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Cinema

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Vigalondo, Stearns, López-Gallego: TRE REGISTI DA TENERE D’OCCHIO

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Sotto i radar dell'attenzione pubblica verso il cinema, passano talvolta autori degni di nota, con una loro poetica nell'affrontare problematiche legate ai rapporti umani.
In questi tempi di progressivo ottundimento, di allontanamento dalla nostra vera essenza, la visione di certi film ci riporta, con coraggio ed impegno, a tutto quello che dovrebbe essere centrale nelle nostre vite.

Daniele Pieraccini

Parleremo di tre registi che ci hanno colpito particolarmente, grazie al loro sguardo inusuale ed intelligente sulla tossicità che spesso caratterizza le interazioni sociali.
Si tratta di tre autori che la sanno lunga su tematiche non solo “terrene” e che, evitando stili ricercati e pretenziose atmosfere “d’autore”, dicono quello che hanno da dire con semplicità, direttamente ma evitando ogni banalità. E occhio ai diversi livelli di lettura di film come Colossal, Open Grave e Dual

Nacho Vigalondo

Spagnolo, classe 1977, è spesso anche sceneggiatore dei film che dirige. Compare anche come attore, in sue e di altri produzioni. Esordisce con una serie di cortometraggi molto interessanti, dal 1999 al 2007, prima di dirigere il suo primo lungometraggio Timecrimes. Seguono altri corti e tre film, Extraterrestre, Open Windows e Colossal, oltre a contributi agli horror antologici The ABCs of Death e V/H/S: Viral.

Vigalondo ha un indubbio talento nello sviluppare grandi idee (grandi inteso proprio come scala di importanza) su una scala intima dei rapporti umani. Grazie alle sue indubbie competenze bastano pochissimi mezzi economici e pochi attori: la profondità dei concetti espressi è decisamente top class. Il genere fantastico è piegato a piacimento per parlarci delle dinamiche dei rapporti umani della società.
La fantascienza da lui proposta, per quanto epica, funge da sfondo a vicende umane ispiratissime narrate con magistrale intelligenza e senso del ritmo, che lasciano dentro allo spettatore ben altro rispetto ai blockbuster hollywoodiani dal vuoto intellettivo dissimulato da tonnellate di effetti speciali.

– Personaggi falsi, distruttivi e tossici nelle relazioni: i veri mostri sono dentro di noi.

Da vedere:

7:35 de la mañana – cortometraggio (2003)
Marisa – cortometraggio (2009)
Timecrimes (Los Cronocrímenes) (2007)
Extraterrestre (2011)
Colossal (2016)

Premi Play per guardare il cortometraggio MARISA di Nacho Vigalondo

Riley Stearns

Anche lo statunitense Riley Stearns (1986) si fa inizialmente notare per dei cortometraggi, per poi passare alle opere di lunga durata, dei quali cura anche la sceneggiatura. Il suo film di debutto è Faults, del 2014, seguito da The Art of Self-Defense del 2019 e dal recentissimo Dual.

Con uno stile asciutto, semplice ma efficace, Stearns mette in scena delle satire bizzarre, dirette ma sottili al tempo stesso, che espongono la sua visione sulle attuali articolazioni dei rapporti umani e sociali e sui loro futuri sviluppi.
Dual, in particolare, visto il tema trattato e la glacialità con cui è rappresentato, sembra l’episodio mancante della serie Black Mirror, solo ancora più spietato nella sua satira sociale.

– I protagonisti delle storie narrate da Stearns sono accomunati dall’avere tratti e comportamenti piuttosto autistici, avvolti da una apparente atarassia che li rende facili vittime di manipolatori ipocriti dai doppi fini.

Da vedere:

The Cub – cortometraggio (2013)
L’arte della difesa personale (The Art of Self-Defense) (2019)
Dual (2022)

Premi Play per guardare il cortometraggio THE CUB di Riley Stearns

Gonzalo López-Gallego

Un altro iberico ha lasciato il segno con un’opera impressionante, Open Grave, che sospettiamo debba molto alla sceneggiatura di Eddie e Chris Borey. I due hanno elaborato anche lo screenplay per Boss Level, un notevole action movie basato su un loop temporale.

Gonzalo López-Gallego (1973), autore dell’horror fantascientifico Apollo 18, realizza nel 2013 un altro horror, stavolta post-apocalittico, che non può lasciare indifferente chi cerca qualcosa di più in un film oltre a divertimenti e spaventi superficiali.
Un approccio fatto di dura realtà materica, per parlare di qualcosa di estremamente esoterico.
E un ammonimento sul ruolo della memoria e sui meccanismi che si creano quando viene resettata.
Leggete la recensione del film sul blog e soprattutto guardatelo!

– Tra i diversi livelli di lettura e prima dell’efficace “twist” finale, altre dimostrazioni delle patologie che disturbano i rapporti umani: brutale e sparata in faccia quella dello “zombie” intrappolato nel filo spinato, che implora aiuto solo per trascinare con sé all’inferno chi prova empatia per lui.

Da vedere:

Open Grave (2013)

Premi Play per guardare una scena tratta dal film OPEN GRAVE di Gonzalo Lopez-Gallego

Il trailer del film COLOSSAL di Nacho Vigalondo

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Open Grave (2013) – L’Importanza della Memoria

By CinemaNo Comments

Mai come in questo momento ci rendiamo conto dell’importanza della memoria.
Quando la vera Epidemia è di inconsapevolezza, di ignoranza, di cieca e smarrita paura, come si può trovare una cura?

The Boss

E’ in momenti come questo, dove la realtà sembra sfuggirci, dove la vera storia viene stravolta, dove chi dovrebbe occuparsi del benessere e della salute dei popoli pare invece cospirare contro di essi, dove una teorica epidemia sanitaria si rivela invece essere un’epidemia di stupidità e inconsapevolezza, dove i nostri stessi fratelli diventano i nostri nemici, che ci si rende conto dell’importanza del ricordo.

Il ricordo di noi stessi in primis ma anche il ricordo della Storia Vera, che qualcuno deve assolutamente custodire da chi cerca di offuscarlo tanto fino a stravolgerlo.

Quando la vera Epidemia è di inconsapevolezza, di ignoranza, di cieca e smarrita paura come si può trovare una cura?

Cercano di dare una risposta al quesito i fratelli soggettisti Eddie e Chris Borey (in seguito autori dell’ottimo e niente affatto scontato Boss Level) e il regista Gonzalo López-Gallego (Apollo18, King of the hill) nel loro Open Grave che, come è tipico di questo sito, non è un film facile, non tanto da guardare quanto da interpretare.

Locandina del film

l maggior problema è che buona parte del pubblico non ha ancora chiaro il fatto che i film di genere fantastico, siano essi horror o fantascienza, vengono spesso utilizzati come parabole per raccontare verità più o meno astratte e che se si vuol cercare di capire cosa accade e cosa è in progetto di far accadere nel futuro geopolitico, bisogna necessariamente interfacciarsi a questo tipo di cinema, essendo in realtà praticamente solo pura invenzione il resto, soprattutto quello definito drammatico o addirittura basato su una storia vera.

In pratica “se vuoi vedere la realtà devi guardare il mondo attraverso te stesso e scoprirai il segreto della vera pietra filosofale”. Quindi servono talora delle chiavi di lettura che vanno studiate, analizzate e capite ma sostanzialmente la verità, che si crede celata, lo è in realtà solo davanti agli occhi dei popoli.

Ci vogliono quindi le chiavi ma soprattutto una mente attiva, cosa purtroppo piuttosta rara in una società di cervelli spenti come quella attuale, che è abituata al solo fracasso altrimenti l’attenzione cala durante i primi 5 minuti e in tal caso difficilmente andrà oltre i 10-15 minuti di visione.

Una breve sinossi

Un uomo si sveglia dentro ad una fossa comune piena di cadaveri, senza ricordare neppure il proprio nome. Una ragazza gli getta una fune e lo aiuta a trarsi in salvo.
In seguito l’uomo cammina fino ad una casa dove trova altri personaggi tutti quanti completamente senza memoria.
Senza perdere tempo in presentazioni, iniziano subito gli scontri dettati da smarrimento e paura. Dopo un po’ di ricerche scoprono le loro identità.

L’uomo che era nella fossa, che non ha carta d’identità, si chiama in realtà John Doe, il tedesco è Lukas e gli altri tre sono Sharon, Nathan e Michael. Non ci sono documenti per la donna muta, quella che ha salvato John.

