mio desiderio di fare musica pop era già completamente soddisfatto attraverso il mio lavoro, e ho avuto modo di mostrare quel lato anche nel mio primo album. Quindi col passare del tempo ho iniziato a sperimentare di più per ampliare la mia gamma musicale, e di conseguenza il mio lavoro da solista da allora è sempre stato completamente al di fuori dell’ambito pop. Non c’è da meravigliarsi che niente di ciò che ho fatto da solista abbia venduto bene. (ride) E questo non mi ha mai infastidito.

La verità è che ho visto molti artisti che avevano un grande talento musicale, eppure non hanno mai avuto successo in questo campo. Essendo io stesso coinvolto nell’industria musicale, a un certo punto mi sono reso conto che “buona musica” e “business” non vanno necessariamente sempre di pari passo.

— Dopo The Pressures And The Pleasures, sia che fosse il tuo progetto ambient indipendente CONFESSION o i Paradigm Shift, la tua sessione ambient System III del 2000 o quella con Koki Ito in NEBULA, la parola chiave che descrive il tuo materiale solista da allora è “ambient”. In quei primi anni ’80, il jazz di etichette come la ECM, i lavori ambient di Brian Eno, i lavori elettronici influenzati dal prog rock di band tedesche come Cluster o Manuel Göttsching/Ash Ra Tempel, gente del genere pubblicava materiale che sembrava molto simile a quello che stavi facendo tu stesso in quel momento. Sei stato influenzato da quel tipo di suono? Cosa ne pensi?

Makoto Matsushita: The Plateaux Of Mirror di Harold Budd e Brian Eno è stato un album rivoluzionario per me. Ricordo ancora vividamente il giorno in cui comprai quell’album. Lo stavo ascoltando la sera, col sole al tramonto che splendeva nella stanza mentre sedevo lì pensando alla vita di mio padre che se n’era andato da poco.

Ero in una sorta di stato meditativo, quando improvvisamente realizzai! Quello era un tipo di musica che non richiedeva l’attenzione dell’ascoltatore. Normalmente, la musica è qualcosa che si valuta ascoltando attentamente il suo contenuto. Ma con quel suono gli aspetti della musica che avrebbero richiesto la propria attenzione erano stati deliberatamente esclusi: l’intenzione era solo quella di creare un’atmosfera che avvolgesse l’ascoltatore. Detto questo, anche se presti attenzione mentre ascolti, noterai che è anche roba di altissima qualità musicale.

In ogni caso a me ha cambiato la natura stessa della musica e dopo aver realizzato questo concetto dovevo solo provare a fare qualcosa del genere anch’io. Cosa posso dire? Mi piace sperimentare (ride) Provai per la prima volta a creare dell’ambient nel 1983.

— Visto che sei arrivato al punto di chiamare CONFESSION il lavoro della tua vita, perché la musica ambient è diventata una parte così importante della tua espressione musicale?

Makoto Matsushita: Semplicemente perché è quello che voglio fare. (ride) Nel crearlo ho sempre avuto un filo conduttore: tutto, a cominciare dal primo suono, deve essere improvvisato. Dopotutto, la composizione è un atto deliberato, e una volta che qualcosa di deliberato entra nel suono, finisce inevitabilmente per divergere da ”ambient”.

Quindi, quando creo musica ambient, uso il computer solo come registratore, non ho mai fatto alcuna pre-programmazione. Questo stile di totale improvvisazione ha successivamente portato anche ad altri esperimenti. Ovviamente niente che porterebbe a qualche affare redditizio, però. (ride) È puramente un hobby personale.

— I tuoi primi tre album da solista e le uscite di Paradigm Shift sono attualmente molto acclamati non solo a livello nazionale ma anche all’estero, con le stampe in vinile originali acquistate e vendute a prezzi elevati. Specialmente negli ultimi anni e soprattutto in Europa, il tipo di musica prog rock/ambient giapponese degli anni ’80—come il tuo secondo album e il materiale dei Paradigm Shift—ha guadagnato popolarità. Eri a conoscenza di questo? Qual’è il tuo sentire a riguardo?

Makoto Matsushita: Non ne avevo idea. È vero? (ride) Se è davvero così, allora sono molto contento.

— A proposito, hai ricevuto delle offerte per la ristampa dei tuoi album all’estero?

Makoto Matsushita: No, non ne ho avute. Forse semplicemente non sanno come contattarmi? (ride)

L’intervista termina qua e con i suoi primi due album termina anche il periodo city pop di Makoto Matsushita, l’articolo prosegue invece con l’invito all’ascolto degli altri suoi due dischi solisti ed una carrellata di video live.

Personalmente amo tutti e quattro i dischi solisti di Makoto Matsushita ma se dovessi sceglierne uno andrei ad occhi chiusi su Quiet Skies e quale sia di esso il mio brano preferito lo si intuisce dal titolo dell’articolo.
Non essendo però a conoscenza dell’esistenza di video live tratti da quell’album ho deciso di presentarvi Matsushita attraverso alcuni video live di vari periodi del suo percorso.

Inziamo con Love was Really Gone, dal primo album First Light, in una versione live del 1982 presa durante un concerto di Fujimaru Yoshino dove Matsushita era turnista come seconda chitarra, prima che i due formassero gli AB’S.

Proseguiamo con un live degli inizi degli AB’S, nel 1983. Makoto Matsushita è a destra e canta il secondo brano, Japanese Punkish Girl.

Gli AB’S nel 2005

Gli AB’S nel 2010.

Turnista nel video didattico del batterista Jun Aoyama “The Essence of One Drum” con Hironori Ito e MAC Shimizu nel 2012.

Gli AB’s nel 2017.

makoto matsushita
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Dedicato al “Drake” nel giorno del suo compleanno

By Automobilismo, Enzo Ferrari, Personaggi StoriciNo Comments

Come ha fatto Enzo Ferrari a creare uno degli oggetti più desiderati ed esclusivi al mondo?

Alessandro Spagnol

Il Drake non solo non concedeva finanziamenti per l’acquisto delle auto prodotte dalla sua fabbrica, ma anche se ti presentavi con il contante, non eri conosciuto all’azienda e non avevi passato specifici controlli antiriciclaggio, non potevi diventare cliente Ferrari.

 

Se il mercato richiedeva 400 auto, ne produceva 399.

Se ne richiedeva 100, ne produceva 99.

 

Ha sempre considerato troppi 1000 esemplari prodotti per singolo modello ed ha speso 0 in pubblicità convenzionale investendo nelle competizioni, battendosi e vincendo contro colossi come Ford, Porsche, Mercedes, Jaguar e contro la stessa Alfa Romeo, che gli permise di diventare pilota prima e direttore tecnico poi, mettendo in piedi con i migliori uomini del tempo la Scuderia Ferrari, presente sia in F1 che nella 24 ore di Le Mans.

 

Pare una cosa ovvia oggi, con tutti i guru del marketing aziendale che sanno cosa fare con la strada già spianata, ma mettere in pratica una cosa del genere negli anni ’50 e avere successo, non é da tutti.

 

É da numeri 1.

(18 febbraio 1898 – 14 agosto 1988)

Breve videoritratto di un personaggio unico al mondo

plastic mexico

1984 – 2024: Quarant’anni di Plastic Mexico

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Pur compiendo 40 anni e facendo un evidente parallelo con il celebre locale milanese a cui si ispira, Plastic Mexico appare oggi come il ritratto di un 1984 che sembra il 2024

Lorenzo

Plastic Mexico era il 1984 in Italia, avveniristico e virato alla moda vettoriale, a ricordare che il design italiano e il fantascientifico Giappone tecnologico dettavano legge nel mondo.

Gli echi del rock progressivo, del kraut rock e l’ispirazione dalla new wave di Japan e Bowie, dalla elettro fusion pop degli Yellow Magic Orchestra di Sakamoto e dal city pop si incontrano in questo pezzo d’arte, gioiello assoluto della discografia new wave italiana che veniva passato a rotazione da Videomusic ai tempi in cui però le rotazioni erano dominate dai fighetti della new romantic inglese dai quali le ragazzine italiane erano ossessionate ai livelli di nuovi Beatles e Rolling Stones.

Plastic Mexico era il 1984 ritratto da uno che fighetto non lo era e non lo sarebbe mai stato: nonostante i natali illustri, Alberto Fortis fu fin dagli inizi un vero outsider della musica italiana.

Nonostante una prima travagliata uscita discografica che lo portò immediatamente al successo, è rimasto da allora quasi nell’ombra, come il classico membro scomodo della famiglia che si teme perché geniale e allo stesso tempo capace di dichiarazioni indigeste.

Del resto che non abbia mai avuto peli sulla lingua lo ha dimostrato subito con le mitiche “Milano e Vincenzo” e “A voi romani” che stavano decretando la fine della sua carriera direttamente dal suo inizio.
Osteggiate dai canali ufficiali per le liriche esplosive, videro fortunatamente il successo grazie al provvidenziale fenomeno delle nascenti radio private che le programmarono allo sfinimento agendo da rampa di lancio per uno dei dischi più belli di sempre.

E dopo altri 3 dischi in studio eccoci al 1984 di El niño, album molto melodico registrato quasi completamente in duo da Fortis e Claudio Dentes (storico futuro produttore di Elio e le Storie Tese) in mezzo al quale Plastic Mexico è un’autentica mosca bianca e un exploit che racchiude in sé tutta un’epopea.

Chi c’era si ricorda bene quanto sia stato simbolico quell’anno, la svolta epocale del decennio ‘80: quando di colpo iniziò davvero il futuro che ci avrebbe portati agli anni 2000, tanto che gli anni ’90, con la loro depressa lentezza, avrebbero anche potuto non esistere se non fossero serviti per caricare la molla del nuovo millennio, pieno zeppo di tecnologia e completamente svuotato di contenuti umani.

La copertina dell’album su nastro El Niño

Come ogni lavoro avanti rispetto al suo tempo, l’album El Niño non avrà successo e si farà ricordare praticamente solo per il video di Plastic Mexico – tra l’altro oggi assurdamente irreperibile online – che conteneva in gran parte spezzoni tratti dall’allora celebre film-documentario Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio.

Il video, come già detto, ricevette vasta programmazione sull’allora neonata emittente tv Videomusic, sicuramente grazie alle immagini del film di Reggio e al fatto che i videoclip prodotti ai tempi erano ancora molto pochi, soprattutto in Italia, e venivano ripetuti molte volte al giorno (agli inizi su Videomusic non c’erano programmi tematici ma esclusivamente la rotazione dei videoclip) perciò Plastic Mexico ottenne un numero enorme di passaggi in mezzo a Duran Duran, Spandau Ballet, David Bowie, The The, Dire Straits

Plastic Mexico

Plastic Mexico, questa immaginifica esplosione di suoni e parole, questo melting pot di stili diversi e questo suo essere sanguigna e glaciale al tempo stesso, lascia stupiti e affascinati fin dal primo ascolto: dalla morbida partenza emotiva ambient poggiata su archi sintetici riverberati guidati da una insistente synth drum si passa ben presto ad un ritornello ritmato con synth brass in stile city pop per poi, al rientro nella strofa, ritrovarsi un riff di chitarra che ricorda i Japan ma anche la bowieana china girl e un basso fretless nello stile del compianto Mick Karn e poi nacchere nel bridge per tornare ad esplodere nel ritornello carico di chitarre distorte, basso tuonante ed esplosioni di sax e ottoni che ricordano la Town di Minako Yoshida.

Segue un nuovo lungo bridge con arpeggi di basso e un tappeto delirante e ipnotico di synth dove Fortis ci illustra la caduta della civiltà illuminata, il re maya trasformato in Grande Fratello di questo distopico 1984 con eserciti di yuppie-bot depersonalizzati e ci conduce ad un rock industriale col solo di chitarra fuzz appoggiato ad un basso distorto e potenti orchestral hits.

Si torna alla strofa dove la chitarra fuzz intesse attorno alla voce e introduce una tromba messicana e di nuovo siamo sul ritornello pieno di fiati per poi trovarsi di nuovo sul lungo bridge dove i fiati passano al rhytm’n’blues sui quali Fortis, appoggiandosi di nuovo al tappeto ipnotico di synth, declama il suo personale manifesto dei folli e colorati anni 80: una visione allucinata di tribù rese urbane e già in odor di cyber, in continuo sogno di evasione verso una “Shell Beach” che esiste solo nella loro mente addomesticata dall’arrivismo e dai sogni liquidi delle droghe.

E poi campionamenti di cori vocali e il sax ci introducono alla fuga liberatoria del finale rock con un nuovo solo di chitarra fuzz appoggiato al basso distorto e le urla di Fortis, una gioiosa ma disperata esplosione di fantasia e colori fluo e pastello tanto in voga ai tempi e sei arrivato alla fine e, cavolo, ti accorgi solo lì che sono passati ben 6 minuti e 10 che sono il doppio della durata di una classica hit che deve “non annoiare mai” e tu invece, dopo 6 folli stravolgenti minuti di inventiva musicale e lirica, la noia non sai nemmeno più cosa sia ma hai capito in che futuro ti ritroverai… oggi.

