”Muddy Waters lo chiamava “my son”. Eric Clapton lo definì “music on two legs”.
Daniele Pieraccini
Una personalità originale, un chitarrista che fece cose che nessuno aveva mai sentito prima, che influenzarono ed influenzano tuttora chiunque suoni rock.
«The whole idea is that if you turn your amp up to 10, you should still be able to play at a whisper – you’ve got to learn to control your hands»
Mike Bloomfield
Muddy Waters lo chiamava “my son”. Eric Clapton lo definì “music on two legs”.
Mike Bloomfield trasformò per sempre la scena blues di Chicago. Con i suoi soli lunghi e ispirati, che attingevano anche ai Raga indiani, rappresentò un’influenza enorme su tutti i chitarristi venuti dopo.
Una personalità originale, un chitarrista che fece cose che nessuno aveva mai sentito prima, che influenzarono ed influenzano tuttora chiunque suoni rock.
Michael Bernard Bloomfield nasce a Chicago il 28 luglio del 1943 sotto il segno del Leone.
Figlio di una famiglia ebrea benestante, ben presto realizza di non appartenere a quel lato della città. Il ragazzo non ha nessuna intenzione di ereditare l’attività familiare: passa il suo tempo nella zona sud, nei locali in cui suonano i suoi idoli. Chicago è il paradiso del blues elettrico: i nomi di riferimento che circolano sono quelli di Sonny Boy Williamson, Little Walter, Otis Spann per non parlare dei due giganti, Muddy Waters e Howlin’ Wolf.
Non ci vuole molto perché Mike salga sul palco insieme a loro: a 17 anni ha già suonato in jam improvvisate con i più grandi. Un privilegio riservato a ben pochi bianchi.
Ma all’inizio degli anni sessanta il blues ha un calo di popolarità: quello che va di moda è il folk revival. Bloomfield imbraccia la chitarra acustica, mai dimenticando le sue radici, infatti continua a suonare con veterani come Sleepy John Estes o Big Joe Williams.
Apre anche un locale, il “Fickle Pickle”, dove si suonano folk e blues acustico.
Ben presto però decide di spostarsi a New York, in cerca di un contratto discografico.
Con la sua Telecaster a tracolla è ormai un chitarrista maturo e Paul Rothchild, presidente dell’Elektra, vuole inserirlo nella Paul Butterfield Blues Band.
L’operazione non è così semplice: Bloomfield è a conoscenza della ruvidezza con cui l’armonicista interpreta il ruolo di band-leader. Butterfield è noto per il suo stile innovativo ed incisivo, ma anche per il suo ego sproporzionato e non vuole cedere spazio ad altri protagonisti.
Un compromesso viene però in qualche modo raggiunto, dando vita ad una delle prime band di blues rock della storia: Born In Chicago (1965) è l’esordio di uno dei primi gruppi misti del paese, con una sezione ritmica formata da Sam Lay e Jerome Arnold, ex membri della band di Howlin’ Wolf, Elvin Bishop alla chitarra, Mark Naftalin alle tastiere e Butterfield alla voce e armonica.
Oltre, ovviamente, al nostro Mike, che si scatena in un assolo memorabile su Blues With A Feeling.
La freschezza e la potenza di quel disco sorprendono anche oggi; il lavoro di chitarra di Bloomfield
lo classifica come influenza determinante nel revival del classic-blues di Chicago che prende il via proprio in quel periodo.
Dylan lo vuole in pianta stabile nel suo gruppo, ma dopo il celebre live di Newport Mike saluta la compagnia per dedicarsi al suo personale progetto. In realtà la collaborazione non poteva durare a lungo: il volume del suo amplificatore è insostenibile per il pubblico di Dylan, anche i meno intransigenti sono comunque “educati” ad un ascolto folk.
Il motivo principale dietro all’abbandono di Bloomfield consiste però nei limiti imposti dal band-leader, che limitano i riferimenti all’amato blues ed impediscono al nostro di brillare come con Butterfield.
Poco male, anzi benissimo, visto che nel luglio del 1966 Bloomfield con la solita Butterfield Blues band pubblica East-West, che sconvolge un mondo di musicisti in un periodo certo non avaro di opere innovative e memorabili.
Oltre al blues si trovano infatti, fuse insieme mirabilmente, influenze soul e rock, free jazz e indiane.
La title track è uno dei brani più influenti della storia del rock: la partenza ed il primo sviluppo si aggirano ancora in territorio blues, ma dopo qualche minuto il territorio da esplorare si estende fino al jazz (la musica modale di John Coltrane) e alla musica indiana (i Raga di Ravi Shankar), per approdare ad un dialogo tra chitarre (la sua e quella di Elvin Bishop) che prefigura quello che sarà il segno distintivo degli Allman Brothers.
Bloomfield, con una Les Paul Goldtop del 1956 in un amplificatore Gibson Falcon, si cimenta in tredici minuti epocali di musica, che battezzano in anticipo le chilometriche jam di fine ’60 e l’acid rock di San Francisco, aggiungendo alla lista degli “ispirati” da Bloomfield anche Jefferson Airplane e Grateful Dead.
La collaborazione con Bishop giunge ben presto al termine, quest’ultimo infatti reclama uno spazio maggiore dopo una crescita musicale che senz’altro deve a Bloomfield e se ne va in cerca di nuovi stimoli.
Mike, ad inizio 1967, fonda una nuova band, Electric Flag. Si tratta di una delle prime horn bands della musica rock e comprende l’organista Barry Goldberg, il batterista Buddy Miles e il cantante Nick Gravenites oltre ovviamente una sezione fiati.
Subito Peter Fonda gli chiede di incidere la colonna sonora di The Trip; Bloomfield ed i suoi eseguono, mescolando sorprendentemente elettronica, rumore, psichedelia, country, ragtime e blues.