Lukas continua ad essere ostile nei confronti di John, soprattutto quando il gruppo scopre un’immagine che li contiene tutti, ad eccezione di John, che si scoprirà chiamarsi invece Jonah.
Trovano poi anche un calendario che suggerisce che qualcosa accadrà tra due giorni (il 18), ma non ci sono note per indicare cosa.

Il gruppo inizia ad esplorare l’area circostante trovando corpi legati e flagellati e da qua in avanti comincerà a dipanarsi la matassa, fino all’evocativo finale che avverrà proprio il 18.

Sharlto Copley è John

Il film, come spesso accade a film o libri “scomodi”, è stato ipocritamente vietato ai minori di 18 anni negli Stati Uniti d’America per la presenza di «forte violenza, immagini disturbanti e linguaggio non adatto» – quando tutti sanno che si vede continuamente molto di peggio in una qualsiasi serie tv – ed è stato accuratamente stroncato dalla critica però è riuscito ad ottenere alcuni riconoscimenti in luoghi appropriati e sicuramente un giorno verrà riscoperto ed entrerà tra i cosiddetti film cult. Speriamo non sia già troppo tardi.

Ma intanto guardatevi il film e poi ne riparliamo.

Josie Ho è la ragazza muta

“Open Grave” (USA, Ungheria – 2013) di Gonzalo López-Gallego

Regia Gonzalo López-Gallego
Soggetto e sceneggiatura Eddie e Chris Borey
Produzione Atlas Independent
Interpreti Sharlto Copley: John / Jonah
Joseph Morgan: Nathan
Thomas Kretschmann: Lukas
Erin Richards: Sharon
Josie Ho: donna muta
Max Wrottesley: Michael
Fotografia José David Montero
Montaggio Gonzalo López-Gallego
Musiche Juan Navazo
Distribuzione Eagle Pictures (Italia)
Data di uscita

14 agosto 2013 (Italia)

Durata
102 minuti

 

UNA SCENA DAL FILM OPEN GRAVE

Riconoscimenti

• 2014 – Golden Trailer Awards
Candidatura per il miglior trailer horror

• 2014 – Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna
Candidatura per il miglior film

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Per un pugno di idee – 5 precursori di grandi successi hollywoodiani

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Dove nascono le idee? Come si sviluppano? Chi ha le possibilità, economiche e di marketing, di realizzare e diffondere un prodotto di successo ma cerca un'idea nuova e potente, dove la trova? Bastano le menti degli scrittori di cinema delle grandi case di produzione o talvolta bisogna rubare qua e là?

Daniele Pieraccini

Negli studi di Hollywood ne sanno qualcosa. Il panorama cinematografico mondiale offre spunti inesauribili di idee: in particolare il vecchio continente e l’Asia sono da sempre fonti di ispirazione più o meno derivativa per i produttori statunitensi.
Si prende un film interessante, con un concetto geniale e lo si converte in prodotto per le masse, attuando le dovute modifiche per andare incontro ai gusti del grande pubblico e spettacolarizzandolo con trovate visive “esplosive” e volti noti di superstars. Un processo che è sempre stato applicato per esempio anche nella musica pop e rock.

Ovviamente anche dai celebri studi nel Sunset Boulevard sono usciti lavori di un certo spessore, ma dobbiamo tenere ben presente che stiamo parlando di una vera e propria industria a scopo di lucro, una macchina finanziaria più che artistica, con regole e gerarchie rigidissime che riguardano anche l’aspetto creativo.

Vogliamo dunque presentarvi, tra i molti, cinque film che hanno fatto da precursori a grandi successi al botteghino, alcuni reiterati in sequel, remake, reboot o veri e propri franchise. Ci pare giusto riconoscere a certe opere e a chi le ha concepite il valore aggiunto di anticipatori più o meno oscuri alle masse.

1 – “Il mondo sul filo” diventa “Matrix”

Gli autori del franchise con protagonista Keanu Reeves hanno dichiarato di essersi ispirati a pellicole di animazione nipponiche come Akira, Ghost In The Shell e Ninja Scroll. Nessuna menzione per un altro anime, Megazone 23 che è quello da cui hanno attinto più dettagliatamente.

Esaminando meglio, sono molteplici le “fonti” a cui si sono abbeverati i Wachowski, tra le altre vale la pena ricordare il noir fantascientifico Dark City, il romanzo Ubik di P.K. Dick ma, soprattutto, il film per la tv Il mondo sul filo (Welt am Draht) di Rainer Werner Fassbinder, uscito nel 1973 e poi ripreso in maniera aggiornata e più soft a fine millennio nel film Il tredicesimo piano di Josef Rusnak.

Fassbinder, basandosi sul romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye, mette in scena una vicenda sorprendentemente attuale, modernissima: un programma di realtà virtuale crea un mondo i cui abitanti vivono come autentico, un mondo fatto di realtà aumentata e di simulazioni paradossalmente più vere del vero. In questo ambiente solo una “persona di contatto” è cosciente di vivere in una simulazione.
Nei primi anni settanta eravamo ben lontani dalla società dei big data e dal mondo compresso e istantaneo del digitale come lo conosciamo adesso, per questo il film di Fassbinder è un sorprendente precursore di Matrix e dei dubbi sulla veridicità delle nostre esistenze.

Premi Play per guardare il trailer di IL MONDO SUL FILO

2 – “The Vindicator” diventa “Robocop”

Conosciuto anche come Frankenstein 88, The Vindicator è un film del 1986, diretto dal canadese Jean-Claude Lord, un regista dallo stile molto hollywoodiano ma interessato a temi politici.
In seguito ad un incidente, cervello e parti del corpo di uno scienziato sono trapiantate in un robot. Il cyborg risultante mantiene una componente umana e cosciente, scatenandosi in massacri vari per ottenere la sua vendetta. Lord si è indubbiamente ispirato al mito di Frankenstein, al film del 1959 Il colosso di New York (The Colossus of New York) ed ha senza dubbio attinto all’estetica dei primi film del suo connazionale Cronenberg, ma bisogna dargli atto di aver messo a punto una vicenda che, l’anno seguente, Paul Verhoeven riproporrà (scalando in secondo piano l’aspetto umano della tragedia del protagonista) nel ben più celebre Robocop.

Premi Play per guardare il trailer di THE VINDICATOR

3 – “Sole Survivor” diventa “Final Destination”

Una donna esce indenne in maniera inspiegabile da un terrificante incidente aereo; cerca di riprendere la sua vita normalmente ma, oltre ad un comprensibile malessere psichico, strani avvenimenti e fenomeni la perseguitano. La Morte stessa vuole completare la sua opera, la superstite non potrà sfuggire al suo destino.
Sole Survivor, in italiano uscito (in sordina) come Ragnatela di morte, è una pellicola del 1983 del regista Thom Eberhardt, autore l’ anno seguente dell’interessante La notte della cometa.
Sebbene le origini di un simile concetto vadano rintracciate nel cult movie Carnival of Souls del 1962, è da Sole Survivor che James Wong ha indubbiamente tratto lo spunto per il primo film della pentalogia di Final Destination.

Premi Play per guardare il trailer di SOLE SURVIVOR

4 – “La Jetée” diventa “L’esercito delle 12 scimmie”

Terry Gilliam non ha mai nascosto la sua fonte di ispirazione per il film con protagonista Bruce Willis, ma è impossibile non tributare un omaggio ad un opera avanti con i tempi come La Jetée, un cortometraggio sperimentale del 1962 realizzato dal regista francese Chris Marker mettendo in sequenza immagini fotografiche con una voce fuori campo che narra la storia. Una sorta di fotoromanzo post-apocalittico, in cui troviamo:
-una scena di sparatoria in un aeroporto, centrale nella vicenda
-un mondo devastato da una catastrofe
-sotterranei in cui il prigioniero è forzato a viaggiare nel tempo
-misteriosi segni sui muri
-riferimenti al mondo animale
Tutti punti forti de L’esercito delle 12 scimmie, uscito oltre trenta anni dopo.