Ascolta il brano “Plastic Mexico”

Testo

Là, più in là, nel Mexico, fine tra di noi
oh baby non parlare, continua ad atterrare
io non so se ti amo più, tu mi hai detto stop
ma un viaggio ci fa bene per stare ancora insieme:
hai mai pensato al Nord America, lontano da qui
Tutti in piedi, dritti in fronte a me,
buongiorno cari amici, io dei Maya sono il re
torno al mondo per ricordarvi che
ballare a N.Y. City oggi è il meglio che c’è
amor, amor, amor non c’entro più

solo la lingua giapponese e tutti in giacca blu
salire sul metrò, dopo dire sempre sì:
1, 2,3, 1,2, 3,4, eh!
Là, più in là, nel Mexico, fine tra di noifanculo le bandiere, i popoli e le sereNon sopporto un uomo in più e non sopporto chisi sega in un pianeta di carni bianche e setaOh Angela, tu non sai dove:hai mai pensato al Nord America, lontano da quiolé, olé, olé, torero del Bronx, stile pret-à-porter

immagine sul ponte di un baffuto gigolòe voilà nuova moda “rétro”
radio Camarito a radio Capital,bombe silenziose e tori pré-natal,radio qua, radio là, radio perchéad Acapulco c’è un posto per teStop col sole, stop coi viaggi chicè tutto uguale, viaggio meglio al PlasticMa Brooklyn dov’è, Brooklyn dov’è, ehVisitando il Mexico

Hey Mama

Di El Niño consiglio anche l’ascolto della splendida Hey Mama, brano dedicato alla madre, con cui Fortis chiude l’album: un tenero lento dalle atmosfere rarefatte, come un pensiero rivolto ad un angelo custode al quale affidarsi nei momenti difficili che il futuro descritto in Plastic Mexico riserverà.

L’ultimo terzo del brano è costituito da un sorprendente finale strumentale sinfonico orchestrale di una bellezza fuori dal tempo che lascia stupefatti ed esorcizza la visione da incubo urbano del 1984 con un soffio di speranza e dolcezza: l’umanità deve ricordarsi sempre cos’è l’amore e donarselo vicendevolmente perché, senza dubbio alcuno, è l’amore che la salverà.

Ascolta il brano “Hey Mama”

Testo

Hey, mamaChe ci fai da meHai noleggiato una macchinaPer venirmi a dire cheNel sole meglio si vivràHo ancora molto da fare oggi quiE sai che mi costerà
Hey, mamaVoglio dirti cheTutto l’amore che troveròVoglio prenderlo perché

Più cresci e meno lo vedrai
Adesso vattene via di qui
Quando vuoi mi troverai
Quando una stella cadrà
Sei tu che mi chiamerai
Perché lei va da chi
Oh, mama, le dirà sì
Nel viaggio cosa hai visto mai
Ti han spaventato gli aerei
Ed il grande ponte dove stai

Hey, mamaHai due ali in piùTi chiami angelo e non lo saiDimmi che ci fai quaggiùQui, oh, mama, male non si staI grattacieli e le nuvoleSi domandano l’età
Quando una stella cadràSei tu che mi chiameraiPerché lei va da chiOh, mama, le dirà sì

Musicisti

 

Alberto Fortis – voce, batteria, pianoforte, tastiere, percussioni
Claudio Dentes – basso elettrico, chitarre elettriche, chitarra acustica

Altri musicisti
Claudio Pascoli – sax sezioneDemo Morselli – tromba sezione
Demo Morselli – flicorno solo (brano: Hey Mama)
Paolo Severi – sax solo

Note aggiuntive
Alberto Fortis e Claudio Dentes – produttori, arrangiamenti
Claudio Dentes – produttore esecutivo
Lucio Fabbri – arrangiamento e direzione orchestrale
Registrato negli studi Psycho (Milano) da Claudio Dentes e al Moon Base da Maurizio Vandelli
Orchestra registrata nello Studio Regson da Paolo Bocchi
Mixato al Idea Studio di Milano (Crayg Milliner e Claudio Dentes)
Cutting eseguito da Arun Chakraverty al Master Room Studio, 59 Riding House, London
Copertina realizzata dallo Studio Convertino su idea di Alberto Fortis
Guido Harari – foto

Alberto Fortis e “Plastic Mexico” a Festivalbar 1984

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Alfa Romeo Carabo: Spaceship Superstar!

By Automobilismo, Marcello Gandini, Personaggi StoriciNo Comments

Gli anni che ci avvicinano al 1968 sono pieni di fermento. In Italia il precedente decennio del boom economico ha lasciato una società rinvigorita, giovane, che vuole realizzare i propri sogni, motorizzata in massa grazie alle FIAT 600 e 500, piena di energie e di voglia di rinnovamento.

Alessandro Ciaramella

Prima della Carabo – L’evoluzione dei tempi

Nel 1966 conosce il suo apice la battaglia sportiva ingaggiata dal colosso Ford contro la Ferrari nel 1963, quando tre Ford GT-40 MK-II tagliano in parata il traguardo della 24 ore di Le Mans, prevalendo sulle mitiche Ferrari 330P/3, tutte ritirate (con tanto di esito drammatico per il vincitore morale della gara, nonché sviluppatore della Shelby-Ford GT-40 mk2, Ken Miles, ma questa è un’altra storia!).

All’epoca, questo tipo di gare era più seguito e importante della Formula 1, e l’evento fu di eccezionale rilevanza.

Nel 1966 un certo Marcello Gandini, 28enne designer di recente assunto presso la Carrozzeria Bertone di Torino, protagonista di questa storia (e di molte altre), nel tempo di tre mesi, a partire dal disegno al prototipo funzionante, crea la Lamborghini Miura.

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1966 – Lamborghini Miura

Quest’auto (la cui vicenda si intreccia in certo senso con quella delle Ford GT-40 di cui abbiamo detto prima) genera un clamore enorme all’epoca, ed è ancora oggi considerata una delle vetture più belle ed eleganti mai realizzate. Marcello Gandini, con la tipica incontentabilità dell’artista creativo, in un’intervista rilasciata qualche anno fa, non ha peraltro mancato di trovarle (incredibilmente) diversi difetti e cose che avrebbe voluto realizzare diversamente.

Non gli era mai andata giù l’insufficiente larghezza del corpo vettura e i primi pneumatici montati, troppo stretti (che all’epoca erano, infatti, gli unici disponibili).

Il 1967 porta in Italia la legge sul divorzio, la riforma dell’università e l’inizio delle proteste giovanili. Le minigonne si accorciano sempre di più. La fantascienza rinasce, il design si rivoluziona. Nella cinematografia sono in rampa di lancio film come “Il pianeta delle scimmie” e “2001: odissea nello spazio”. Cambieranno il modo di pensare il futuro. Visivamente, la fantascienza influenzerà il design, la moda e da essi sarà influenzata a sua volta.

E’ in quest’anno che l’Alfa Romeo inizia la produzione di un’auto da competizione con l’intento di riportarsi ai gloriosi tempi della Formula 1, lasciata da vincitrice all’inizio degli anni ‘50. E nasce, in effetti un’auto che riscuoterà, nel tempo, un gran numero di successi sportivi: l’Alfa Romeo Tipo 105.33, conosciuta come Alfa 33. Ne viene lanciata anche una versione stradale (soli 18 esemplari, una tra le più rare auto al mondo), disegnata da Franco Scaglione.

Su questa base molti saranno i prototipi realizzati dai più grandi designer negli anni immediatamente successivi, tutti passi fondamentali sulla via delle attuali auto sportive. E’ questo il DNA che darà i natali alla ventura Carabo.

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1967 – Alfa 33 Stradale

Per l’Expo del 1967 in Canada, in occasione del centenario della nazione, Alfa Romeo incarica Bertone di realizzare un’auto celebrativa. Nasce così il prototipo Alfa Montreal, sempre su disegno di Gandini. Le linee della Miura evolvono, si fanno più pulite e meno sinuose.

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1967 – Alfa Romeo Montreal prototipo

Lo stesso Gandini chiarisce che chi crea un’auto non è dissimile da un pittore. Ha certo un suo stile, ma ogni volta ha voglia di creare qualcosa di nuovo e di diverso rispetto al proprio lavoro precedente. E le successive creazioni dimostreranno con forza questa sua convinzione.

Sempre nel 1967 Gandini cura il prototipo Marzal per Lamborghini, studio di auto sportiva a quattro posti in cui lascia definitivamente le linee della celebre Miura per sposare un look ben più visionario. E già sembra di trovarsi in un altro mondo.

Le superfici vetrate si fanno meno consuete, i piani taglienti e dritti, e appaiono linee poligonali e trame esagonali. Il cockpit sembra quello di un caccia stellare. All’interno pelle blu per il cruscotto e argentata per i sedili esagonali, pulsanti e luci rosse e arancioni caratterizzano il disegno dei rivoluzionari interni.

Quest’auto genererà poi la celebre Lamborghini Espada, prima sportiva con quattro posti veri. E’ un piccolo ma deciso passo avanti verso una nuova era del disegno automobilistico, un grande passo verso la Carabo.

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1967 – Lamborghini Marzal prototipo

I cambiamenti sociali e culturali del 1968 sono argomento ben noto e ampiamente discusso.

Dall’altro lato dell’oceano, nel 1968 viene prodotta l’americana Mustang che rivaleggerà, sia sui mercati che al cinema, con un’altra auto del pari mitica, la Dodge Charger.

Nel celebre film “Bullit”, con Steve McQueen, le due auto sono protagoniste di un rocambolesco inseguimento. In quell’anno esce però anche un altro film, destinato a diventare una pietra miliare della cinematografia: “2001 Odissea nello spazio”.

La visionarietà dell’opera rompe definitivamente con la cultura visiva del passato ed è il manifesto delle nuove idee di design futuristico. La fantascienza, nella sua parte grafica ed immaginifica, vira decisamente verso forme pulite, piani inclinati dai colori forti e contrastati.

Trame esagonali, grigliati strutturali realizzati in nuovi materiali e l’illuminazione portata in forma di lame di luce o piccolissimi spot presenti ovunque diventano il simbolo della modernità che sta per irrompere nel mondo.

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Da “2001: Odissea nello spazio”

In Italia, forse, pochi sanno che la NSU vince il premio di Auto dell’anno con la Ro 80, auto a motore rotativo Wankel (che tempi, che sperimentazione!), a Le Mans vince ancora la Ford GT-40 (prima di lasciare lo scettro agli anni del dominio Porsche), ma le Alfa Romeo Tipo 33/2 si piazzano nelle posizioni assolute 4a, 5a e 6a, vincendo la propria categoria e proseguendo la propria marcia trionfale in diversi tipi di competizione.

Arriva la Carabo

Il salone di Parigi del 1968 si avvicina. L’Alfa Romeo intende presentare un prototipo da esporre e chiama di nuovo Bertone per realizzarlo. Mancano solo 10 settimane all’evento e non lo si può perdere.

A quei tempi, i saloni internazionali dell’automobile erano le sole occasioni per esporre i nuovi concetti, i nuovi modelli di serie da promuovere e far parlare di se’ con avveniristici prototipi. Tutta la stampa specialistica presente, tutte le personalità più importanti del settore si potevano incontrare quasi solo in quelle occasioni ed era necessario essere presenti con novità e prototipi che aprissero la pista alle future realizzazioni.

E Bertone incarica ancora il geniale Gandini, appena 30enne, evidentemente sapendo di poter contare su un uomo in grado di scattare, come le vetture che sognava, a velocità massima in pochissimo tempo.

In questo contesto di fermento intellettuale rivoluzionario, Gandini riceve la base di una delle pochissime Alfa Tipo 33 stradale esistenti, telaio numero 75033.109. Dei pochi telai disponibili, due erano andati a Pininfarina (che ne realizzò i concept Cuneo e 33.2), uno a Italdesign di Giorgetto Giugiaro (che ne farà l’Alfa Romeo Iguana) e due a Bertone, su uno dei quali due Gandini disegnerà proprio la Carabo.

Il Telaio ad H asimmetrica dell’Alfa 33 era stato progettato, con tecnologie di derivazione aeronautica, da un uomo il cui nome gli appassionati Alfa portano nel proprio cuore: Giuseppe Busso. Composto da tre grandi tubi di alluminio che ospitavano al proprio interno i serbatoi del carburante, il telaio principale supportava due fusioni in magnesio atte a sostenere il motore e il gruppo trasmissione, e le sospensioni.

Con un passo cortissimo di 2.350 mm, il telaio di soli 48 Kg, tutta l’auto completa arrivava a pesare appena 700 Kg, una vera belva da pista. Per rendersi conto, la piccola placida utilitaria FIAT 500 dell’epoca, un’auto che tutti consideriamo molto leggera, pesava 550 Kg, cioè solo 150 in meno dell’Alfa, e aveva 13,5 Cv contro i ben 230 della versione stradale della 33.

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1967 – Telaio ad “H” dell’Alfa Romeo tipo 33

Il motore era un vero gioiello, il V8 da 1995 cc a 90 gradi, doppio albero a camme in testa, interamente in alluminio, progettato sempre dal geniale Busso, e in seguito affidato all’ingegner Carlo Chiti di Autodelta, che era il reparto corse dell’Alfa Romeo. Capace di 270 Cv a 8.800 giri (230 in configurazione stradale), abbinato a un cambio a sei marce a schema transaxle, era capace di spingere l’Alfa 33 fino a toccare i 270 Km/h e scattare da 0 a 100 Km/h in circa 5 secondi.

Si trattava, in sostanza, di una specie di Formula Uno dotata di una entusiasmante carrozzeria (dopotutto era un’auto omologata a partire dalla versione corsa), e infatti il prezzo era altrettanto stratosferico: circa 10 milioni di lire di allora. Nel 1968 una Ferrari Dino 206 GT costava meno di cinque milioni, la famosa Miura circa sette milioni, una Rolls Royce quasi 15, e la FIAT 500, di cui abbiamo detto prima, circa 500.000 Lire.

Questo è il cuore pulsante e la poderosa ossatura che Gandini riceve nelle proprie mani, sulla quale calerà un’estetica altrettanto visionaria. Nasce la Carabo.

Al Salone di Parigi è già famosa prima ancora che la manifestazione inizi.

Il giorno giunge, i battenti si aprono, è il 10 ottobre del 1968. A pochi minuti dell’apertura del Salone la Carabo è già attorniata da giornalisti e visitatori dall’aria sbalordita. Tutti si affollano attorno all’astronave appena atterrata.

Il colore è un verde sfavillante, la verniciatura luminosa ed iridescente è ripresa dai colori del coleottero Carabus Auratus, verde con sfumature dorate e arancioni, che dà il nome anche alla stessa vettura. La Carabo, appunto.