Nel giugno dello stesso anno la band si esibisce al festival di Monterey, in cui Bloomfield si presenta con quella che sarà la chitarra più iconica della sua carriera: una Gibson Les Paul Standard Sunburst del 1959.
L’esibizione degli Electric Flag lascia decisamente il segno, innalzando le aspettative da parte di stampa e pubblico.
Il momento d’oro non è sfruttato dalla band, che ultima il disco successivo in ritardo, forse per problemi di droga e sicuramente a causa di cambi di formazione che richiedono molto tempo passato in studio a provare.
Eppure, quando finalmente esce nel 1968, A long Time Comin’ non delude le aspettative.
In gran parte devoto a blues, soul e jazz, il disco presenta addirittura suoni e voci “campionati” e missati con la musica eseguita dal gruppo. Sicuramente Miles Davis trarrà ispirazione da questo lavoro. Bloomfield esegue una versione della Killing Floor di Howlin Wolf come fosse un infervorato comizio psichedelico e regala altri momenti entusiasmanti come Wine e Texas.
Il disco però si rivela un insuccesso commerciale e nel frattempo Buddy Miles sta prendendo sempre più le redini del gruppo; Bloomfield, afflitto da problemi di insonnia che cerca invano di “curare” con l’uso di eroina, lascia così il gruppo.
Al Kooper, che ha invece mollato i Blood, Sweat & Tears, lo ammira al punto da considerarlo il miglior chitarrista mai visto e riesce nell’intento di smuoverlo coinvolgendolo nella registrazione di una jam session in stile jazz ma con forte connotazione rock.
Dopo aver lasciato la chitarra (ritenendo più che sufficienti le sei corde di Bloomfield…) per passare definitivamente all’organo, Kooper registra sei ore di jam nel maggio 1968, ricavandone cinque brani magistrali. Bloomfield, usando soltanto la sua Les Paul attaccata ad un Twin Reverb e le sue dita, sfodera forse il suo capolavoro: His Holy Modal Majesty, di nuovo ispirata da jazz e Raga.
Albert’s Shuffle, uno degli strumentali di blues chitarristico più belli di sempre, con la sua ferocia controllata, è esemplare della personalità musicale di Mike: energia, feeling, precisione ritmica, tocco, intonazione, gusto…i suoi fraseggi e il tono della sua Gibson rendono letteralmente vocale quello che esce dall’amplificatore.
Kooper però, al risveglio del giorno successivo alle registrazioni, non trova più Bloomfield. Il chitarrista se ne è andato, tormentato dall’insonnia. Il disco viene quindi trasformato in una jam da super gruppo, formato che andrà di moda negli anni immediatamente successivi.
Super Session vede quindi la luce con il contributo di Bloomfield limitato alla prima facciata, sostituito da Stephen Stills nella seconda.
Il disco, in termini commerciali, risulterà il più grande successo di Bloomfield, che tuttavia non se ne curerà mai più di tanto.
Il nostro ricompare per una serie di live con Kooper, dai risultati non meno che spettacolari.
Ben presto però scompare nuovamente, sostitutito da Steve Miller prima e da un giovane messicano sconosciuto di nome Carlos Santana, convinto di suonare con il suo idolo Bloomfield e conseguentemente deluso dall’assenza di quest’ultimo, al punto di dichiarare, tempo dopo, che avrebbe volentieri scambiato quella favolosa opportunità con la possibilità di suonare con Mike.
Nonostante uno stato psicofisico non ottimale, Bloomfield si ripresenta a dicembre 1968 per suonare in un live che lancerà la carriera di Johnny Winter.
Il 1969 lo vede suonare in dischi importanti (Janis Joplin, Muddy Waters, Mother Earth) e debuttare a suo nome con It’s Not Killing Me.
Lo vede anche esibirsi con Nick “The Greek” Gravenites in un micidiale concerto che sarà immortalato in due dischi, Live at Bill Graham’s Fillmore West e My labors.
Il suo stile è giunto all’apice, purtroppo può dirsi lo stesso del demone che lo tormenta da anni.
Insonnia e droga lo stanno uccidendo: nel 1970, a 27 anni non muore come Hendrix o Joplin, ma abbandona la sua poesia, la chitarra. L’eroina lo sta svuotando completamente di ogni stimolo e forza.
Gli anni ’70 sono una discesa verso il buio. L’uomo che a 17 anni divideva il palco con Muddy Waters, che ha cambiato il mondo della musica rock e lo stile con cui approcciare la chitarra, pioniere delle jam rock e di altri formati divenuti classici, si ritrova a musicare film porno, schiavo di alcol ed eroina.
Dopo averci lasciato qualche altra gemma, nascosta qua e là in una produzione che risente inevitabilmente del suo declino umano, Michael Bernard Bloomfield abbandona questo mondo nel 1981 in seguito ad una overdose. Un decesso avvenuto in circostanze non chiare: molti parlavano di una festa privata e del successivo trasporto del suo corpo in auto, per essere scaricato altrove.
Mike Bloomfield, nell’immaginario comune, non è considerato un “guitar hero”, un personaggio “maledetto” da poster per le camerette degli adolescenti.
Non è un nome subito collegabile ad un immaginario condiviso da molti ed in grado di suscitare entusiasmo ed approvazione a comando.
Ma l’eredità che ci ha lasciato e gli obiettivi artistici raggiunti hanno pochi eguali.
In molti hanno in casa dischi in cui ha suonato e magari neppure lo sanno.
L’invito è quello di scoprirlo o rivalutarlo, gli ascolti di molti suoi lavori riservano sicure ricompense e possono offrire una prospettiva poco sfruttata ma imprescindibile con la quale inquadrare la storia del blues e del rock.
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