Premi Play per guardare il trailer di LA JETEE

5 – “Reazione a catena” e “Torso” diventano “Venerdì 13” e “Halloween”

Per l’ultimo “caso” che prenderemo in considerazione sarebbe più opportuno parlare di ispirazione per un intero genere, quel tipo di horror che prende il nome di slasher.
I capostipiti di questo tipo di film sono considerati, nel mainstream, Halloween – La notte delle streghe (1978) di John Carpenter e Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham.
Ma ad inaugurare ed anticipare il genere poi diventato popolarissimo e sfruttato in America sono stati due registi italiani: innanzitutto Mario Bava, con il suo Reazione a catena del 1971, poi Sergio Martino nel 1973 con I corpi presentano tracce di violenza carnale.
Dalle opere di Mario Bava hanno “pescato” in tanti, alcuni si sono anche costruiti una fama spropositata alle spalle delle intuizioni del maestro dell’horror italiano, che ha dato il via a numerosi altri generi nel corso degli anni, nonostante budget e tempi di realizzazione limitati.
Nei suoi film possiamo scoprire parecchie scene plagiate da autori statunitensi e italiani.
E’ il caso di Reazione a catena (nei mercati anglofoni uscito come Twitch of the Death Nerve, Bay of Blood, Bloodbath), pieno zeppo di sequenze copiate ovunque, da Carpenter a Sam Raimi alla citata saga di Venerdì 13. Vale la pena citare il critico Alberto Pezzotta: “ Gli slasher tipo Venerdì 13 sembrano averlo copiato spudoratamente, senza per altro aver capito l’essenziale: che Bava non rispetta alcuna regola. E non solo è più colto e più ironico dei suoi presunti epigoni, ma anche molto più cattivo”.
Anche Sergio Martino parte da una sequenza del film di Bava per realizzare una intera pellicola basata su ragazze universitarie prese di mira in un ambiente isolato. Un filone del genere slasher, quello delle studentesse peccaminose, nasce quindi con I corpi presentano tracce di violenza carnale (Torso o The bodies bear traces of carnal violence), il thriller italiano preferito da Quentin Tarantino, che dal repertorio di genere del nostro cinema ha sempre attinto copiosamente.

“Così imparano a fare i cattivi!”

Chiudiamo con il titolo di lavorazione di Reazione a catena, ironizzando sui registi “furbetti” che abbiamo sgamato…anche se occorre ribadire che il nostro intento è più quello di offrire il giusto tributo ad artisti che, con la loro creatività, hanno offerto spunti notevoli e spianato la strada ai successi altrui.

Premi Play per guardare il trailer di TORSO

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Possessor (2020)

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Nel suo secondo algido e fastidiosissimo lavoro, Brandon Cronenberg continua il suo personale percorso nel capitalismo contemporaneo e le sue tare prive della minima etica e moralità iniziato con l'altrettanto fastidioso Antiviral.

Lorenzo

In un 2008 alternativo, Tasya Vos è un killer per conto di una organizzazione segreta che usa la tecnologia degli impianti cerebrali per prendere possesso dei corpi di altre persone e spingerli a commettere omicidi a beneficio di clienti paganti. Ma non si tratta di una cosa indolore per lei e dovendo imitare altre persone per lunghi periodi comincia a sperimentare un distacco dalla propria identità. Quando nell’ultimo incarico qualcosa va storto, Vos si ritrova intrappolata nel corpo di un uomo la cui identità minaccia di cancellare per sempre la sua…

Nel suo secondo algido e fastidiosissimo lavoro, Cronenberg jr continua il suo personale percorso nel capitalismo contemporaneo e le sue tare prive della minima etica e moralità iniziato con l’altrettanto fastidioso Antiviral.

Se nel suo primo film erano la vacuità della moda, la stupidità dell’influencing che portavano i giovani ormai squilibrati da una assoluta mancanza di valori e di scopi vitali a ricercare una trasfigurazione nello sfregiarsi attraverso l’acquisizione di malattie di personaggi dello spettacolo, in Possessor il discorso prosegue con il furto dell’identità e del corpo, la trasformazione e trasfigurazione dell’individuo in macchina unicamente anelante al dovere volto all’ottenimento del capitale, disposto a qualsiasi gesto pur di ottenere.

Andrea Riseborough è Tasya Vos

La lente del microscopio di Cronenberg è spietatamente puntata sulla perdita dell’identità della figura femminile e materna e la distruzione della stabilità della coppia e della famiglia. Lo scopo è un’umanità svuotata da ogni scintilla vitale e sacra, resa nichilista e isolata con ogni mezzo da chi tira le fila di una società meccanicizzata e non per questo meno putrescente: Vos è ormai un mostro senza identità individuale e sessuale che è costretto dopo ogni “missione” a ricordarsi di chi è tramite esercizi sistematici perchè ogni volta perde un tassello della propria essenza.

Una versione opposta e dileggiatoriamente ridicola del “Ricordo di Sé” di Gurdjeffiana memoria che, al contrario degli insegnamenti del Maestro che spingevano a riscoprire la propria sacra unicità, serve unicamente a preservare il funzionamento dell’uomo meccanico. L’immagine della farfalla usata come gancio per “ricordare” risulta ancora più derisoria per chi è a conoscenza del reale uso che ne viene fatto a livello simbolico e non a caso Vos finirà col perdere anche il senso di colpa per averla uccisa.

Locandina del film

Ogni passaggio del film è straniante, aggressivo e volutamente disturbante anche nella sua lentezza: si sta puntando insistentemente il dito sul baratro di cecità nel quale l’umanità sta precipitando per seguire una sparuta manica di pifferai imbecillemente deliranti in giacca, cravatta e montura rituale.

In questo senso si trova piuttosto azzeccata la Leigh, che ricopre la parte di Girder – spietato “master of puppets” di Vos – affarista e governante del potere e che allo stesso tempo, agendo da psicopompo, la condurrà fuori dal delirio emotivo confusionale nel quale è precipitata facendole abbandonare ogni seppur minimo trabocco di coscienza e amore: due mostruose “ex donne” ormai vecchie dentro e fuori, svuotate di ogni umanità, imbruttite e abbrutite dentro e fuori che si avviano, ormai raggiunta la tanto anelata sicurezza economica, verso un finale già scritto di solitudine mortale.

Scordatevi la distopia perchè, a meno di un immediato acquisto di consapevolezza, questa oggi sta diventando la realtà.

Una sequenza centrale del film. L’effetto, molto di Saul-Bassiana memoria, è stato ottenuto con metodi classici e senza l’ausilio di CGI. Cronenberg dichiara di aver tratto ispirazione dal cinema italiano di genere.

Altra cosa davvero sorprendente è la trasformazione della Riseborough, che non solo appare oggi completamente diversa fisicamente dalla fascinosa Victoria dell’Oblivion di pochi anni fa ma ha addirittura perso ogni traccia di femminilità, raggiungendo quasi uno stato androgineo che è sicuramente perfetto per la sua parte qua ma allo stesso tempo pone diversi dubbi sugli strani e improvvisi cambiamenti fisici e caratteriali dei personaggi del mondo dello spettacolo.

Forse Cronenberg sta puntando il dito anche su questo, forse ha davvero ricevuto l’eredità di tanto e scomodo padre e ne sta portando avanti l’opera.

A volte succede.

Brandon Cronenberg

“Possessor” (Canada, Gran Bretagna 2020) di Brandon Cronenberg

Regia Brandon Cronenberg
Soggetto e sceneggiatura Brandon Cronenberg
Produzione Ingenious Media, Telefilm Canada, Arclight Films, Ontario Creates, Particular Crowd, Crave, Rhombus Media, Rock Films
Interpreti Andrea Riseborough: Tasya Vos
Christopher Abbott: Colin Tate
Rossif Sutherland: Michael Vos
Tuppence Middleton: Ava Parse
Sean Bean: John Parse
Jennifer Jason Leigh: Girder
Kaniehtiio Horn: Reeta
Raoul Bhaneja: Eddie
Gage Graham-Arbuthnot: Ira Vos
Gabrielle Graham: Holly Bergman
Fotografia Karim Hussain
Montaggio Matthew_Hannam
Musiche Jim Williams
Distribuzione Elevation Pictures (Canada)
Signature Entertainment (United Kingdom)
Data di uscita

January 25, 2020 (Sundance)
October 2, 2020 (Stati Uniti e Canada)
November 27, 2020 (Gran Bretagna)

Durata
104 minuti

 

Curiosità

Il direttore della fotografia di Possessor è il regista e sceneggiatore Karim Hussain, già autore di Subconscious Cruelty e Ascension, film assai noti tra gli appassionati dell’horror underground.