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Carabus Auratus

A stupire, ancor più che le prestazioni dichiarate (250 km/h e 6,5” per passare da 0 a 100 km/h), sono le dimensioni, le forme che tolgono il fiato. Lunga 417 cm e larga 178, la Carabo è alta soltanto 99 cm, 6 in meno della Miura che già sembrava bassissima.

Gandini è riuscito infine ad avere la vettura più larga e più bassa di quanto gli avessero lasciato fare con la Miura le limitazioni di produzione e i costi.

Due anni dopo, osando ancor di più lungo questa strada, realizzerà la Lancia Stratos Zero, ancora più estrema.

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1968 – Alfa Romeo Carabo, vista laterale (Museo Alfa Romeo)

Il profilo è un rivoluzionario monovolume a cuneo, l’aerodinamica diviene sempre più sofisticata nel solco delle prime Berlinette Aerodinamiche, le BAT Alfa Romeo di venti anni prima.

Il frontale è basso e affilato, volto a mitigare i problemi di deportanza che affliggevano l’avantreno delle Miura oltre certe velocità, sollevandone il muso. La linea scorre veloce e continua, ininterrotta e penetrante, dal musetto appuntito fino all’ampio parabrezza e al possente posteriore.

Le gomme sono finalmente come Gandini le avrebbe desiderate sin dall’inizio anche sulla Miura, larghe, possenti, che donano un aspetto molto aggressivo alla vettura identificandola ancor di più con le vetture da gara, di cui possiede inequivocabilmente il DNA.

Le portiere sono esagonali, con una inconsueta apertura a forbice. Incernierate sulla parte anteriore, si sollevano grazie a un sofisticato sistema di pistoni a gas.

Ricordano forse, in qualche modo, il coleottero nell’atto di spiegare le ali, pronto al formidabile volo.

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Alfa Romeo Carabo, apertura delle portiere

Gandini dichiarerà che non avrebbe mai pensato che tale soluzione avrebbe riscosso successo, e invece fu tanto apprezzata da essere riproposta su diversi altri modelli seguenti, anche di sua stessa concezione. Le prese d’aria del motore, elegantemente accennate in una sorta di branchia dietro ai finestrini, nutrono il possente V8 posto in posizione posteriore-centrale longitudinale.

La linea a cuneo procede senza quasi abbassarsi, decisa, verso il posteriore, tagliato di netto. Dopo il grande cofano motore coperto da un grigliato nero, aperto per l’evacuazione dell’aria calda del motore, il volume si chiude con lo specchio posteriore esagonale dal disegno molto curato.

Qui un grigliato scuro, esaltato dal contrasto col verde brillante, nasconde e mimetizza le luci posteriori, che sono visibili solo quando si accendono. Ricordano le griglie luminose dei computer della fantascienza, donando all’auto un aspetto iconico inconfondibile anche nei dettagli.

Lo spoiler a coda d’anatra integrato nel disegno della parte posteriore dell’auto domina il posteriore e lo conclude in alto, mentre in basso fuoriescono i quattro tubi cromati esternamente e rossi all’interno, a indicare la presenza delle due bancate del V8.

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Lo specchio posteriore della Carabo e l’interno del celebre HAL 9000

Come nelle più recenti tendenze di progettazione sportiva, l’abitacolo è spostato in avanti, e la linea del parabrezza è integrata con quella del muso, che va accorciandosi e abbassandosi sempre più, a differenza dei modelli del passato, aumentando aerodinamicamente la deportanza, il peso sull’anteriore e quindi la precisione di guida.

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Il muso della Carabo e la navicella Icarus del “Pianeta delle scimmie”

La parte centrale e posteriore dell’auto vede la predominanza della copertura del motore, al centro dell’auto sia fisicamente che metaforicamente.

I proiettori frontali sono dissimulati, come sulla Montreal, da lamelle orientabili, ma stavolta sono del tutto nascosti alla vista. Altre appendici mobili completano l’affascinante aspetto moderno della berlinetta.

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Carabo, i fari anteriori accesi

Il radiatore, posto sotto al cofano anteriore, emette l’aria esausta attraverso altre appendici alari integrate nel disegno del frontale. Le lamelle inferiori di colore scuro ricordano forse i segmenti dello scarabeo che le dona il nome.

Tutto è visionario, tutto è senza limiti di immaginazione.

Il colore audace apre la pista alle colorazioni più esotiche e nuove, che si vedranno negli anni a venire, sulle auto sportive e poi anche su quelle di serie. I cristalli sono dorati a specchio come le visiere dei caschi degli astronauti o i finestrini delle navicelle spaziali che dominano la fantasia dei più giovani.

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Questa disposizione volumetrica darà origine e si ritroverà in tutte le auto sportive che sono venute poi nel 20esimo secolo, sino ancora ad oggi nel 21esimo.

Gli interni rigorosi ricordano le geometriche cabine di pilotaggio delle navicelle stellari dell’epoca, il volante è conico ed essenziale, le forme astratte e squadrate.

Lo stesso logo richiama, quasi scherzosamente, la forma dell’auto con la lettera “A”, di forma esagonale, che ne simula l’inconfondibile sportello in posizione aperta.

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Il logo della Carabo sullo specchio posteriore

Il successo della Carabo è di livello mondiale, e la sua silhouette non solo fa il giro delle riviste del settore, bensì irrompe anche sulla stampa non specializzata.

Vi è unanime approvazione non soltanto per lo studio avveniristico del design, ma anche per l’impiego dei nuovi materiali e per le soluzioni tecniche d’avanguardia introdotte.

Dopo la Carabo, e la gloriosa progenie della Carabo

Celebrata nel corso del tempo, restaurata di recente, è stata esposta nel mondo nelle mostre di eleganza e ultimamente ha illuminato, con i suoi colori inconfondibili, le serate milanesi nell’occasione della Settimana del Design, nell’aprile del 2023. E’ attualmente conservata nel museo Alfa Romeo di Arese.

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2023 – la Carabo esposta a Milano

La Carabo si è posta come una pietra miliare del design automobilistico. Uno spartiacque, dopo cui nulla è stato come prima.

Oltre a influenzare quasi ogni altra vettura sportiva successiva sino ancora ad oggi in quanto a design generale, disposizione delle parti e dei volumi, la Carabo ha avuto una discendenza diretta a dir poco eccellente.

Due anni dopo, dalla stessa geniale matita nascerà la Lancia Stratos Zero, una scultura in movimento (come la definì lo stesso Gandini) la quale a sua volta genererà la Lancia Stratos, regina dei rally nel decennio dei ’70. E, poco dopo, farà la sua comparsa una certa Lamborghini Countach… ma questa è un’altra storia!

CLICCA PLAY PER GUARDARE LA CLIP DEL FILMATO ORIGINALE BERTONE CON LA PANORAMICA DELLA CARABO

Ringraziamenti

Un caloroso Benvenuto al nostro nuovo collaboratore Alessandro Ciaramella e un grazie di cuore per la passione e la meticolosità messe nella stesura dell’articolo e nelle ricerche ad esso correlate.

Un enorme ed eterno ringraziamento va al grande genio di Marcello Gandini, signore che con rare oggettività e umiltà ha insegnato al mondo come si disegnano e realizzano i sogni.

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New Trolls

New Trolls – FS: La vita è finita nel 1980 ma noi non ce n’eravamo accorti

By Musica, Personaggi Storici4 Comments

Parliamoci chiaro, i New Trolls erano e restano uno dei dieci gruppi musicalmente, tecnicamente e artisticamente più dotati al mondo.
Ma gli italiani sono ormai famosi per la ridicola capacità di dare sempre pollice verso ai propri connazionali preferendo più che discutibili proposte estere.

Daniele Pieraccini - Lorenzo

Occuparsi delle glorie del passato non è sempre un compito piacevole e quando tocca a qualcosa che riguarda l’Italia sono sempre più dolori che gioie, perché si parla di capolavori che per vari motivi (quasi sempre meri arraffaggi politici di personaggi da carcere e ridicola speculazione senza scrupoli) non si sono mai più ripetuti, anzi.

Ci si trova spesso a riscoprire eccellenze che lasciano al contempo un senso di meravigliato stupore, profondo affetto e una grande e scorata tristezza.

È il caso di FS dei New Trolls, un album talmente bello che in qualsiasi altro paese sarebbe considerato bene nazionale, incensato da una critica onesta e sommerso di dischi d’oro dagli ascoltatori.

Sicuramente ancora oggi sarebbe passato alla radio almeno quanto i soliti, ripetitivi, Pink Floyd.

Una classe compositiva, una fantasia inventiva, una perizia tecnica e una profonda e sincera evocatività come quelle del brano “Il treno” non hanno eguali nella storia della musica moderna.
E non è la prima volta che succede con la musica dei New Trolls, ma per un decennio sfortunato dal punto di vista artistico come gli anni ’80 si tratta davvero di una mosca bianca.

Parliamoci chiaro, i New Trolls erano e restano uno dei pochi gruppi musicalmente, tecnicamente e artisticamente davvero dotati al mondo: De Scalzi e Di Palo, oltre ad essere dei grandi cantanti con doti vocali fuori dal comune e che hanno reso le parti corali e solistiche del gruppo un marchio di fabbrica inconfondibile, erano e sono compositori e polistrumentisti sopraffini (com’è noto Melody Maker fu talmente colpita da Nico da inserirlo nella lista dei 10 migliori chitarristi europei degli anni ’70, quando era ancora giovanissimo).

Ma gli italiani sono ormai famosi per la ridicola capacità di dare sempre pollice verso ai propri connazionali preferendo più che discutibili proposte estere: l’esterofilia è una malattia mentale che da troppi decenni incredibilmente colpisce quello che è il popolo che nei secoli ha insegnato praticamente ogni forma di artigianato e arte al resto del mondo (un esempio su tutti, il gelato).

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Concerto Grosso per i New Trolls

Non è un caso che questa band, pioniera del genere rock progressivo italiano, provenga da Genova: oltre alla ben nota scuola genovese, fucina impareggiabile di talenti, nel capoluogo ligure si trovava l’Alcione, uno storico cinema-teatro sorto nel 1948 con il nome Colosseo e chiuso ingloriosamente alla fine del secolo, ridotto a cinema a luci rosse.

Negli anni sessanta e settanta il locale visse stagioni strepitose, tra teatro, avanguardia e soprattutto concerti di gruppi progressive.
Vi suonarono infatti Van Der Graaf Generator, Genesis, Gentle Giant e Peter Hammill, tra gli altri.

Nel 1973 vi registrarono l’album Tempi dispari gli NT Atomic System, uno dei progetti paralleli della band madre formatisi in seguito a screzi tra i componenti (a tal proposito segnaliamo anche gli ottimi Ibis di Nico Di Palo).

Due anni prima il gruppo aveva abbracciato il prog pubblicando Concerto grosso per i New Trolls, pietra miliare della scena rock, qualcosa di veramente unico e mai sentito nel panorama musicale italiano.
Il disco avrà un seguito nel 1976 con il meno noto ed acclamato ma sicuramente meritevole di riscoperta, Concerto grosso n. 2.

Partiti dal beat psichedelico degli esordi, De Scalzi e colleghi si sono cimentati, sempre con credibilità ed efficacia, anche con l’hard rock (ascoltate lo stoner ante litteram di C’è troppa guerra, sempre del 1973) attraversando vari generi per spostarsi infine verso il pop rock, mantenendo negli anni un livello compositivo ed esecutivo altissimo.

Un discorso a parte meriterebbe anche la maniacale ricerca dei suoni “giusti” per ogni stile affrontato, soprattutto per quanto riguarda le chitarre.

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C’è troppa guerra

Dunque, dopo vari album, singoli di successo e collaborazioni con altri artisti, i New Trolls arrivano al 1980 perdendo per strada Giorgio Usai (tastiere) e Giorgio D’Adamo (basso).

Con la formazione ridotta all’osso, composta da Vittorio De Scalzi (voce e tastiere), Nico Di Palo (chitarra, basso e voce), Gianni Belleno (batteria e voce) e Ricky Belloni (chitarra, basso e voce), entrano nella stanza Double degli studi Idea di Milano con il tecnico André Harwood e lo storico produttore Gianfranco Lombardi, per inaugurare a loro modo gli anni ottanta.

Il risultato è FS, un concept album che ha per filo conduttore un viaggio in treno, presentando una galleria di passeggeri incontrati. Un disco a tema, concetto caro al progressive, che offre un amalgama straordinario di suoni e generi: rock, pop, cantautorato, classica, reggae e nuove tendenze rock/wave.

Pur muovendosi all’interno di coordinate pop rock, i New Trolls mantengono le loro linee distintive progressive, deliziandoci con virtuosismi strumentali e cantati polifonici che hanno pochissimi rivali nel mondo.

Andiamo adesso a parlare in specifico dell’album FS dei New Trolls, che troverete analizzato di seguito con ciascun brano accompagnato da un video da noi appositamente creato per questo articolo con affetto: un omaggio al gruppo più rappresentativo della musica italiana moderna nel mondo.

New Trolls – FS

L’opera si apre con la chitarra di Nico Di Palo che, appoggiandosi ad un eco ribattutto, riproduce efficacemente il fischio e il suono di un treno in corsa sulle rotaie: Il treno (Tigre – E 633 – 1979) è un quadretto di realismo poetico musicalmente trascinante, con pause di sospensione e esplosioni chitarristiche, narrato dalla grande voce di De Scalzi.

Dal vivo i New Trolls erano capaci di offrire versioni persino migliori, più intense, di questo brano ed è un vero peccato che non esista un archivio live restaurato all’altezza delle loro performance.

Il treno è un brano ad ampio respiro, una potente introduzione al concept, un’ode poetica al viaggio, al senso di distacco e di avventura al tempo stesso.
Durante il brano viene fatta una presentazione dei vari personaggi che si incontrano nel viaggio.