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Il Caso Mattei (1972) – Il Mistero che non è un Mistero

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Di questi tempi si parla tanto di indipendenza energetica italiana, visto che c'è da sganciarsi dal nemico di turno dei “padroni” a stelle striscianti. L'indipendenza energetica, quella vera, è stata alla nostra portata per decenni ed è stata ostacolata dalle stesse sanguisughe che oggi vogliono imporci ulteriori sacrifici per i loro interessi economici e politici.

Daniele Pieraccini

Enrico Mattei

«Noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale.

Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».

Di questi tempi si parla tanto di indipendenza energetica italiana, visto che c’è da sganciarsi dal nemico di turno dei “padroni” a stelle striscianti. L’indipendenza energetica, quella vera, è stata alla nostra portata per decenni ed è stata ostacolata dalle stesse sanguisughe che oggi vogliono imporci ulteriori sacrifici per i loro interessi economici e politici.

La Basilicata, ad esempio, galleggia letteralmente sul petrolio. Già nel 1400 gli abitanti vedevano lingue di fuoco prodotte dal metano; nel ‘900 ebbero inizio le prime attività di ricerca, fino al 1959 quando, grazie ad Enrico Mattei, vennero alla luce i primi, importanti giacimenti.

Mattei e la parabola del gattino

Proprio a questo eccezionale e coraggioso imprenditore, la cui figura Eni continua a sfruttare per fregiarsi di un’etica che non le appartiene, Francesco Rosi dedicò nel 1972 un notevole film (mai uscito su DVD), traendolo dal libro dal libro L’assassinio di Enrico Mattei di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi (anche co-sceneggiatori del film) e affidando la parte del dirigente a Gian Maria Volonté.

Un film-inchiesta che dovrebbe essere visto da tutti, proiettato nelle scuole e riconosciuto come testimonianza imprescindibile di una vicenda che ha modificato profondamente le sorti del nostro Paese.

Partendo dalla fine, ovvero dalla morte di Mattei, avvenuta in un “incidente” aereo nel 1962, Rosi mette in scena un racconto dei fatti svolto con rigore documentario ma avvincente, originale e obiettivo al tempo stesso. Usando diversi registri narrativi e mai sbilanciandosi in conclusioni affrettate, il regista napoletano si mette in gioco artisticamente ed umanamente, realizzando, con l’apporto del solito, grande Volonté, un mosaico magistrale di inchiesta politica.

Soffermandosi un attimo su Volonté, pensate che nello stesso anno girò anche La classe operaia va in paradiso di Elio Petri

Locandina del film

“NON VOGLIO ESSERE RICCO IN UN PAESE POVERO”

Nel 1945 Enrico Mattei viene nominato commissario straordinario per la liquidazione dell’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP). Ben presto il dirigente marchigiano contravviene agli ordini, scavalcando il CDA fresco di nomina dell’AGIP e ordinando nuove trivellazioni nel lodigiano, convinto delle potenzialità dell’azienda che era stato chiamato a liquidare.
Mattei ritiene necessario mantenere in mano italiana la possibilità di beneficiare di eventuali sviluppi fruttiferi nel settore degli idrocarburi, scatenando polemiche e contrasti tra chi è pronto ad appoggiarlo e chi invece teme soprattutto una reazione da parte degli Alleati.

I sospetti di Mattei sulle insistenze per la liquidazione dell’AGIP sono confermati dalla generosa offerta, di 250 milioni, proveniente dagli Stati Uniti per l’acquisizione delle strutture dell’azienda, nonché dall’improvviso aumento di tecnici stranieri nel lodigiano e dal contestuale rilascio di permessi per esplorazioni e ricerche.
Sostenuto vivamente dai geologi, Mattei convince con le sue relazioni il Ministro dell’Industria Giovanni Gronchi e il Ministro del Tesoro Marcello Soleri: è infine nominato vicepresidente con l’incarico di continuare l’esplorazione mineraria.

Successivamente Mattei fonda l’Eni, costruendo gasdotti per lo sfruttamento del metano, ottenendo concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica.
La sua attività rompe l’oligopolio delle compagnie petrolifere mondiali (che egli stesso chiamò “le sette sorelle”), inserendo l’Italia in un periodo di autonomia nazionale oltre che rendendola competitiva nel mondo, fuori dalle logiche di sfruttamento del cartello economico.

Enrico Mattei e il cartello petrolifero (dal film “Il caso Mattei”)

Con il passare degli anni, impegnandosi anche attraverso media e politica (fonda il quotidiano Il Giorno) e aprendo ai paesi africani e mediorientali con un approccio paritario lontano da logiche colonialiste, Mattei accresce la sua potenza e mira ad uno sganciamento politico ed economico dall’orbita degli Alleati.

L’intervista (dal film “Il caso Mattei”)

Il discorso di Gagliano e la morte

Il 27 ottobre 1962 Enrico Mattei si trova a Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna. La zona è promettente in fatto di giacimenti di gas e petrolio, ma la politica locale del periodo è al soldo degli americani e cerca di sbarrargli la strada.
Mattei si rivolge alla gente del posto, alla miseria e alle speranze della gente del posto; le sue sono parole importanti, a futura memoria (se la memoria ha un futuro). Chi prese il suo posto all’Eni è andato in direzione opposta alla sua: le trivelle scorazzano selvaggiamente in Val di Noto e nei nostri mari, ma per rifornire gli arsenali della NATO.

Poche ore dopo Enrico Mattei, insieme al pilota e ad un giornalista statunitense che avrebbe dovuto intervistarlo, trova la morte a bordo del suo piccolo velocissimo jet privato che precipita mentre rientra a Milano da Catania.

Quella di Enrico Mattei non è una storia di un passato ormai lontano, non più di interesse: è la storia del nostro sciagurato Paese, trasformato in terra di conquista di altre nazioni, è la storia di un Uomo assassinato, tolto di mezzo e rimpiazzato da altri per portare avanti obiettivi ben precisi. Obiettivi ad oggi, sessanta anni dopo il suo sacrificio, sempre più evidenti.

Guardate il film.

Enrico Mattei – L’arroganza dei potenti

Articoli dell’epoca sul film

Mattei in una delle sue frequenti visite ispettive agli impianti

FRANCESCO ROSI PARLA DEL SUO FILM

“Il Caso Mattei” (Italia 1972) di Francesco Rosi

Regia Francesco Rosi
Soggetto e sceneggiatura Tito Di Stefano, Tonino Guerra, Nerio Minuzzo, Francesco Rosi, Fulvio Bellini (non accreditato), Alessandro Previdi (non accreditato)
Produzione

VIDES

Franco Cristaldi
Fernando Ghia

Interpreti Gian Maria Volonté: Enrico Mattei
Luigi Squarzina: il giornalista liberale
Gianfranco Ombuen: ingegner Ferrari
Edda Ferronao: signora Mattei
Accursio Di Leo: personalità siciliana
Furio Colombo: assistente di Mattei
Peter Baldwin: Mc Hale
Aldo Barberito: Mauro De Mauro
Fotografia Pasqualino De Santis
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Piero Piccioni
Distribuzione CIC
Data di uscita

26 gennaio 1972

Durata
118 minuti

 

CURIOSITA’:

Negli ultimi giorni del luglio del 1970 Rosi contattò il giornalista del quotidiano palermitano L’Ora Mauro De Mauro per ricostruire le ultime ore di vita di Mattei a Gagliano. De Mauro, si recò a Gagliano dove grazie al signor Puleo, gestore del locale cinema, riuscì a procurarsi il nastro con l’ultimo discorso fatto dal Mattei; ebbe colloqui anche con Graziano Verzotto, politico e amministratore dell’Ente Minerario Siciliano (da molti indicato come molto vicino alla cosca di Giuseppe Di Cristina) e con Vito Guarrasi, personaggio molto ambiguo vicino tanto ad Amintore Fanfani quanto ai Servizi Segreti Statunitensi. Il 16 settembre del 1970 De Mauro venne sequestrato sotto casa a Palermo e non fu mai più ritrovato.

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Fase IV: Distruzione Terra (1974) – La distopia della realtà

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1974: esce il film destinato a cambiare (in sordina) la storia della cinematografia e che, in un finale tanto innovativo e visionario quanto agghiacciante, racconta un ipotetico futuro della razza umana che somiglia invece sempre più al presente.