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Il treno (Tigre – E 633 – 1979)

Segue La signora senza anelli, brano cantato coralmente e introdotto da un riff rock di Belloni che pesca dal passato per preconizzare la Money For Nothing dei Dire Straits.

Il solo è dello stesso Belloni, mentre Di Palo lo sostiene con il suo grande basso poppeggiante per dare ritmo e allo stesso tempo alleggerire quello che è l’amaro racconto di una donna, un tempo benestante, che ha dilapidato le proprie sostanze fino a ridursi sul lastrico e consumarsi interiormente per assecondare i folli capricci di un figlio bello e volubile partito per “L’America”.

Figlio che spera finalmente di poter rivedere vendendosi, per l’appunto, l’ultimo anello per raggiungerlo attraverso un viaggio pieno di incognite.
Nel testo si colgono riferimenti alla droga e verso la fine si intuisce quindi che il figlio della signora possa addirittura esserne morto e il viaggio della donna sia quindi volto al recuperarne le spoglie.

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La signora senza anelli

La guerra interiorizzata di L’uomo in blu conferma il ruolo centrale della chitarra in questo disco.
Le parti strumentali e gli arrangiamenti seguono alla perfezione la drammaticità della storia di un uomo dilaniato dal conflitto esterno come da quello dentro di lui. Un piccolo bignami del rock, una grande canzone sulla guerra.

Gli intrecci tra frasi e arpeggi discendenti dei due chitarristi dei New Trolls, i licks taglienti e gli assoli urlati ma anche intimisti, appoggiandosi agli archi sintetici di De Scalzi, marcano con insistenza il dramma interiore di quest’uomo narrato dalla voce di Di Palo.
Un pregevole lavoro alle sei corde che si divide tra le Yamaha SG di Belloni ed SX di Di Palo.

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L’uomo in blu

Ancora chitarra in primo piano, stavolta arpeggiata da Di Palo, per introdurre un’apparentemente più allegra Stelle nelle tue mani, cantata da Nico con dei favolosi cori armonizzati in pieno stile New Trolls mentre Belloni punteggia con accordi di chitarra satura, assoli e veloci fraseggi armonici.

Le mani del titolo sono quelle di una bella ragazza che colleziona amanti, vestiti e bugie, gettandoseli alle spalle con nonchalance mentre la vita e la giovinezza scorrono veloci come un’autostrada.

Ovviamente i pensieri la inseguono ma la tentazione di affogare tristezza e incognite del domani in notti di follie vince sempre e lei continua a fuggire da sé stessa infilandosi in un nuovo letto, un nuovo vestito e nascondendosi dietro gli occhiali scuri finché anche bugie, bellezza ed amanti (le stelle) saranno solo un lontano ricordo e resterà soltanto la realtà.

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Stelle nelle tue mani

Gilda 1929, introdotta da un’armonia corale acapella dei quattro New Trolls, lascia spazio alla nostalgia di Liberty ed epoche perdute con una struttura classico-barocca ed il cantato di Nico e Ricky Belloni che con parole metafisiche riflettono sullo scopo della vita e su come in essa sia necessario rischiare il moto della creatività perché la staticità sarebbe solo una negazione dell’esistenza:

“Se la tua immortalità
È stare fermo qua
Ferro non lo sai
Che è meglio fondersi nel fuoco
Che non partire mai”

In essa trova spazio anche una riflessione sul Matrimonio Alchemico e il desiderio del raggiungimento di tale congiunzione come coronamento di una vita di crescita interiore.

Atmosfera molto evocativa, con un finale in cui sembra affiorare pure Bach mentre stavolta sono i malinconici e vibranti violini sintetici di De Scalzi ad appoggiarsi sulle chitarre armoniche del duo e a trasportarci verso la banchina dalla quale il protagonista riparte per il suo viaggio.

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Gilda 1929

Di nuovo il rumore dei binari ci conduce al bell’arpeggio di chitarra che anticipa musicalmente lo stile italiano degli anni ’80 che verranno: Quella luna dolce è una ballata di stampo cantautorale, molto tenera ed intimista e con un grande basso fretless suonato da Di Palo.

Canta De Scalzi con dolcezza infinita mentre le famose voci dei New Trolls armonizzano abilmente il ritornello e Belloni si occupa del bridge.

La riflessione questa volta verte sul passaggio da bimbo a uomo, la luna è la madre (o forse la nonna?) che ti accompagna dai primi passi, passando per l’adolescenza fino all’età adulta dove lascerà il posto ad una luna generazionalmente più vicina a te, una compagna che si spera sarà quella che ti accompagnerà nel resto della vita: ancora si toccano temi metafisici sull’esistenza tramite la metafora del viaggio in treno.

I versi di chiusura del brano suonano bellissimi nella loro semplicità e non possono non ricordare lo stile di un ben noto cantautore che salirà alla ribalta una decina di anni dopo:

“Quella luna dolce coi suoi occhi stanchi
Mi vedeva già grande
Gliel’avevan detto i suoi capelli bianchi
Che finiva così”

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Quella luna dolce

Il serpente è un reggae, intelligente e molto orecchiabile. Il genere caraibico fu frequentato anche da altri artisti italiani all’epoca (Berté e Fossati, per esempio).

Il protagonista non ha paura di guardare negli occhi le persone cercando qualcosa, pur essendo disilluso e cosciente di correre dei rischi nei rapporti umani, soprattutto in amore.
Sente il rapporto con la compagna spegnersi nell’apatia e cerca un contatto con lei per evitare che ciò avvenga. Ancora una volta siamo davanti ad una metafora metafisica ma questa volta volutamente più leggera, almeno nella musica.

Il pezzo, che all’epoca fu infatti scelto come singolo di lancio dell’album, fa ampio sfoggio del Vocoder e dei cori.

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Il serpente

Di nuovo la voce di De Scalzi filtrata dal vocoder fa partire La mia canzone, un pezzo classicheggiante nell’animato stile disco-musical in voga ai tempi, eseguito mirabilmente e che altro non è che una canzone d’amore dolcissima dedicata alla musica e alla tenera fragilità dell’ispirazione artistica e umana.

Il testo contiene anche dei piccoli richiami alla splendida e sofferta Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi di Lucio Battisti, a sottolineare quanto il rapporto d’amore con la musica possa essere similmente bello e doloroso a quello con una donna.

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La mia canzone

Il viaggio si conclude in stazione con Strano vagabondo, cantata in falsetto da Belleno e rinforzata sui bassi da De Scalzi con ulteriori belle armonie vocali eseguite da tutta la band dei New Trolls.

Il protagonista visualizza la parte più scanzonata e sognante di sé stesso come un vagabondo che vive la vita con avventurosa leggerezza, una caratteristica della quale sente sempre più il bisogno e che lo porta a pensare a un viaggio intorno al mondo con l’amico che ha sempre desiderato avere.

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Strano vagabondo

FS è un inno alla libertà di un gruppo che è rimasto sempre sincero, originale e concreto nel trasmettere il suo messaggio al pubblico.

Certo, i New Trolls si sono adeguati ai tempi, hanno riscosso grandi successi di vendite, collezionato partecipazioni a Sanremo ma, forse perché interessati solo al “suonare”, al contatto con gli ascoltatori restando avulsi da ogni contesto politico, non godono del riconoscimento plebiscitario tributato ad altri nomi.

Ogni brano di FS condensa e presenta in maniera coerente e armoniosa numerose citazioni dalla storia della musica popolare o colta; alla luce dell’oggi questa opera così tematica e riassuntiva appare come una sorta di testamento, un documento sulla fine di un’epoca.

FS rappresenta l’ultimo grido della speranza, dell’arte, della musica. Dell’umanità.

La vita è finita nel 1980 ma noi non ce n’eravamo accorti

Non a caso sarà seguito da America Ok, già dal nome ironicamente disperato, che rappresenta in pratica la fine artistica dei New Trolls.

Si stenta a credere che siano gli stessi quattro musicisti che hanno dato vita a FS: la strumentazione è interamente elettronica, l’umore è nichilista, da fine del mondo vista con l’aperitivo in mano facendo finta di nulla.

E’ un attacco sornione ma anche diretto – se si ha il coraggio di volerlo vedere – all’esterofilia presente in maniera sempre più pervasiva nella generazione dei cosiddetti “baby boomers”, una vera malattia virale che sta portando al tracollo l’intera scena artistica italiana in favore di quelli che sono spesso autentici orrori proveniente da oltreoceano e dall’oltremanica (oltretomba?).

Tra l’altro l’album si chiude con un plagio clamoroso di Open Arms dei Journey, una sorta di provocazione diretta a quell’America che di tutto si impadronisce e tutto ingurgita, senza riconoscere alcun merito ai veri “ispiratori”.

Intendiamoci, la classe strumentale e vocale è intatta, e sono presenti brani pregevoli, non si tratta certo di un’opera insensata. Il fatto è che America Ok è un album concettualmente lontanissimo da FS, si stenta a credere che siano passati appena due anni tra queste due opere. Musiche e liriche sembrano provenire da due mondi diversi.

L’aspetto più oscuro è rappresentato proprio dai testi, nei quali troviamo frasi come “su questa spiaggia amara son diventato una cosa”, “Si è spenta oramai la mia generazione”, “iI tempo non c’è più”.

Ora che siamo giunti al capolinea del filoamericanismo, senza forse possibilità di fuga dalla rovina totale del grande inganno, ci rendiamo conto che la vita è finita nel 1980 ma noi non ce n’eravamo accorti.

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America ok

Tokio City Pop

City Pop – il futuro veniva dal Giappone

By Musica, Personaggi Storici2 Comments

Il cosiddetto City Pop non è un genere ben definito, avendo preso ispirazione da vari altri stili, soprattutto americani, è più considerabile una contaminazione che un vero e proprio genere musicale a sé stante, in realtà anche il nome City Pop non ha un’origine ben precisa e si riferisce semplicemente alla musica che proietta un'atmosfera "urbana" e il cui target demografico sono gli abitanti delle città.

Lorenzo

City Pop è il nome attribuito attualmente ad una corrente musicale emersa alla fine degli anni ’70, conosciuta ai tempi come New Music, e che ha raggiunto il picco negli anni ’80 per poi calare nell’epoca “grunge” dei ‘90, finendo addirittura con l’essere derisa dalle nuovi generazioni giapponesi, cadendo così nel dimenticatoio fino agli inizi degli anni dieci del duemila quando ha subito un rilancio tramite i blog di condivisione musicale e alle ristampe giapponesi degli album di riferimento.

In conseguenza di questo si è diffusa a livello internazionale ed è diventata la base fondante di fenomeni musicali di ripescaggio basati sul copia-incolla di campionamenti come vaporwave e future funk.

Il cosiddetto City Pop non è un genere ben definito, avendo preso ispirazione da vari altri stili, soprattutto americani, è più considerabile una contaminazione che un vero e proprio genere musicale a sé stante.

In realtà anche il nome City Pop non ha un’origine ben precisa e si riferisce semplicemente alla musica che proietta un’atmosfera “urbana” e il cui target demografico sono gli abitanti delle città.

Tatsuro Yamashita con Eiichi Ohtaki

Le sue origini vengono identificate sia nella band Tin Pan Halley di Haruomi Hosono, che fondeva R&B, soul e jazz fusion con la musica tropicale hawaiana e quella tipica di Okinawa, che nell’album Songs degli Sugar Babe, il progetto con il quale debuttarono nel 1975 Tatsuro Yamashita e Taeko Onuki, considerati i fondatori del City Pop, del quale Yamashita è considerato “il Re” e la Onuki una delle più importanti compositrici.

Della partita era anche il produttore dell’album, Eiichi Ohtaki, terzo pilastro fondante del genere e da questo si riesce a capire l’importanza di Songs.

Il disco degli Sugar Babe, al quale si attribuisce appunto la nascita del City Pop, è un grande album westcoast con enormi riminiscenze beatlesiane, del Todd Rundgren di Runt e Something/Anything e della Carol King che infatti ai tempi proprio da Rundgren copiò lo stile.

L’album passò incredibilmente in sordina ai tempi dell’uscita per poi invece schizzare direttamente al numero 3 quando fu ristampato nel ‘94.

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Sugar

Quindi le origini del City Pop si individuano come propaggine della “new music” giapponese influenzata dal folk americano ma arrivò a includere un’ampia gamma di stili – tra cui AOR, soft rock, R&B, funk, boogie, jazz fusion, tropical, latina, new wave – che erano associati al nascente boom economico del Giappone.

Il movimento di conseguenza si identificava anche con le nuove tecnologie giapponesi di allora come il Walkman, gli stereo portatili con registratori a cassette, gli autoradio stereo FM con lettore cassette e vari strumenti musicali come i sintetizzatori Casio CZ-101 e Yamaha CS-80 e la drum machine Roland TR-808.

Casio CZ-101

Quella City Pop era insomma musica fatta da gente di città per gente di città con lo scopo di fare da gioiosa colonna sonora del tempo libero e promuovere la commercializzazione dello stile di vita tecnologico cittadino ed è stata a tutti gli effetti la risposta giapponese al synth pop e alla disco.

Quello che accomuna comunque tutte le produzioni di questa “fabbrica del buonumore” sono melodie d’impatto (rilassanti o energetiche che siano), suoni scintillanti e levigati, estrema cura degli arrangiamenti e della produzione e musicisti di grandissima competenza, per lo più provenienti dalla scena jazz e fusion giapponese con collaborazioni di musicisti occidentali perlopiù americani, così come avveniva per la fusion del periodo.

Musicalmente, venivano applicate tecniche di scrittura e arrangiamento relativamente avanzate – come gli accordi di settima maggiore e diminuiti – che sono tratte direttamente dall’ easy jazz e dal soft rock americano dell’epoca come quello di Chicago, Steely Dan e Doobie Brothers.