The Boss

Il romanzo “Fase IV” di Barry N. Malzberg è stato tratto dalla bozza della sceneggiatura ed è uscito prima del film

1974: esce il film destinato a cambiare (in sordina) la storia della cinematografia e che, in un finale tanto innovativo e visionario quanto agghiacciante, racconta un ipotetico futuro della razza umana che somiglia invece sempre più al presente.

IL CROCEVIA DEL POST-UMANO

Articolo di Daniele Pieraccini

E’ dove si incontrano opere realizzate da autori anche distanti geograficamente e cronologicamente, ma tutte convergenti verso un unico concetto: l’invasione “aliena” intesa come innesco di una palingenesi della realtà conosciuta.

Qualcosa di estraneo alla natura umana lavora per prendere possesso del nostro stesso Essere, mutandolo per esercitare un controllo illimitato ed assoluto.

In questo immaginario crocevia apocalittico transitano film come “Essi vivono”, “La fuga di Logan”, “Matrix“, “Videodrome”, “THX 1138″, “Soylent Green” “L’uomo terminale” oltre a titoli già trattati in questo blog come “I viaggiatori della sera“, “Hanno cambiato faccia“, “Wounds“, “Swiss Made 2069“, “Buone Notizie“, “Omicron“.

Locandina del film

Scherzi da “burIoni”

A proposito di quest’ultimo: la locandina falsa uscita qualche mese fa e riferita ad un presunto film del 1963 dal titolo “La variante Omicron” è in realtà una modifica alla locandina di “Phase IV”, un sorprendente fanta-horror del 1974, realizzato da Saul Bass.

Saul Bass, illustratore, realizzatore di loghi per grandi aziende e soprattutto re delle locandine e dei titoli di testa dei film, che trasformò in introduzione fondamentale alle pellicole.

Influenzato da Costruttivismo e Bauhaus, grazie alla sua visione artistica minimalista (si veda su tutti l’esempio di “Anatomia di un omicidio”) Bass fu in grado di lasciare il segno nella storia del cinema, trasformando i titoli di testa in parte integrante dell’opera, prologo della vicenda e segno identificativo del film stesso.

Saul Bass e alcune sue celebri locandine

Dopo aver vinto un Oscar nel 1969 con il corto “Why Man Creates” e ispirandosi al racconto “L’impero delle formiche” di H. G. Wells (1905) e forse anche a “Il tallone di ferro” (1907) di Jack London, Bass nel 1974 gira il suo unico lungometraggio come regista.

“Phase IV” è un flop al botteghino e viene stroncato dalla critica, ma col tempo è divenuto un “cult” ed è stato infine rivalutato da alcuni commentatori, che ne hanno riconosciuto la dimensione di dramma metafisico universale. Sicuramente, a livello visuale, ci troviamo davanti ad un incubo di intensità visionaria che merita degli approfondimenti.

Una critica ricorrente all’uscita della pellicola consisteva nell’evidenziare una mancanza di spiegazioni soddisfacenti alla storia narrata, che rendeva il lavoro un esercizio di stile visuale privo di significati interessanti: in definitiva un film di mostri anni ’50, con buone intenzioni ed inserti pregevoli di riprese documentaristiche ma sommariamente inutile. Questa impressione è condivisibile da chiunque abbia visto il film di Bass negli anni, compreso il sottoscritto.

Gli attori protagonisti sono Nigel Davenport, Michael Murphy, Lynne Frederick. Davenport e Frederick avevano già lavorato assieme in un altro film distopico catastrofico, “No Blade Of Grass” che parla di un virus delle piante che mette in crisi l’approvvigionamento alimentare di tutte le grosse città portando carestie

Dopo quasi quarant’anni dall’uscita ecco però la sorpresa: il finale dell’opera visto da tutto il mondo fino al 2012 non era quello pensato dall’autore. La produzione infatti optò per un epilogo piuttosto scontato nelle immagini e nel significato, rispetto a quello previsto e realizzato da Bass.

Ed è qui che la storia cambia. E’ con questo finale ritrovato che tutto assume un altro senso, tanto da far diventare un “film di mostri anni ’50” un vero e proprio capolavoro.
Troviamo rimandi a Kubrick, anticipi delle visioni di Ken Russell, un concetto di rinascita che ritroveremo in Cronenberg… tanti elementi tesi a mostrarci un destino, anzi, una Fase post-atomica e post-umana ormai alle porte e che “qualcuno” ha progettato per noi.

Che siano le macchine di Matrix, gli alieni di Omicron/They Live, o gli insetti di Phase IV, una realtà estranea all’umanità sta mutando definitivamente la nostra condizione. Una sostanziale disumanizzazione incombe; l’unica strada è ribellarsi alla meccanizzazione, alla spersonalizzazione, al potere vessatorio e coercitivo che ci opprime sempre più.

I computers mostrati nel laboratorio sono veri: si tratta principalmente del GEC 2050

Quelli del finale ritrovato del film sono cinque minuti di creatività visionaria che cambiano le sorti ed il senso di una pellicola, innalzandola a livelli grandiosi e profetici. Un finale esplosivo, un trip inquietante che mostra il tramonto del genere umano. Un miraggio filmico maestoso difficile da dimenticare.

Il titolo italiano è dunque fuorviante: la Fase IV non riguarda la distruzione del nostro pianeta, ma una riconfigurazione dell’umanità stessa, di presa di possesso dei corpi e delle menti al fine di riorganizzare matematicamente ed “efficientemente” la vita sulla Terra.

La Fase IV, esiziale, giunge dopo una tensione costruita ad arte, tra metafore visive, surrealismo, ottimo commento sonoro assolutamente coinvolgente, bella fotografia e pure discreta recitazione. Tutto assume un senso con questo finale, un senso apocalittico spiattellato in faccia (con forza ma con una certa finezza esecutiva) agli spettatori che restano annichiliti davanti ad una rappresentazione di ineluttabilità antiumana che lascia terrorizzati.

Tra la ricca simbologia del film troviamo losanghe inscritte in “cerchi nel grano” e 7 particolari obelischi.

Le riprese desertiche sono state effettuate in Kenya.

L’aspetto tecnico è di tutto rilievo, basti vedere l’uso che viene fatto di microcamere (nel 1974!) per seguire gli insetti da vicino; da notare anche la realizzazione di una “soggettiva” di una formica.
A livello visivo si tratta, in definitiva, di un’opera monumentale: si anticipa persino di qualche anno il fenomeno dei cerchi nel grano.

La trama in breve: a seguito di uno spettacolare e misterioso evento cosmico, la formiche di ogni specie si evolvono in maniera fulminea e inspiegabile. Ben presto gli insetti muovono guerra agli umani, immunizzandosi velocemente dalle armi chimiche usate per combatterle ed erigendo dei monoliti inquietantemente geometrici che circondano un laboratorio in Arizona, base degli umani che tentano di opporsi alle agguerrite colonie di animaletti mutati.

La rivolta delle formiche è meccanica, organizzata, una catena di montaggio estrema ed efficiente che non lascia scampo agli umani.

La terribile estasi mistica del finale rivela il vero scopo dell’invasione: lungi dal voler distruggere il pianeta, il piano delle formiche, la Fase IV, prevede la trasformazione della specie umana ed il suo adattamento al mondo degli insetti, l’assimilazione totale.

I protagonisti umani del film alla fine rivelano di non sapere cosa vogliano da noi le formiche, ma attendono istruzioni. Il sogno tecnocrate dell’uomo (soltanto) operativo sta per realizzarsi.

“Ci sono campi, campi sterminati dove gli uomini non nascono, vengono coltivati. Se non sei uno di noi, sei uno di loro.”
The Matrix

IL TRAILER ORIGINALE DI FASE 4

Il musicista nipponico Stomu Yamashta contribuisce alle musiche delle sequenze finali.