Haruomi Hosono

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L’album Tropical Dandy di Haruomi Hosono

La popolarità di questa musica raggiunse livelli tali da essere ovunque, inserita persino nelle colonne sonore degli anime, film, programmi tv e in seguito dei videogames, grazie all’influenza che ebbe sulle band fusion jazz strumentali come Casiopea e T-Square, che successivamente influenzarono a loro volta la musica dei videogiochi giapponesi.

Il City Pop andava quindi a gonfie vele e funzionò come un motore perfettamente oliato finché la crisi del 1991 e l’arrivo dell’epoca “grunge” fecero crollare il mercato e molti giovani giapponesi che erano cresciuti con questo tipo di musica iniziarono a considerare il city pop come scadente, mainstream e usa e getta, arrivando al punto di chiamarlo ‘pop di merda’ preferendogli la tipica depressione grungiana del periodo e facendolo finire in uno iatus di vent’anni interrotto dalla rinascita del 2010 con l’epoca delle ristampe e in seguito dei nuovi dischi dei patron del genere.

Gli artisti della City Pop – alcuni esempi

Abbiamo già parlato del “Re” della City Pop, Tatsuro Yamashita, che spesso ha lavorato in coppia sia con la moglie Mariya Takeuchi, altro asso di questa musica, che con la ex collega degli Sugar Babe, Taeko Onuki.

Yamashita, grande perfezionista che non ha mai smesso di produrre musica in proprio e produrre altri artisti, tra i tanti brani vede il suo cavallo di battaglia nella celebre Ride on Time, punto di riferimento delle compilation di City Pop che nel 1980 lo portò al numero 3 delle classifiche lanciandolo definitivamente come star principale del genere.

Mariya Takeuchi e Tatsuro Yamashita

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Ride On Time

Mariya Takeuchi ha scritto brani praticamente per tutti, come interprete è sempre stata prodotta dal marito Yamashita e nel 1984 sfornò la celebre Plastic Love.

Considerata la canzone portabandiera del genere, è un autentico sfoggio di classe compositiva e arrangiativa che vide una seconda vita con il remix del 2017 e il relativo mini film che venne rapidamente diffuso tramite l’algoritmo di YouTube, tornando subito alla ribalta nei circuiti internazionali.

La Takeuchi dice del suo brano: «Volevo realizzare una canzone che fosse al tempo stesso rock, folk, country, ma che fosse anche ballabile, qualcosa con un sound tipico da City Pop.

Il testo racconta la situazione sentimentale di una donna che ha perso l’amore dell’unico uomo veramente importante per lei.
Non importa quanti altri uomini la corteggino; lei non è in grado di scrollarsi di dosso la sensazione di amarezza e solitudine che questa perdita le ha lasciato e sente ogni flirt come una triste finzione».

L’ipnotico potere della tristezza mescolato con una base musicale apparentemente felice… ma niente è davvero felice in questo brano: è lo stile giapponese ed è incredibilmente perfetto 💙

L’attrice Sawa Nimura nel video di Plastic Love 2017

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Plastic Love 2017

Minako Yoshida non è molto conosciuta ma vede la sua forza nell’essere la principale coautrice di Yamashita, il quale ha messo il suo tipico tocco da produttore preciso e geniale nell’arrangiamento di Town, un muro funk pulsante e ricco sia nella parte strumentale che nella potenza vocale e nei cori, il tutto coadiuvato da sax urlanti, interventi chitarristici lancinanti e sirene in una una sorta di potente risposta giapponese a Chaka Khan.

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Town

Noriko Miyamoto, forte di una splendida voce jazz dal timbro morbido e potente, debutta nel 1978 con l’album Push, scritto e suonato dal grande contrabbassista Isao Suzuki dal quale segnaliamo la notevole My Life con testo di Kazumi Yasui, affascinante liricista e poetessa, già autrice nel 1971 dell’album di poesia musicata Zuzu.

My Life, che troviamo in chiusura dell’album, è un morbido e notturno brano jazz funk ricco di meravigliosi vocalizzi black e improvvisazioni di contrabbasso, chitarra e piano elettrico. Un classico istantaneo, effervescente compagno di romantici brindisi al chiaro di luna.

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My Life

Masayoshi Takanaka dopo aver fondato la folle Sadistic Mika Band scelse una fruttuosa carriera da solista diventando famoso come chitarrista leader, quasi una sorta di risposta giapponese a Santana con il quale condivide anche l’uso della Yamaha SG 2000 e di sonorità molto simili pur essendo la sua musica molto più orientata verso pop, sapori brasiliani e folle sperimentazione con largo impiego di sintetizzatori e cori.

E’ forse più conosciuto e apprezzato per i suoi intensi live che per i fantastici dischi fusion ricchi d’inventiva che ha prodotto tra la fine dei ‘70 e la metà degli ‘80.

Ma per restare in ambito City Pop portiamo come esempio questa splendida versione di live di Nagisa Moderato.

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Nagisa Moderato

Char è un altro pezzo da 90 del chitarrismo nipponico.
Amato come un eroe nazionale dal proprio popolo e dai colleghi, è in effetti un chitarrista dotato di grandissimo impatto e carisma che, pur avendo avuto il suo unico grande successo commerciale nel suo album di debutto del 1976, fa ancora il soldout nelle arene.

Smoky è un grande pezzo di funk al fulmicotone con staffilate di chitarra satura.

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Smoky

Smoky live (1978)

CASIOPEA, la mitica band jazz fusion guidata dal chitarrista Issei Noro e che ha da sempre una forte connessione sia con la corrente City Pop che con gli strumenti Yamaha, nel 1980 diede alle stampe l’inossidabile classico Make Up City da cui è tratta l’energica Twinkle Wing, uno dei più begli esempi di brano strumentale che si appoggia al City Pop e da cui deriveranno la musica per anime e videogames.

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Twinkle Wing

Midnight Rendezvous

Miki Matsubara nel 1980 diede un ottimo esempio del periodo di transizione tra il morbido disco funk e la City Pop tecnologica degli anni ’80 con un altro grande classico, Stay With Me, suo più grande successo di un carriera purtroppo breve essendo venuta a mancare ancora giovane.

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Stay With Me

Makoto Matsushita, assurdamente semisconosciuto, è un chitarrista di grande abilità nonché davvero ottimo compositore di musiche e canzoni con uno stile intimista tutto suo.

Mentre ha lavorato molto come turnista e collaboratore in vari progetti, di notevole classe e bellezza ma molto poco conosciuti ai giapponesi stessi sono i suoi purtroppo pochi album solisti, due dei quali contengono brani perfettamente ascrivibili alla City Pop, risultando forse gli unici dischi concept di questo movimento musicale.

I due album, peraltro assai diversi dai tipici brani City Pop pur essendolo a tutti gli effetti, sono First Light e The Pressures and The Pleasures (una sorta di concept intimista sulla città e la stressante e solitaria vita dei manager) dai quali segnaliamo This Is All I Have for You e Carnaval: The Dawn.

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This Is All I Have for You

Carnaval: The Dawn

Mai Yamane, dotata di una splendida voce soul, esordì nel 1980 con Tasogare, grande album prodotto, arrangiato e suonato da Makoto Matsushita

Divenuta nel tempo cantante affermata, la Yamane si trasformò in musicista di culto alla fine degli anni ’90 grazie alla sua partecipazione alla colonna sonora del celebre anime Cowboy Bebop, del quale interpretò anche lo splendido brano di chiusura The Real Folk Blues.

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Tasogare

The Real Folk Blues

Akira Inoue, mentore di altri noti artisti del settore, nel 1983 ci da un perfetto esempio di come la New Wave possa entrare nel campo City Pop con grande classe e movimento emotivo con la sua Samayoeru Holland-jin no you ni.

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Samayoeru Holland-jin no you ni

Eiko Miyagawa alias Epo. Personalità poliedrica e fascinosa, Epo è una sorta di musa che è lei stessa creatrice.

Protetta della coppia Yamashita/Takeuchi e diventata nome di culto nell’ambito pop del suo paese, è sia musicista compositrice che terapeuta.
Musicalmente ha spaziato tra il city pop, la new wave, l’autoriale e il J-pop più strambo.

Il suo brano Escape è frizzante come un pezzo di Hall&Oates cantato con lo stile della Corinne Drewery degli Swing Out Sister che qua pare però aver anticipato di qualche anno.

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Escape

Motoharu Sano è una delle figure di riferimento della musica rock giapponese e un musicista eclettico per il quale il City Pop ha rappresentato solo un momento di passaggio e la sua Tonight del 1984, che lo rispecchia appieno, sembra un divertente mix tra la sigla di un anime e un pezzo di Billy Joel.

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Tonight

Yasuhiro Abe debuttò nel 1983 con questa divertente We Got It che sembra un pezzo nello stile AOR beatlesiano degli Utopia del periodo ‘80-’82, come se fosse un brano di Deface the music o di Swing to the right o di Utopia cantato in giapponese.

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We Got It

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La Terra Silenziosa

La Terra Silenziosa (1985) – La fine è solo l’Inizio

By Cinema, Personaggi StoriciOne Comment

Il 5 luglio inizia come una normale mattina d'inverno vicino a Hamilton, in Nuova Zelanda. Alle 6:12, il sole si oscura per un momento e in un lampo si scorge brevemente una luce rossa circondata dall'oscurità e una sensazione di “particelle” in movimento. Con questa forte sensazione impressa nella mente Zac Hobson si sveglia dal suo sonno. Accende la radio ma non è in grado di ricevere alcuna trasmissione. Si veste e si dirige alla volta della città, che trova deserta. Sul luogo di un incendio scopre il relitto in fiamme di un aereo passeggeri ma a bordo ci sono solo sedili vuoti. Ogni essere vivente umano e animale sembra essere svanito di colpo.
Così inizia il film La Terra Silenziosa.

The Boss

Nel 1985 il regista Geoff Murphy dirige un bel film il cui finale è stato per anni introvabile in edizione italiana e che è tratto liberamente da un racconto di Craig Harrison che per anni è stato ancora più raro, persino nell’edizione originale neozelandese: La Terra Silenziosa (The Quiet Earth).

Si tratta di un film pregno di significati metafisici ma che può essere facilmente guardabile da chiunque, pur risvegliandogli un forte senso di estraniamento e di incanto ed è proprio così che il cinema surreale dovrebbe funzionare sulla mente umana.

E’ doveroso far presente che essendo questa una analisi dettagliata anche e soprattutto della parte simbolica del film, saranno presenti SPOILER continui perciò si raccomanda la visione del film prima di leggere quanto segue.

Murphy, assistito alla prima unità dalla futura star Lee Tamahori, si avvale della prova di un ottimo Bruno Lawrence (anche coautore della sceneggiatura con Bill Baer e Sam Pillsbury), perfettamente a suo agio nella parte del protagonista Zac Hobson, uno scienziato profondamente deluso e amareggiato dalla sua vita e dal suo stesso lavoro a cui fanno da spalla gli unici altri due attori che diventano a loro volta forzatamente coprotagonisti: la rossa Alison Routledge e il Maori Peter Smith.

A partecipare al donare questo senso di incantata irrealtà contribuiscono l’ottima fotografia di James Bartle e le ovviamente pochissime musiche evocative di John Charles.

Sinossi

Solo?

Il 5 luglio inizia come una normale mattina d’inverno vicino a Hamilton, in Nuova Zelanda.

Alle 6:12, il sole si oscura per un momento e in un lampo si scorge brevemente una luce rossa circondata dall’oscurità e una sensazione di “particelle” in movimento.

Con questa forte sensazione impressa nella mente Zac Hobson si sveglia dal suo sonno.
Accende la radio ma non è in grado di ricevere alcuna trasmissione. Si veste e si dirige alla volta della città, che trova deserta.

Sul luogo di un incendio scopre il relitto in fiamme di un aereo passeggeri ma a bordo trova solo sedili vuoti. Ogni essere vivente umano e animale sembra essere svanito di colpo.

Si scopre che Hobson è uno scienziato impiegato alla Delenco, parte di un consorzio internazionale guidato dagli Stati Uniti che lavora sul “Progetto Flashlight“, un esperimento volto a creare una griglia energetica globale wireless atta ad alimentare le apparecchiature militari.

Zac arriva alla Delenco, ma non riesce a contattare nessuno degli altri laboratori situati in tutto il mondo.
In un laboratorio sotterraneo scopre il cadavere di Perrin, il suo superiore, e nel pannello di controllo principale della griglia Flashlight un monitor visualizza il messaggio “Operazione Flashlight completata”.

La scomparsa di massa sembra coincidere con il momento in cui è stata attivata la griglia del Flashlight da Perrin.
Il laboratorio viene improvvisamente automaticamente sigillato a causa delle radiazioni, Zac quindi improvvisa una bomba a gas per tentare di uscirne.

Egli tiene un diario su nastro che incide su un registratore portatile e dal quale si viene a conoscenza del fatto che lui fosse già in rotta con la Delenco, che accusa di occultare volutamente i dati di un progetto che lui definisce come dotato di un “potenziale distruttivo fenomenale”, situazione dalla quale dice mestamente di intravedere “un’unica via d’uscita”, quindi osserva:

«Zac Hobson, 5 luglio. Primo: c’è stato un malfunzionamento nel Progetto Flashlight con risultati devastanti. Secondo: a quanto pare sono l’unico sopravvissuto sulla Terra.»

Si riferisce al fenomeno come “l’Effetto“.

 

Dopo una settimana di disperati tentativi di contattare sopravvissuti, Zac si trasferisce nella villa di un quartiere signorile ma il suo stato mentale inizia a deteriorarsi per l’improvvisa e inaspettata solitudine.

Va a giro per centri commerciali a fare incetta o distruggere quello che trova, alterna euforia e disperazione e una sera, rendendosi conto del fatto che probabilmente non rivedrà mai più una donna, indossa una camicia da notte femminile e davanti ad un’assemblea di figure in cartone di politici e celebrità varie, tra fanfare ed esultazioni di folla registrate, tiene un amareggiato discorso dal balcone:

«Io ho dedicato tutte le mie conoscenze e capacità scientifiche per progettare qualcosa che sapevo poteva essere usata a scopi nocivi.
“Per il bene comune” mi dicevano.

Com’è facile credere nel bene comune quando tale convinzione è ripagata con lo ‘status’… la ricchezza… e il potere!
E’ difficile credere nel bene comune quando ogni fibra del mio essere mi dice che le forze spaventose che ho creato sono state messe nelle mani di questi pazzi!

Sono stato ingannato dal vomito della mia stessa corruzione!
Non è quindi normale che io sia il Presidente di questa Terra Silenziosa? Sono condannato a vivere…».

Su queste parole cala il blackout energetico.
Il giorno dopo, preso da un attacco di disperazione, irrompe in una chiesa, spara alla statua di Gesù sul crocifisso, distrugge l’impianto voci del pulpito e dichiara:

«E ora sono io Dio».

Poi inizia a distruggere tutto con un escavatore e, dopo aver schiacciato accidentalmente una carrozzina vuota, si mette in bocca la canna del fucile e la scena si chiude su una delle esplosioni provocate da lui attorno a sé.
Questo evento forse serve a spezzare la sua follia.

La scena si riapre su Zac che schizza nudo fuori dal mare e corre sulla spiaggia di uno splendido scorcio di costa neozelandese: forse un nuovo inizio.

Un Nuovo Inizio?

Venti giorni sono passati dall’Effetto e Zac si è stabilito in una villa sulla costa, munendosi di generatori a gasolio e adottando una routine più normale, pur continuando a monitorare lo stato del sole.

Una mattina d’improvviso appare alla sua porta una giovane donna di nome Joanne, i due si abbracciano e Zac finalmente si scioglie mormorando «Finalmente ho trovato qualcuno», Joanne annuisce maternamente.

I due si raccontanto le rispettive esperienze e Zac realizza che «Qualcosa è cambiato, non so cosa ma me lo sento. E’ come se fossimo stati spostati altrove, il polo nord è ancora a nord ma l’acqua del rubinetto scende nello scarico nel senso sbagliato.
Mi sa che… o siamo morti o siamo in un altro universo.»
«Sei anche tu di un altro universo? Sei una donna… o una bambina?» le chiede sommessamente mentre lei si è appisolata.

Joanne è una ragazza vitale e con una mente peculiare che le fa elaborare teorie interessanti anche sulla fisiognomica e l’attrazione animica, Zac è molto affascinato da lei e dopo pochi giorni fanno l’amore.

Altri strani effetti fisici sulla materia continuano a verificarsi e, nonostante sia preso da un nuovo entusiasmo vitale grazie alla presenza della giovane, l’uomo continua i suoi test di monitoraggio realizzando che la carica degli elettroni è cambiata e sta adesso oscillando tra due valori, aumentando continuamente l’ampiezza di tale oscillazione e rendendo di conseguenza fortemente instabile la composizione della materia.

Quando la vita di Zac pare essersi finalmente stabilizzata con Joanne accanto, durante una delle loro scorribande esplorative in città egli trova un terzo sopravvissuto, un uomo Maori di nome Api dal quale Joanne rimane subito attratta.

I tre determinano il motivo per cui sono sopravvissuti: nell’istante dell’ Effetto, erano tutti nel momento della morte: Api stava annegando durante una lite, Joanne era stata fulminata da un asciugacapelli difettoso e Zac era in overdose di pillole in un tentativo di suicidio a causa dei sensi di colpa per i pericoli creati dal suo progetto.

La scoperta del suo corpo, con accanto il suo ID di laboratorio e il registratore, avrebbe avuto la conseguenza di esporre il Progetto Flashlight e terminare l’esperimento prima che fosse troppo tardi.

 

Zac

Joanne

Api

Si sviluppa un triangolo amoroso che non manca di incomprensioni e gelosie ma Zac è adesso più preoccupato che mai per le sue osservazioni scientifiche: le costanti fisiche universali stanno cambiando, facendo fluttuare l’uscita del Sole e diventando altamente instabile.

Zac teme che l’effetto si ripresenti (e che il Sole crollerà presto in ogni caso e cancellerà la Terra) e Api ne da una possibile spiegazione: se la griglia dello Spotlight è ancora attiva e destabilizza continuamente il sole, l’eliminazione della struttura eliminerebbe la griglia, scongiurando il pericolo.

I tre mettono da parte i loro conflitti personali e decidono di distruggere il laboratorio Delenco portando un camion carico di gelignite all’installazione dello Spotlight ma si fermano al perimetro quando Zac rileva livelli pericolosi di radiazioni ionizzanti emanate dall’impianto.

Dice che andrà in città per recuperare un dispositivo di controllo remoto per inviare il camion nella struttura.

In assenza di Zac Joanne e Api fanno l’amore e in seguito, Api dice a Joanne che sarà lui a guidare il camion; dubita che il dispositivo di Zac sarà in grado di controllare il veicolo e sente che debba essere lui a sacrificarsi.

Poi sentono il rumore del camion: Zac aveva solo inventato una scusa per poter pagare il suo debito per la mostruosità che ha creato.

L’uomo guida il camion sul tetto del laboratorio indebolito dalla bomba a gas che crolla e, proprio mentre si verifica il Secondo Effetto, fa esplodere la gelignite.

E di nuovo…

Ancora una volta, si vede una luce rossa brillante in fondo ad un tunnel buio pieno di “particelle” in movimento.

Zac si sveglia su una spiaggia al crepuscolo.
Ci sono strane formazioni nuvolose, simili a trombe d’acqua, che emergono dall’oceano.
Cammina fino al bordo dell’acqua poi vede un enorme pianeta inanellato sorgere lentamente all’orizzonte.

Essendo l’unico sopravvissuto a questo nuovo Effetto, Zac osserva confuso e disperato ciò che lo circonda e lo attende.

Un’analisi esoterica del film

 

Si può facilmente interpretare il film come una discesa nel limbo, un purgatorio a più livelli: Zac potrebbe effettivamente essere morto in seguito al suicidio e trovarsi animicamente auto-segregato in un luogo di mezzo dove affrontare le conseguenze del gesto e capire esperendo che non è scappando che si risolve una responsabilità come quella che sente di avere.

Potrebbe in seguito non aver retto alla solitudine del luogo senza tempo dove si trova e aver tentato la fuga tirando davvero il grilletto al momento in cui si è posto la canna del fucile in bocca ed essersi ritrovato in un altro limbo nel quale sono arrivati in suo soccorso i due spiriti guida Joanne e Api.

I due paiono incarnare in effetti rispettivamente lo yin e lo yang e agiscono quasi come due genitori esoterici nei suoi confronti, lei donandogli con accoglienza l’affetto, la bellezza “venerea” e il calore materno e lui, con il suo incedere affettuoso ma “marziale” (notare che è sempre abbigliato da militare ed è esperto di quell’ambiente e dei suoi mezzi e materiali), dandogli protezione e porgendogli la soluzione al dilemma che lo dilania: poter rimediare al suo karmico senso di colpa.

C’è un punto nel quale Zac ha la forte sensazione che Api e Joanne si conoscano da sempre e allo stesso tempo che in quel mondo esista solo lui e che loro due siano un parto della sua mente, al che Api (che già in precedenza aveva dichiarato la sua sensazione di essere uno spirito) improvvisamente dice a Joanne che lei potrebbe essere una Patupaiarehe e che in tal caso Zac avrebbe ragione a pensare che loro due in realtà non esistano.

Nella tradizione Maori i Patupaiarehe sono “il popolo fulvo della notte(perché sensibili alla luce), esseri soprannaturali dalla carnagione pallida e dai capelli biondi o rossi posti a guardia dei segreti della Terra e che hanno da sempre un fortissimo legame animico con i Maori stessi (da notare il profondo dolore di Joanne per la scomparsa del genere umano e anche il fatto che nella scena dove i tre si incontrano per la prima volta lei indossi un costume da fata).

 

 

Patupaiarehe – Illustrazione di Isobel Joy Te Aho-White

Gli errori di Zac a questo punto sono la gelosia cieca che gli ha fatto travisare il ruolo dei due spiriti amici e il voler risolvere in maniera matericamente rapida (senza cioè darsi il tempo di affrontare, esperire ed elaborare) il suo debito karmico verso l’umanità: non accettando i ruoli dei due spiriti tenta la via di fuga per la terza volta facendosi esplodere, finendo invece stavolta alle porte di un autentico inferno.

Unico sopravvissuto poiché morto durante il Secondo Effetto è adesso alle prese con un mondo che è pieno di pericoli annunciati già dal suo arrivo: cataclismi naturali (che rappresentano dolori karmici potenziati da dover per forza affrontare) e l’annunciarsi di Saturno, Signore dell’astrologia karmica e che rappresenta il bagaglio di limitazioni che un individuo si porta appresso, alla nascita, dalle incarnazioni precedenti del proprio spirito.

E’ comprensibile che il povero Zac si trovi adesso perso e disperato poiché si trova ad affrontare, tutte assieme, le difficili prove che ha sfuggito finora.

La soluzione per lui è capire che ogni prova se l’è inviata da solo con lo scopo di proseguire il proprio cammino evolutivo: realizzato questo troverà finalmente il coraggio di risolvere i suoi nodi karmici e proseguire il suo cammino di maturazione interiore.

Oppure, come suggerito dal romanzo di Harrison, potrebbe essere tutto un premonitore “Sogno dentro a un sogno” (Nolan ne sa qualcosa e prima di lui Herk Harvey con il suo Carnival of Souls).

Da notare che nel finale del racconto di Harrison, Hobson (che nel libro si chiama John) si risveglia dal “sogno” e nota che anche nella “realtà” l’orologio si è fermato alle 6:12 come all’inizio della storia.

Da un punto di vista numerologico molto spicciolo si nota una persistenza del 6.

L’ora 6:12 si riferisce al Numero della Bestia, 666 (6–12 = 6 e 6 più 6) e ad Apocalisse 6:12, con il discorso del capitolo biblico degli uomini che si nascondono dal volto di Dio: verso la fine della sua solitudine Zac dichiara di essere diventato lui stesso Dio ma come vedremo in seguito si tratta in realtà una falsa presa di coscienza di sé, poiché probabilmente si è di nuovo suicidato per sfuggire alla solitudine e comunque anche nel seguito non assume né le responsabilità e nemmeno l’accettazione della solitudine che il lavoro su di sé porta.

Non a caso il numero 6 si ripropone nel film durante la ricerca di sopravvissuti: il cartellone che Hobson lascia come appello, solamente di numeri, contiene almeno due somme che danno un doppio 6 (numero indirizzo sommato alle cifre del numero telefonico ovvero 396121 e 2 cioè 22 + 2 ovvero 2+2+2= 6 oppure 24+2=6 e il prezzo nell’angolo in alto a sinistra ovvero $ 1.50 e cioè 1+5=6) ai quali si possono aggiungere le cifre della falsa legge da lui recitata al megafono dell’auto di polizia per far uscire allo scoperto eventuali superstiti (legge 366025 art. 2 ovvero 22 e 2, 2+2+2=6 oppure 24 ovvero 2+4=6).

Mi fermo qua e lascio al lettore il compito di approfondire ulteriormente.

 

Conclusioni

 

Il romanzo risulta ancora più incentrato sul pessimismo, pregno di paranoia e isolamento rispetto al film poiché il personaggio di Joanne praticamente non esiste e non è presa in considerazione nessuna forma di spirito guida e Matrimonio Alchemico ma è al contrario molto “inglese” e immerso nella codardia e meschinità umana, molto di stile “ballardiano” in questo (Craig Harrison è un inglese trasferito in Nuova Zelanda).

La Terra Silenziosa rappresenta il film della vita per Geoff Murphy e gli aprirà le strade di Hollywood per quella che sarà una carriera di tutto rispetto come regista di genere e che gli permetterà di lavorare con alcuni degli attori più iconici del periodo ma che logicamente non vedrà mai la creazione di un altro film di questa caratura e profondità.

E’ un film molto ermetico, occorrono deduzione e chiavi di lettura che si acquisiscono con la ricerca, lo studio e talvolta “incontri fortunati” sul proprio cammino.

Quello che regista e produzione non ci hanno detto è che il film, più che un estratto fedele del romanzo di Harrison, è piuttosto un mix tra quello e una rielaborazione del film del 1959 “La fine del mondo” che è a sua volta tratto dal romanzo del 1901 “La nube purpurea” di M.P. Shiel, molto apprezzato sia da Welles che da Lovecraft.

La terra silenziosa è in assoluto uno dei film da me preferiti e un altro fatto peculiare è che io possegga da molti anni, senza peraltro ancora averlo letto, il romanzo “La nube purpurea”, acquistato usato ad una bancarella poiché attratto dal titolo.

Solo un’altra conferma che in questa esperienza chiamata Vita nessun accadimento è casuale.

 

Edizione originale del romanzo di Craig Harrison

Locandina del film

“La Terra Silenziosa (The Quiet Earth)” (NZ 1985) di Geoff Murphy

Regia Geoff Murphy
Soggetto e sceneggiatura Bill Baer
Bruno Lawrence
Sam Pillsbury
Produzione Sam Pillsbury
Don Reynolds
              Interpreti Bruno Lawrence
Alison Routledge
Peter Smith
Fotografia James Bartle
Montaggio Michael J. Horton
Musiche John Charles
Compagnie di produzione
  • Cinepro
  • Pilsbury Productions
  • Mr. Yellowbeard Productions Limited & Company
Data di uscita

18 October 1985 (US)

Durata
91 minuti

 

Candidature e premi

Avoriaz Fantastic Film Festival 1986

Nominee
Grand Prize
Geoff Murphy

Fantafestival 1986

Winner
Best Actor
Bruno Lawrence
Winner
Best Direction
Geoff Murphy

New Zealand Film and TV Awards (I) 1987

Winner
Film Award
Best Film
Don Reynolds
Sam Pillsbury
Best Performance, Male in a Leading Role
Bruno Lawrence
Best Performance, Male in a Supporting Role
Pete Smith
Best Director
Geoff Murphy
Best Screenplay – Adaptation
Bill Baer
Sam Pillsbury
Bruno Lawrence
Best Cinematography
James Bartle
Best Editing
Michael Horton
Best Production Design
Josephine Ford

Trailer del film La Terra Silenziosa

Il film La Terra Silenziosa (purtroppo con colonna sonora inziale cambiata)

Micro Synthesizer

Electro-Harmonix Micro Synthesizer: Mr. Growly!