“Fase 4: Distruzione Terra” (Usa 1974) di Saul Bass

Titolo originale

Phase IV

Paese di produzione

Stati Uniti d’America, Regno Unito

Anno

1974

Durata

86 min

Genere

fantascienza, drammatico, orrore

Regia

Saul Bass

Sceneggiatura

Mayo Simon

Produttore

Paul B. Radin

Casa di produzione

Alced Productions, Paramount Pictures

Distribuzione in italiano

Cinema International Corporation

Fotografia

Dick Bush

Montaggio

Willy Kemplen

Effetti speciali

John Richardson

Musiche

Brian Gascoigne

Scenografia

Don Barry

Interpreti e personaggi

  • Nigel Davenport: Dr. Ernest Hubbs

  • Michael Murphy: James R. Lesko

  • Lynne Frederick: Kendra Eldridge

  • Alan Gifford: Sig. Eldridge

  • Robert Henderson: Clete

  • Helen Horton: Mildred Eldridge

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Parts – The Clonus Horror (1979): The Island prima di Michael Bay

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Era il 1979 quando venne dato alle sale The Clonus Horror, quel piccolo sconosciuto film dal quale venne appunto clonato il ben più famoso “The Island”.

The Boss

Era il 1979 quando venne dato alle sale The Clonus Horror, quel piccolo sconosciuto film dal quale venne appunto clonato il ben più famoso “The Island”.

Niente di particolarmente eclatante, un film distopico certamente più drammatico e meno hollywoodiano del suo “clone”, come era nello stile dei tempi insomma.

Ma il messaggio c’è ed è duro e diretto in faccia: i ricchi si procurano pezzi di ricambio per le loro “carcasse” umane.

Locandina del film

Inizio SPOILER:

Il film si svolge in un isolato complesso desertico chiamato Clonus, dove vengono allevati cloni per essere usati come pezzi di ricambio per l’élite, incluso il presidente eletto Jeffrey Knight (Peter Graves).

I cloni vengono tenuti isolati dal mondo reale dai lavoratori della colonia, ma viene promesso che verranno “accettati” per trasferirsi in “America” ​​dopo aver completato un certo tipo di preparazione fisica.

Dopo che un gruppo di cloni viene scelto per andare in “America”, viene organizzata una festa d’addio con tutti i loro compagni cloni. I cloni scelti vengono quindi portati in un laboratorio dove vengono sedati, infilati in un sacco di plastica ermetico e congelati per preservare i loro organi fino al momento della “donazione”.

Ai posti di comando del Clonus troviamo Dick Sargent, il Darrin della celebre serie TV “Vita da Strega”

La storia ha come protagonista il clone Richard (Tim Donnelly) che inizia ad avere dubbi e fare domande sulla sua esistenza e alla fine fugge dalla colonia. Inseguito dalle guardie di vigilanza del Clonus, Richard scappa in una città vicina.

Il clone viene trovato da un giornalista in pensione, Jake Noble (Keenan Wynn) che lo porta dal suo capo, Richard Knight, che sembra essere il fratello di Jeffrey Knight. I due Knight discutono su cosa fare con il clone (che si rivela essere stato segretamente commissionato da Jeffrey per se stesso).

Richard e Lena

Dopo una lite, il clone di Richard torna nella colonia per ricongiungersi con la sua innamorata, Lena (Paulette Breen). Con orrore il clone scopre che la ragazza è stata lobotomizzata dai gestori del Clonus. L’avevano usata come esca per intrappolarlo. Una volta catturato il clone, lo uccidono e lo congelano.

Nel frattempo il Clonus invia dei killer a uccidere Richard Knight, suo figlio e i Noble. Jeffrey Knight viene pugnalato al petto nella colluttazione col fratello, ma il giorno successivo, come se nulla fosse, partecipa ad una conferenza stampa, dove rimarrà gelato nello scoprire che Noble, prima della sua morte, era riuscito a diffondere un nastro segreto ai media, esponendo il progetto Clonus.

L’ultima inquadratura mostra il cadavere congelato di Richard con il petto squarciato e una lacrima di ghiaccio che gli scende dall’occhio.

Richard crionizzato

Chi ha avuto modo di guardare The Island noterà che si tratta dello stesso film con un finale diverso e molti meno denari a disposizione per la realizzazione.

Abbastanza triste che il tanto ammirato Michael Bay non abbia mai dichiarato a cosa si fosse “ispirato” per realizzare il “suo” film ma al di là di questo la cosa assai preoccupante è la assoluta credibilità di Clonus rispetto alla fantasiosa e buonista versione hollywoodiana di Bay, nella quale si è perso tutto il tipico realismo amaro dei classici della distopia degli anni 70.

Locandina di “The Island”

Film come questo e il precedente “Coma Profondo”, realizzato da Michael Chricton solo l’anno prima, mettono bene in evidenza il pericolo di predazione di organi in seguito ad incidenti che troppo spesso e con troppa fretta vengono dichiarati “mortali”.

Inoltre sono ben noti i casi di furti di organi venduti al mercato nero e delle razzie di bambini messe in atto da criminali internazionali in mezzo a popolazioni povere e facilmente dimenticabili.

Ovviamente il primo vero responsabile è chi questi furti li commissiona, esseri da perseguire e punire senza la minima pietà.

Una celebre scena tratta dal film Coma Profondo di Michael Crichton

La VHS del film

IL FILM THE CLONUS HORROR

“Parts: The Clonus Horror” (Usa 1979) di Robert S. Fiveson

Regia Robert S. Fiveson
Soggetto e sceneggiatura Bob Sullivan (story)
Bob Sullivan and
Ron Smith (screenplay)
Myrl A. Schreibman and
Robert S. Fiveson (adaptation)
Produzione Robert S. Fiveson
Myrl A. Schreibman
Interpreti Tim Donnelly
Paulette Breen
Dick Sargent
Peter Graves
Keenan Wynn
Frank Ashmore
Fotografia Max Beaufort
Montaggio Robert Gordon
Musiche Hod David Schudson
Distribuzione Group 1 International Distribution Organization Ltd.
Data di uscita

August 1979 (U.S.)

Durata
90 minuti

 

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Omicron (1963)

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Nel 1963 Ugo Gregoretti filma quello che probabilmente è il suo lavoro più denso e significativo.
Muovendosi tra fantascienza ironica, commedia, surrealismo, inchiesta televisiva e giornalismo alla Malaparte, ispirato sicuramente dal maestro René Clair nell'incrociare il fantastico con il quotidiano, il regista romano mette in scena quello che si potrebbe definire il prequel del carpenteriano “Essi vivono”.

Daniele Pieraccini

«Omicron era un film sulla fabbrica, o meglio, sulla Fiat, tant’è vero che la sua base documentaria è l’inchiesta sulla Fiat fatta da Giovanni Carocci e comparsa sulla rivista “Nuovi Argomenti”, diretta da Alberto Moravia, che analizzava le difficili questioni sindacali all’interno degli stabilimenti Fiat dopo la creazione di una polizia segreta che vigilava sul lavoro nelle fabbriche.
Alcune cose vennero da un incontro a Torino con dei giovani dei “Quaderni Rossi”, Fofi e Soave.

Dopo i miei primi lavori e dopo il successo del film Ro.Go.Pa.G. Cristaldi mi propose nel 1963 di girare un film di soggetto fantascientifico, che dapprima pensai di girare direttamente a Torino. Omicron era un curioso esempio di satira sul lavoro operaio in una grande fabbrica, con un alieno che si incarnava in un operaio.

Andai in Fiat, un po’ ingenuamente, per chiedere l’uso di un grande stabilimento dove poter girare, ma ovviamente la Fiat non ci diede il permesso.
Andai allora all’Eni che, spinta dal desiderio di dimostrare come gli enti pubblici fossero più aperti dei privati, ci mise a disposizione immediatamente uno stabilimento di Firenze, il Nuovo Pignone, specializzato nella costruzione delle bombole a gas per le cucine

Restammo lì quasi un mese, a Torino girammo solo alcuni esterni in Piazza San Carlo e in periferia» (U. Gregoretti, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).

Ugo Gregoretti

“Un giorno non saremo più noi stessi, ma degli altri che stanno dentro di noi”

Nel 1963 Ugo Gregoretti filma quello che probabilmente è il suo lavoro più denso e significativo.
Muovendosi tra fantascienza ironica, commedia, surrealismo, inchiesta televisiva e giornalismo alla Malaparte, ispirato sicuramente dal maestro René Clair nell’incrociare il fantastico con il quotidiano, il regista romano mette in scena quello che si potrebbe definire il prequel del carpenteriano “Essi vivono”.

Il titolo, “grazie” all’arrivo della omonima “variante pandemica” e alla conseguente isteria collettiva come sempre fomentata dai media, ha recentemente riportato all’attenzione questo gioiello del nostro cinema, che merita invece ben altra considerazione.

Una delle false locandine, basata su quella del film “Fase 4 – Distruzione Terra”

In quegli anni la fantascienza sembrava aver trovato un proprio spazio all’interno del cinema italiano: nel 1958 Paolo Heusch dirige “La morte viene dallo spazio”, prima pellicola del genere prodotta nel nostro Paese con la quale anticipa il genere catastrofico; Antonio Margheriti cala il poker del ciclo Gamma Uno (ben quattro film ambientati nella omonima stazione spaziale); il maestro Mario Bava realizza “Terrore nello spazio” che ispirerà l’Alien di Ridley Scott; Bruno Gaburro gira il post-apocalittico “Ecce Homo: i sopravvissuti” e Luigi Cozzi esordisce con la satira sperimentale “Il tunnel sotto il mondo”, tratta dall’omonimo raccnto di Frederik Pohl.

Gregoretti lega l’ispirazione sci-fi alla satira di costume, usando tocchi che anticipano il mockumentary (quante idee all’avanguardia nel cinema italiano degli anni sessanta, fonte inesauribile per gli sceneggiatori di Hollywood anche a decenni di distanza…) per riflettere, con la stessa lucidità e lo stesso disincanto di Salce nel suo “Colpo di stato”, di pochi anni dopo, su una società già avviata verso la dissoluzione.

Renato Salvatori interpreta Angelo Trabucco/Omicron

Creature di prima e seconda scelta

Omicron ci narra una invasione aliena, sulla falsariga de “L’invasione degli ultracorpi”: esseri di una altro pianeta vogliono conquistare la Terra possedendone gli abitanti. Per infiltrarsi tra di noi sfruttano il conformismo delle persone, già “possedute” dalle dinamiche sociali (su tutte quella servo-padrone) che ne guidano l’esistenza.

E’ qui che la visione di Gregoretti ci rimanda a quella di Carpenter. In piena era reaganiana quella del regista statunitense è una presa di coscienza di un’invasione ormai consolidata; il film italiano ci mostra invece gli albori dell’invasione stessa. Il parassita capitalista è il risultato della fusione tra gli esseri alieni e il progressismo conformista dei nostri tempi.

Calandroni giroscopici

Angelo Trabucco (interpretato da Renato Salvatori) è un umile operaio, un ultimo della classe, che viene rinvenuto cadavere all’interno di un tubo di cemento, in una sequenza di apertura che da sola vale il film e che ci mostra già la padronanza di Gregoretti nel gestire espressività visiva e concettuale. Il fatto però è che Trabucco non è morto, ma posseduto da una entità aliena, che gradualmente riporta il corpo in vita ed impara a conoscerlo e controllarlo.

A questo processo di apprendimento finalizzato al controllo parassitario si devono le gag più comiche del film, ma anche alcune trovate immaginifiche sorprendenti: su tutte la lettura a velocità incredibile di una mole di libri, al fine di imparare tutto degli umani nel minor tempo possibile.

“La catalessi ha fatto di lui un uomo inesistente ed un operaio modello”

Maldestro, catastrofico e violento nelle interazioni sociali, Trabucco/alieno ha forza e resistenza non comuni e soprattutto è produttivo in maniera sovrumana nel suo lavoro in fabbrica, mettendo in crisi gli altri lavoratori anche perché non avanza pretesa alcuna ed obbedisce ad ogni richiesta.

Dopo molte peripezie e vicende che portano il protagonista inevitabilmente al centro dell’attenzione da parte di colleghi e superiori, l’ostacolo principale all’invasione aliena è infine individuato dai nostri nemici venuti dallo Spazio: la coscienza umana.
Questa luce scomoda, che riemerge in Trabucco grazie all’amore, è però già sotto scacco da parte di forze terrestri, delle leggi del mercato e della società piegata ad esso. Ciò che mette in difficoltà esseri superiori di altri mondi è comunque soffocato dal conformismo della nostra epoca.

Angelo lotterà in un sussulto di ribellione, tentando di avvisare i suoi simili, ma finirà per soccombere nell’indifferenza generale. Intanto gli alieni, che hanno capito quali corpi devono occupare (quelli dell’élite), stanno pianificando gli anni a venire. Anni di prosperità per loro e di schiavitù per la maggioranza dell’umanità.

Rosemarie Dexter interpreta Lucia, la ragazza della quale si innamora Trabucco/Omicron

Rivedere la storia (del cinema italiano)

Davanti a lavori come Omicron, come Colpo di stato e molti, troppi altri, così ricchi sotto tanti punti di vista (creativo, testuale, immaginifico, recitativo…) ci porta a riflettere sulla necessità di liberarsi della visione imposta istituzionalmente della storia del nostro cinema. Non è possibile che vi siano tante opere di spessore dimenticate o ignorate dallo sguardo di prammatica della critica “ufficiale”.

Ma non c’è da stupirsi: è chiara la volontà di spingere certi autori a scapito di altre opere “scomode”, per promuovere proprio la visione progressista, conformista, ipocrita e decadente osservata e criticata in maniera lucida da autori come Gregoretti, Salce, Petri, Tognazzi, Ferreri.

Salvatori l’istrione

“Sto perdendo sugo”

Un ultimo, doveroso omaggio a Renato Salvatori, protagonista azzeccatissimo scelto da Gregoretti.

Un attore eclettico e originale, che in Omicron conferma la sua classe e la sua versatilità, già messe in mostra prima (con Risi, Monicelli, Castellani, Visconti…) e successivamente (con Ferreri, Petri, Costa-Gavras…).

Nel 1963 la sua carriera è già in fase discendente; il suo addio al cinema a neanche cinquant’anni (e la morte da dimenticato pochi anni dopo) è un altra dolorosa vergogna del nostro cinema.

CLICCA E SBLOCCA UNA CLIP NELLA QUALE UGO GREGORETTI RACCONTA IL SUO “OMICRON”

“Omicron” (IT 1963) di Ugo Gregoretti

Regia: Ugo Gregoretti
Soggetto: Ugo Gregoretti
Sceneggiatura: Ugo Gregoretti
Produttore: Franco Cristaldi
Casa di produzione: Lux Film, Ultra Film, Vides Cinematografica
Distribuzione in italiano: Paramount
Fotografia: Carlo Di Palma
Musiche: Piero Umiliani
Scenografia: Carlo Gentili

Personaggi e interpreti

Renato Salvatori: Angelo Trabucco / Omicron
Rosemarie Dexter: Lucia
Gaetano Quartararo: Midollo
Mara Carisi: moglie di Midollo
Ida Serasini: vedova Piattino
Calisto Calisti: Torchio
Dante Di Pinto: commissario
Vittorio Calef: presidente della S.M.S.
Maria Grazia Grassini: signorina Mari, l’infermiera
Ugo Gregoretti: giornalista

 

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Colpo Di Stato (1969)

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Nel 1969 Luciano Salce, con la sua solita attitudine caustica, mette in scena una vicenda grottesca sotto forma di satira fantapolitica. Il risultato è sorprendente e azzeccatissimo: il nostro “Pilantra”, con la collaborazione di Ennio De Concini al soggetto e sceneggiatura, mescola spionaggio, commedia e osservazione sociale e politica con commento di un Coro greco e spunti postmoderni che vanno dal mockumentary al metacinema.

Daniele Pieraccini

«Libertà e democrazia con un poco di caviale».

Se c’è un film che merita una revisione e un riconoscimento del suo valore è il poco conosciuto, restaurato nei primi anni 2000 e poi perso di nuovo, Colpo di stato di Luciano Salce.

Un opera avanti anni luce rispetto al coevo cinema (non solo) italico, che spinge all’estremo il grottesco di una società tragicomica attraverso l’impostazione stessa della story, l’uso della macchina da presa (grandangoli e macchina a spalla sono ricorrenti), il montaggio e la colonna sonora.

“Lei, Onorevole, per chi vota?”

“Ma io voto per l’Italia! Per il bene del popolo!”

La vicenda anticipa le elezioni del 1972, ipotizzando una schiacciante vittoria del PCI con conseguente prospettiva di ribaltamento dell’ordine sociale e politico.

Attraverso una galleria di personaggi e situazioni, che comprendono una serie di personaggi politici che ricordano quelli reali dell’epoca, si ricostruiscono le ore della votazione e le conseguenze dell’esito, emanato da un super computer fornito dagli USA.