By Pedali Vintage, Personaggi StoriciNo Comments

Immagina di avere, in un solo pedale, un fuzz versatile, un autowah, un filtro, e un effetto reverse, tutti analogici.
Questo è il mitico Microsynthesizer della Electro-Harmonix, che consente di imitare i toni ciccioni di sintetizzatori vintage come Moog, Oberheim e ARP collegando una chitarra, un basso o un qualsiasi altro strumento.

Daniele Pieraccini

Immagina di avere, in un solo pedale, un fuzz versatile, un autowah, un filtro, e un effetto reverse, tutti analogici.
Questo è il mitico Microsynthesizer della Electro-Harmonix, che consente di imitare i toni ciccioni di sintetizzatori vintage come Moog, Oberheim e ARP collegando una chitarra, un basso o un qualsiasi altro strumento.

Come molti altri pedali della Electro Harmonix (vedi Small Stone ed Electric Mistress), il Micro Synthesizer è stato sviluppato da David Cockerell, un ingegnere elettronico e designer precedentemente impegnato nel mondo dei sintetizzatori (suo è il Synthi VCS3, tra gli altri) e qualche anno dopo designer di campionatori alla Akai, prima di fare ritorno alla società newyorkese di Mike Matthews.

Le Versioni

V1

La prima versione del Micro Synthesizer esce nel 1979.

Questo modello non ha un interruttore di accensione/spegnimento sul retro e lo switch di attivazione a pedale si trova sul lato sinistro. A differenza delle versioni successive, non è presente un LED e l’onda quadra è etichettata come distorsione.

Electro Harmonix lo presenta con due circuiti stampati uno sopra l’altro (come il V2 e il V3). Uno per il circuito di base e un altro che contiene gli slider e collega i controlli alla scheda madre.

V2

Negli anni ottanta esce la seconda versione, la prima con un interruttore di accensione/spegnimento sul retro e un LED. Lo switch a pedale si è spostato a destra ma, come il Micro Synthesizer originale, il V2 ha un alimentatore integrato nello chassis.

V3

Il decennio successivo EHX introduce la terza versione del pedale, usando gli stessi componenti delle precedenti. Nel frattempo però Panasonic interrompe la produzione dei chip analogici utilizzati, fatto che costringe Mike Matthews ad acquistare tutta la scorta rimanente dei suddetti componenti per questa reissue per poi sospendere la produzione una volta esaurita la scorta.
La versione 3 è la prima con un alimentatore separato da 24v.

Questa è la versione del pedale da me usata.

Nello stesso periodo è lanciata anche la prima versione per basso del pedale. Devo aggiungere che, pur essendo principalmente un bassista, non l’ho mai provata e non ne ho mai sentito la necessità, soddisfatto della versione normale in mio possesso.

V4 XO Micro Synth

Ancora un decennio ed eccoci alla versione in commercio tuttora.

Si tratta di un progetto di revisione drastica, presentato in una scatola in alluminio stampato anzichè la classica in lamiera di acciaio piegato, più piccola dell’originale e con una tipica alimentazione esterna a 9v, caratteristiche che rendono questa edizione più adatta alle pedaliere.

La qualità costruttiva dei prodotti EHX è però considerevolmente calata negli ultimi venti anni, con una tendenza ad economizzare e con delle caratteristiche progettuali discutibili.
Il circuito è assemblato con la tecnologia a montaggio superficiale (SMD).

La V3 recensita

I Suoni

Dal confronto tra le varie versioni emergono alcune differenze. In base all’esperienza personale e alle testimonianze raccolte in rete possiamo dire che:

  • Le prime due versioni hanno un suono di square wave fantastico, molto caldo e potente.
  • Il sub ottava è invece debole, tracking e bypass per gli standard odierni lasciano a desiderare.
  • La versione 3 è dotata di una distorsione meno pesante ma offre un sub ottava più presente e avvolgente. Tracking e bypass sono migliorati decisamente.
  • La versione più recente, Micro Synth XO, ha il sub più potente delle altre e i vantaggi sopra accennati legati all’alloggio in pedaliera e alla praticità dei 9v di alimentazione, ma presenta una distorsione (square wave) decisamente debole e forse non più definibile come fuzz. Inoltre alcuni lamentano una mancanza di sustain ignota ai modelli vintage. Il voltaggio più basso sicuramente influisce sulla corposità del suono.

I Controlli

Un trimmer sul retro del pedale consente di impostare la sensibilità dell’unità per pickup single coil o humbucker, mentre tutti i controlli importanti si trovano sulla parte anteriore, sotto forma di cursori.
Questi sono divisi in due gruppi, voice mix e filter sweep, oltre ad un paio di slider per regolare l’attacco della nota e il livello del segnale che attiva l’effetto (trigger).

In breve, la sezione voice è formata da un sub octave; un segnale “pulito”, in realtà molto secco e colorato dal preamplificatore del pedale; un octave stile Octavia di Roger Mayer e un onda quadra molto fuzz vintage. Questi quattro controlli possono essere mescolati in parallelo a piacimento, anche se soltanto il segnale del clean tollera l’esecuzione di accordi senza degenerare in distorsioni alquanto irregolari.

Il controllo attack decay consente di intervenire aumentando automaticamente il volume e generando effetti di archi e suoni riprodotti al contrario da qualche nastro in uno studio anni sessanta.
La sezione filtro prevede altri quattro controlli: risonanza, frequenza di partenza, frequenza di arresto e rate, che regola la velocità di passaggio tra le due precedenti.

Con questo pedale è possibile ottenere una gamma di suoni vastissima, dal moog al basso fretless, dai soli alla rovescia ai fuzz più spinti, dai filtri “vocali” ad altre stranezze difficilmente riproducibili con altri mezzi. Le timbriche ottenute possono trovare posto in generi musicali vintage come in contesti rock, elettronici, techno o hip hop.

Le Magagne

  • Il circuito analogico esclude la possibilità di avere dei preset (a questo ho trovato rimedio preparando delle mascherine per memorizzare i suoni preferiti, come si faceva con i synth vintage, appunto).
  • Le note singole sono decisamente da preferire, se si vogliono evitare “strilli” improvvisi o sparizioni del suono.
  • Il tracking può rivelarsi, a seconda dei setting usati, non sempre affidabile: per questo e per altri motivi la tecnica ed il tocco sono fondamentali e vanno aggiustati a seconda del suono usato.
  • Il rumore di fondo e la qualità del bypass sono altri due punti a sfavore citati da molti. Con il modello in mio possesso non ho mai avvertito molto il primo, riguardo al bypass la qualità non è ottimale e ho preferito inserire il pedale in un loop effetti. Questa soluzione offre anche altri vantaggi, per esempio quello di miscelare il segnale pulito con quello effettato dal Micro Synth.

Il Micro Synthesizer

Un oggetto assurdo ma dai suoni caldi, credibili e convincenti che, uniti alla sua enorme versatilità, fanno sì che il gioco valga veramente la candela.

Chiedere informazioni a Beck, Korn, Strokes, Van Halen, Muse, Sonic Youth, Parliament/Funkadelic, Red Hot Chili Peppers, solo per citare alcuni degli estimatori di questo gioiello.

 

Le tracce audio del video dimostrativo sono state eseguite con:

Chitarra – Eko 100
Basso – Westone Spectrum
Electro Harmonix Micro Synthesizer V3
Simulazione ampli, reverberi e delay di Mixcraft

Demo del suono del Micro Synthesizer

GUARDA e ASCOLTA il video del brano demo realizzato da Classic2vintage con i suoni del Micro Synthesizer V3 

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Keith Mansfield – Our Coming Attraction

By Cinema, Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Keith Mansfield, famoso per la sua Funky Fanfare resa celebre da Quentin Tarantino con i film Kill Bill e Grindhouse, è un compositore anglosassone autore di un sorprendente quantitativo di temi da librerie musicali davvero ottimi, capaci di evocare positività nell’ascoltatore.
Nel settore della cosiddetta Muzak è facilmente considerabile un genio, elevandosi ad un livello superiore rispetto agli altri compositori di quel filone e, con un’impressionante curriculum di oltre 60 album pubblicati in circa 30 anni di carriera, anche uno dei più prolifici di sempre.

Lorenzo

Mansfield, classe 1941, londinese, negli anni ’60 e ’70 è stato una figura fondamentale nella scena musicale delle librerie musicali anglosassoni e ha registrato un grande numero di brani per l’etichetta specialistica KPM (iniziali di Keith-Prowse-Maurice, allora divisione della EMI).

Nel settore della cosiddetta Muzak è facilmente considerabile un genio, elevandosi ad un livello superiore rispetto agli altri compositori di quel filone e, con un’impressionante curriculum di oltre 60 album pubblicati in circa 30 anni di carriera, anche uno dei più prolifici di sempre.

Le sue capacità compositive spaziano agilmente dal funk e soul di “Morning Broadway”, “Bogaloo”, “Exclusive Blend”, “Big Shot”, “Soul Thing” (che verra poi trasformata appunto nella celebre Funky Fanfare) alla disco di “Night Bird”, alle allegre ed energiche sigle televisive come Grandstand per la BBC. “Teenage Carnival” (che venne utilizzato come tema della serie televisiva per ragazzi degli anni ’60 Freewheelers), “The Young Scene” (nel 1968 sigla del programma calcistico The Big Match), “Light and Tuneful” e “World Champion” (utilizzati da BBC e NBC come apertura e chiusura dei campionati di tennis di Wimbledon), “World Series” (usato per le trasmissioni di atletica leggera della BBC), ai lenti atmosferici easy jazz di classe come “Je Reviens”, “Life of Leisure”, “Love De Luxe”, alle contaminazioni world music/jazz come la bellissima “Husky Birdsong”, alle svolte synthpop come le fantascientifiche “Superstar Fanfare” e “High Profile”.

Keith Mansfield è probabilmente meglio conosciuto dal pubblico americano per la già citata “Funky Fanfare” che venne usata per sonorizzare la serie di jingle cinematografici psichedelici Astro Daters (“Our Feature Presentation” e “Our Next Attraction” che introducevano i film – “Prevues of Coming Attractions” che introduceva i trailer dei film – “Intermission” che introduceva l’intervallo tra i vari tempi del film), prodotta dal National Screen Service alla fine degli anni ’60.

Gli Astro Daters vennero poi inseriti dal regista Tarantino nei film Kill Bill e Grindhouse, rendendoli famosi e iconici a livello mondiale e con essi anche Funky Fanfare.
Ma l’inossidabile Funky Fanfare è attualmente ancora usata come sigla in vari programmi televisivi e podcast.

Ha anche composto colonne sonore per i film Loot (1970) e Taste of Excitement (1970) e il western Ehi amigo! Tocca a te morire (1971) ma suoi brani da libreria si possono trovare anche in Tuono Rosso (1980), Fist of Fear, Touch of Death (1980) Kung Fu Killers (1981), programmi e serie tv e chissà dove altro.

Gli Astro Daters sonorizzati con Funky Fanfare

Mansfield ha anche scritto la già citata “Superstar Fanfare“, che è stata utilizzata tra le altre (in diverse varianti) da Channel Television nelle Channel Islands, dal programma di notizie di RTL plus 7 vor 7, Worldvision Enterprises e dalla Services Sound and Vision Corporation (SSVC) come jingle identificativo della British Forces TV nella Germania occidentale, Berlino, Cipro, Isole Falkland e Gibilterra negli anni ’80 e ’90.

Nel corso del tempo i suoi brani sono stati coverizzati (tra gli altri Soul Thing, di cui fu fatta una versione vocale da James Royal, “House of Jack”, e una rielaborata nel lento psichedelico “Queen St. Gang” dai canterburiani Uriel/Arzachel di Steve Hillage e Dave Stewart), rielaborati e remixati (Skeewiff, Simon Begg) ma anche campionati e riutilizzati da produttori hip-hop (Danger Mouse, Madlib, Fatboy Slim, Kal Banx).

Molte sue composizioni vengono utilizzate anche dalla NFL per i suoi film monografici delle squadre e i documentari sul Super Bowl e altre vengono usate come sigle di trasmissioni di vario genere.

Mansfield è stato anche produttore (Maynard Ferguson) e arrangiatore e direttore d’orchestra per Dusty Sprigfield (diversi brani dell’album “Dusty… Definitely”) nonchè arrangiatore orchestrale in alcuni successi dei Love Affair (“Everlasting Love“), Marmalade (“Reflections of My Life“) ed altri.
Insomma uno dei musicisti più incredibilmente talentuosi, prolifici e versatili della scena musicale, quelli che rimangono dietro le quinte mentre ti chiedi sempre chissà chi avrà scritto quel piccolo pezzo di musica che ti fa stare così bene e una volta ascoltato non ti esce più dalla mente.

Keith Mansfield in tempi recenti

CLICCA E ASCOLTA la playlist dei brani di Keith Mansfield creata da Classic2vintage per te

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Larry Coryell – Il padrino della Fusion

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Un genio della chitarra che abbiamo perso nel 2017, Larry Coryell.
Insieme a Miles Davis, Weather Report e pochi altri è stato un padre fondatore di quello che oggi conosciamo come jazz-rock o fusion.
Un chitarrista considerato alla pari di nomi come Pat Metheny o John McLaughlin dagli aficionados del genere, ma trascurato dal grande pubblico nonostante dozzine di acclamati album a suo nome e numerose brillanti sessions e registrazioni, alle quali ha prestato il suo vario ed espressivo modo di suonare.

Daniele Pieraccini

«Se mi ascolti attentamente, in qualche modo esce fuori che vengo dal Texas»

Larry Coryell

Nato a Galveston, Texas, il 2 aprile del 1943 come Lorenz Albert Van DeLinder III, sordo congenito all’orecchio destro, Coryell cresce però nell’area di Seattle. All’età di quattro anni siede già al pianoforte; la sua formazione iniziale è classica, ma nell’adolescenza scoprirà la chitarra.
La sei corde lo affascina notevolmente, soprattutto nella versione fingerstyle di Chet Atkins.
Larry prova a copiare i licks che sente alla radio: su tutti quelli di Billy Butler su Honky Tonk, Pt. I di Bill Doggett e di Rick Derringer su Hang On Sloopy.
In quel periodo prende lezioni da John LaChappelle, un jazzista dell’area del Washington State, e si ispira ai dischi di chitarristi come Tal Farlow, Barney Kessel, Les Paul e Johnny Smith.

Tra le sue iniziali influenze Coryell cita anche Chuck Berry, John Coltrane e Wes Montgomery, oltre alla musica pop del periodo, su tutti gli immancabili Beatles.

A fine estate del 1965 Larry prende la sua Gibson Super 400 e due amplificatori, li carica in un Volkswagen Beetle blu e si dirige a New York, luogo che ritiene ideale per concretizzare la sua aspirazione ad entrare nel rock milieu. In realtà la sicurezza nella sua abilità di musicista non è totale, Coryell infatti si è preparato un piano B iscrivendosi all’università di Washington, facoltà di giornalismo.

Nella Grande Mela da subito si tuffa in pieno nelle jam proposte dai locali, suonando ovunque e con chiunque. Coryell è aperto a tutti gli stili ed i generi, pur mantenendo un’attitudine jazz che lo accompagnerà per tutta la vita.
La prima testimonianza su vinile della sua abilità chitarristica la troviamo su The Dealer del quintetto del batterista Chico Hamilton, datato 1965, nel quale Larry prende il posto che fu della sei corde flamboyant dell’ungherese Gábor Szabó, un altro grande innovatore dello strumento (suo lo splendido album Dreams del 1968).

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Chico Hamilton, The Dealer (Impulse, 1966)

«Il più grande musicista che sia mai vissuto per quanto mi riguarda è Jimi Hendrix. Ma lo odio perché mi ha portato via tutto ciò che era mio.»

Larry Coryell

In questo periodo di “apprendistato” di lusso, Coryell si distingue per l’uso di corde piuttosto spesse, alla Chuck Berry e per uno stile innovativo e rumoroso, con un timbro “fat” e quasi distorto, per niente lontano da quello di Jimi Hendrix.
La reputazione che Larry si costruisce all’interno del Greenwich Village lo porta a suonare con tutti i più grandi nomi dell’epoca. All’interno di questa libera ed eterogenea comunità conosce tutti e suona con tutti, sperimenta l’LSD, stringe amicizia con Robbie Robertson e Mike Bloomfield collaborando con musicisti rock-blues come con gli avant-jazzers. Miles Davis, Tony Williams, Buddy Miles, Mitch Mitchell, Stevie Winwood, Jack Bruce…lo stesso Hendrix, nel corso delle sessions effettuate insieme, “carpisce” a Coryell alcuni accordi e tecniche che assimilerà nel suo repertorio.

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The Free Spirits

Nel 1966 entra a far parte dei The Free Spirits, gruppo di matrice jazz che Coryell orienta verso un formato più rock. Il repertorio della band incorpora elementi psichedelici, garage e pop, che fonde in maniera originale nell’album Out of Sight and Sound, considerato come uno dei primi esempi di jazz-rock. Il successo non arriverà mai per la band, che si esibirà, perlopiù ignorata, in molte serate nel club newyorchese The Scene.
Nel 1967 Coryell lascia la formazione per unirsi al virtuoso vibrafonista dell’Indiana Gary Burton, ex Stan Getz Quartet.

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Con Gary Burton

«Le prime registrazioni che suggerivano che una sintesi artisticamente ed esteticamente soddisfacente di jazz e rock fosse possibile»

Larry Coryell

Due anni prima degli esempi nobili di Miles Davis (In A Silent Way) e Frank Zappa (Hot Rats), le regole del jazz-rock iniziano ad essere codificate con Duster e Lofty Fake Anagram, due album dalla grande forza immaginifica prodotti dal quartetto formato da Burton, Coryell, il bassista Steve Swallow ed il leggendario batterista jazz Roy Haynes nel primo LP, sostituito nel sequel da un altro pezzo da novanta dei tamburi, Bob Moses (già nei Free Spirits).
La scaletta di Duster è composta quasi totalmente da brani a firma di Burton, Carla Bley, Mike Gibbs e Steve Swallow e presenta melodie memorabili, costruite su fondamenta armoniche sofisticate, attraversate dal pirotecnico vibrafono suonato a quattro bacchette dal band leader.
Jazz, rock, blues, influenze orientali e altro entrano in collisione in queste tracce; alcune soluzioni possono sembrare datate e rozze oggi, ma l’insieme continua a mostrarci la brillantezza dello spirito di ricerca dell’epoca.
Un lavoro radicale, con il quale il rock inizia a farsi strada un po’ ovunque, nel panorama dei generi musicali.

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One, Two, 1-2-3-4

La chitarra di Coryell ruba talvolta la scena al leader Burton. In One, Two, 1-2-3-4, scritta da lui con Burton, la sua elettrica hollow body va in feedback ed è un principio di incendio musicale quello che ne scaturisce. Altrove Larry è invece espressivo ma misurato, decorando le tracce con il suo stile ibrido.
Nel successivo Lofty Fake Anagram il quartetto prosegue l’esplorazione musicale con eleganza e passione, avvalendosi di una serie di brani originali composti da Burton e Swallow.
L’interplay tra Coryell e Burton è di nuovo sugli scudi, anche se nel missaggio stavolta il volume della chitarra è decisamente più contenuto (l’ego dei musicisti band-leader?).
Intenzionato a proseguire il suo percorso di ricerca, Coryell lascia quindi la band. Gary Burton avrà al suo servizio negli anni a seguire molti altri chitarristi di talento, per citarne un paio Pat Metheny e John Scofield.

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Stiff Neck da Lady Coryell

The Jam With Albert

«Il chitarrista più inventivo e originale dai tempi di Charlie Christian»

Withney Balliett, critico jazz New Yorker Magazine

Oltre a partecipazioni in dischi di altri artisti, Larry sforna album solisti a ripetizione per la Vanguard records, dal primo Lady Coryell (1969) a Planet End (1975), oltre ad un paio di lavori per la Flying Dutchman.

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Wrong is Right da Spaces

Spaces, registrato a fine ’69, è il lavoro più noto. Il disco contiene in embrione quella che sarà la fusion degli anni settanta: tempi dispari, intrecci di chitarre e idee innovative al basso, tutto in bilico tra generi diversi.
Una scorpacciata di chitarre (con Larry troviamo John McLaughlin), sorretta ed arricchita da due nomi come Billy Cobham alle pelli e Miroslav Vitous al basso.

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Souls Dirge, da Fairyland

Call to the higher consciousness

Con la lunga jam Call to the Higher Consciousness contenuta in Barefoot Boy (1971) Coryell incontra anche il progressive rock; nello stesso anno esce pure l’album Live at the Village Gate, nel quale canta anche la moglie Julie Coryell. Si tratta di un album che documenta in maniera purtroppo incompleta un live del power trio composto da Larry, Mervin Bronson al basso e Harry Wilkinson alla batteria; la musica proposta si muove più in territorio rock che jazz, curiosamente potrebbe suggerire qualcosa su dove sarebbe andato a parare Hendrix se fosse sopravvissuto e si fosse avvicinato al jazz. Oltre alla Experience in questo live troviamo affinità anche con i Cream: è presente infatti anche un brano di Jack Bruce, con il quale Coryell ha suonato in tournèe un paio di anni prima.

«Volevo migliorare il contenuto intellettuale della fraseologia limitata del suonare rock e blues e, allo stesso tempo, iniettare più energia “down home” basata sul blues nelle idee jazz.»

Larry Coryell

A questo punto della sua carriera Coryell non e’ piu’ interessato ad assoli acrobatici, la sua attenzione è rivolta piuttosto all’improvvisazione di gruppo. Con un quintetto piu’ tradizionale (con Mandel e Marcus) Coryell registra Offering (gennaio 1972) e The Real Great Escape (1973)
Nello stesso periodo il chitarrista presenta la sua nuova band The Eleventh House, che esegue una sorta di hard rockin jazz fusion, con influenze prog e linee “metalliche” di synth.
All’epoca (basti pensare ai coevi Return To Forever e Mahavishnu Orchestra) molti musicisti di talento erano attratti dall’idea di trovare la propria “voce” espressiva creando una personale visione del jazz.

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Live at the Village Gate

The Eleventh House

Robuste dosi di rock, blues e funk erano pompate nelle sessions di questi artisti; la componente pop era conseguenza del successo di nomi come Stevie Wonder o Aretha Franklin.
Le potenzialità commerciali del genere fusion non sono ancora la priorità. Per il momento si esplorano nuovi territori in ambito musicale; i musicisti jazz, “elettrificandosi”, ambiscono a costruirsi una nuova identità musicale, a sviluppare uno stile personale, una voce propria.
Il grande pubblico conoscerà la fusion dopo la metà dei ’70, quando le composizioni si faranno più semplici o quantomeno più orecchiabili. I dischi jazz-rock si orienteranno verso il successo commerciale, pur restando in gran parte lavori di gran pregio musicale prodotti da musicisti di talento.
Il percorso indicato dal lavoro e dalle intuizioni di pochi come Coryell si sposta in uno scenario più vasto: la fusion diviene un fenomeno di portata mondiale.

«Ho lasciato o perso interesse per tutto. A quel punto il mio obiettivo più importante era bere birra e sballarmi…»

Larry Coryell

Nel 1977 Larry corona un altro sogno: collabora con Charles Mingus nell’album Three or Four Shades of Blue. Nel 1978 suona in ben sette albums; l’anno dopo forma un super trio chitarristico con la vecchia conoscenza John McLaughlin ed addirittura Paco De Lucia. Il terzetto parte per un tour europeo che Coryell non porterà a termine: l’abuso di droghe ed alcol lo ha condotto ad un crocevia di vita o morte. La scelta del nostro è solida e definitiva, tanto che, uscito dalla riabilitazione, resterà “pulito” fino alla fine.

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Mingus – Three or four shades of blue

Negli anni ottanta Larry, che nel frattempo si è dedicato al buddismo di Nichiren, prende sotto la sua ala protettiva la giovane chitarrista Emily Remler, con la quale incide Together, un album di duetti chitarristici del 1985. Con la collega intreccia anche una relazione sentimentale, ma i suoi tentativi di salvare la ragazza dalla dipendenza da eroina non hanno successo: la Remler morirà a soli 32 anni.

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Larry Coryell And Emily Remler – Joy Spring

«Quando sono uscito dalla riabilitazione, ero determinato che qualunque cosa sarebbe successo nella mia vita, non sarei più tornato a quello stile di vita velenoso e distruttivo»

Larry Coryell

Forse perso l’interesse per la fusion, Coryell riscopre il suo lato folk e classico, compiendo così una inversione dal punto di vista stilistico ma non di attitudine verso la ricerca.

Gli anni che seguono la ripresa infatti sono prolifici più che mai e mettono in severa crisi i musicologi che cercano di catalogare l’arte prodotta da Larry. Pur avendo ripiegato quasi integralmente sulla chitarra acustica, le sue ricerche continuano a riguardare molti territori diversi. Jazz, post bop, fusion, folk, rock ,blues, bluegrass, musica modale indiana, musica brasiliana, rivisitazioni di compositori classici…questo eterno, umile, studente mostra lo stesso fuoco, la stessa voglia (e, in certe occasioni, anche la stessa velocità di esecuzione sulla sei corde!) della gioventù.

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‘Round Midnight

Larry Coryell, Monk, Trane, Miles & Me (HighNote, 1998)

C’è un rovescio della medaglia: il suo stile musicale (e di vita) improvvisato lo priva, almeno dagli anni ’80 in poi, di un percorso coerente nella produzione artistica. Le collaborazioni, forse a volta frutto del caso, mettono in evidenza sia il suo bagaglio tecnico che un certo appiattimento privo di reali necessità narrative.
Detto questo, Coryell lascia qualche zampata di classe anche negli ultimi decenni, via via distillando le note e rallentando, come per ritrovare una via meditata alle proprie radici, alle proprie origini. Sorprendendo però, tanto per non smentirsi, con gli ultimi due dischi, decisamente elettrici.
The Lift (2013) per esempio è un tuffo all’indietro nell’energia dei suoi primi dischi solisti, grooves e progressioni “semplici” ma funzionali, convincenti ed incredibilmente freschi.

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The Lift

«Il tuo karma è sempre davanti a te. È sempre lì. E attraverso la pratica puoi cambiare il tuo karma. Attraverso la pratica puoi trasformare la negatività in positività.»

Larry Coryell

Nel febbraio 2017 Larry ci saluta, lasciando al mondo un’eredità artistica raccolta nel tempo da chitarristi come John McLaughlin, Bill Connors, Al Di Meola, Allan Holdsworth, Steve Kahn, Scott Henderson e Mike Stern, per citarne alcuni.
Nel corso della sua carriera Coryell ha saputo trasmettere, senza esibizionismi artificiosi, tutta la bellezza e l’inquietudine della chitarra, la sua l’immediatezza ed i suoi risvolti misteriosi.
Per gli appassionati di musica che pensano fuori dagli schemi, questa leggenda della musica riserva un archivio monumentale di gemme da scoprire.