Alberto Plebani interpreta il Presidente del Consiglio

“Salce vegetale”

La prima parte della pellicola è frenetica e disorientante, tra carosello e cinegiornale. Varie scene apparentemente estemporanee si affastellano l’una sull’altra dando l’impressione di una farsa goliardica e un po’ naif, alternate ad un coro operistico che commenta gli avvenimenti.

Già le interviste ed i reportage e la presenza di Salce nella parte di sé stesso però sfondano da subito la quarta parete, suggerendoci che da tutta quella frenesia potrebbe nascere qualcosa di estremamente interessante.

Infatti iniziano a susseguirsi scene spassose e riuscitissime, come quella del ministro nella palude e quella della suora che accompagna un cadavere al seggio elettorale.

“Tra moda ed elezioni ci sono molti punti di contatto”

Poi la vicenda, sempre commentata dal Coro greco, muta pelle. Si abbassa il ritmo ma lo spasso non diminuisce, convivono verosimiglianza e assurdo e l’insieme è compatto nella sua lungimiranza storico-antropologica.

La satira di Salce si fonda su una cognizione piuttosto esatta delle strutture politiche e sociali italiane, e lo conduce ad una sconsolata ed allo stesso tempo divertente presa d’atto di come il popolo non possa che essere ingannato da chi guida queste strutture.

Il regista romano non risparmia niente e nessuno, demolendo a destra, al centro e a manca.
Il grottesco che mette in scena ha una sua forza poetica, ci fa ridere spingendo personaggi e situazioni fino ad un assurdo che diviene più reale della realtà stessa, preconizzando i disastri a venire che colpiranno il nostro Paese.

Il fotografo Matruch scatta continuamente per tutto il film, qua si intravede Janet Agren, allora modella e attrice.

“Però voi americani siete dei cervelloni…perché non fate la rivoluzione?”

“Son of a bitch!”

L’atmosfera ed il tono dei personaggi ci fanno pensare ad un Dottor Stranamore in versione nostrana; le assonanze diventano evidenti quando il personale civile e militare dell’ambasciata statunitense, sotto pressione per il risultato elettorale, si rilassa in una sala di proiezione ammirando soddisfatto le riprese di esplosioni nucleari.

La spietata satira di Salce, oltre ai partiti di tutto l’arco costituzionale, prende di mira anche i poteri che, in teoria, dovrebbero essere super partes: la Chiesa, schierata ovviamente con lo scudocrociato ma pronta alla convivenza con il potere, di qualsiasi stampo sia, e la televisione.

Spassosa e profetica è la vicenda del dirigente RAI, che dopo aver temporeggiato con documentari sui fiori del Molise e sul Brunelleschi pur di non mostrare gli esiti elettorali, capisce l’andazzo e cerca di regolarsi di conseguenza spingendo una cantante invitata in studio a cambiare immagine e repertorio “in corsa” ed incitandola a cantare canzoni sempre più “di protesta, anarchiche, di sinistra!”.

Dimitri Tamarov è Matruch, il fotografo

“Non abbiamo colbacchi, signor Generale!”

Oltre ai politici, con il loro linguaggio vacuo e con i loro tatticismi paradossali e ipocriti, il film non risparmia bordate ai nostri “alleati” statunitensi e ai loro portenti tecnoscientifici, prontamente rinnegati all’occorrenza.
Sferzate anche alle figure militari e alla classe più agiata che si da alla fuga sugli yacht presa dal terrore della vittoria delle classi “inferiori”.

Non sfuggono all’ispirazione distruttiva di Salce le persone comuni: memorabili l’assalto alla merceria e l’amplesso continuamente frustrato di Orchidea De Santis e Silvano Spadaccino (lei si concede solo se vince la DC).

Ma chi esce più ridicolizzata è la democrazia stessa, con il suo inutile rito sotteso del voto popolare.

Di carne al fuoco il regista romano ne mette veramente tanta in quest’opera, dispiegando una galleria di personaggi piccoli, cinici e pavidi, che compongono un puzzle apocalittico di rassegnata ferocia.

I due fidanzati, Orchidea De Santis e Silvano Spadaccino

“Col cavolo!”

Alla fine la stagnazione prevale: una vittoria dei comunisti avrebbe scontentato tutti e messo in pericolo la pace. Per cui la sinistra rinuncia a governare e preferisce proseguire la “lotta” all’opposizione, per proprio bieco tornaconto ed in barba alla volontà del popolo.

L’epilogo della vicenda è tremendamente realistico e italiano, e basta da solo a spiegare il perché questo film interessantissimo sia stato criticato, boicottato e poi dimenticato per decenni.

Copertina della colonna sonora del film

UNA SCENA DEL FILM “COLPO DI STATO”

“Colpo Di Stato” (IT 1969) di Luciano Salce

Regia: Luciano Salce
Soggetto: Ennio De Concini
Sceneggiatura: Ennio De Concini
Casa di produzione: Vides Cinematografica
Fotografia: Luciano Trasatti
Montaggio: Sergio Montanari
Effetti speciali: Giancarlo Urbisaglia
Musiche: Gianni Marchetti
Scenografia: Giorgio Giovannini

Personaggi e interpreti

Luciano Salce: se stesso
Dimitri Tamarov: Matruch, il fotografo
Raffaele Triggia: Segretario del PCI
Alberto Plebani: Presidente del Consiglio
Amedeo Merli: Giordano
Anna Maria Capparelli: Moglie di Giordano
Bebert Marboutie: Presidente degli Stati Uniti
James E. Mishener: Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia
Vittorio Ripamonti: Membro della segreteria del PCI
Giovanni Rionni: Claudio Villa
Orchidea De Santis: La fidanzata
Steffen Zacharias: George Bradis, l’inventore del calcolatore
Silvano Spadaccino: Il fidanzato di Anna Ferretti
Anna Casalino: Anna Ferretti
Giuseppe Ravenna: Generale dei Servizi
Luigi Valanzano: Politico del PCI
Janet Agren: Fotomodella

 

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Yume, Yume No Ato (1981) / Dream, After Dream – Journey (1980)

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Questa è di nuovo la storia di un misterioso film perduto e della sua splendida soundtrack realizzata dai Journey. "Yume, Yume No Ato” è un mistero su pellicola, una favola esoterica che fu realizzata dallo stilista giapponese Kenzo Takada nel 1980

Lorenzo

Locandina del film

“Yume, Yume No Ato” è un mistero su pellicola, una favola esoterica che fu realizzata dallo stilista giapponese Kenzo Takada nel 1980.

La storia ufficiale narra che alla fine del 1978 il produttore Hiroaki Fujii inviò una missiva a Kenzo Takada tramite un’attrice: «Caro signor Kenzo Takada, ho saputo che lei è molto interessato al cinema e mi chiedevo se le sarebbe piaciuto lavorare con me a una produzione interessante».

Un’altra storia, ormai scomparsa da anni e quindi non più verificabile, parlava di un coinvolgimento anche di Salvador Dalì e altri esponenti della nobiltà francese e ispanica.

Comunque sia Kenzo si diceva non in grado di dirigere un film ma il signor Fujii fu talmente entusiasta ed insistente che lo stilista finì col cedere, diventando al tempo stesso soggettista, costumista, direttore artistico e regista.

Kenzo si ispirò ad un mondo fiabesco come quello de “I racconti della luna pallida d’agosto” di Kenji Mizoguchi: un giovane tessitore incontra una coppia di bellissime sorelle in riva ad un lago. La sorella maggiore si chiama Tsuki (Luna) e la sorella minore si chiama Yuki (Neve). Il giovane è attratto dall’immagine e dagli spiriti ammalianti delle sorelle ed è completamente alla loro mercé.

Kenzo con Anicée Alvina (Tsuki)

Come location fu scelto il Marocco, come mix di culture al crocevia tra Oriente e Occidente. Nel luglio 1980 la troupe si diresse a Zagora, vicino al deserto del Sahara. Era un luogo vasto, con montagne bruno-giallastre e deserto che si estendeva a perdita d’occhio. Le temperature diurne arrivavano a raggiungere i 50 °C e Kenzo racconta che in un solo giorno abbiano consumato 250 bottiglie da 1,5 litri di Evian.

Le riprese si rivelarono una difficoltà dopo l’altra. Gli attori erano per lo più italiani e francesi e lo staff prevalentemente giapponese, quindi problemi di comunicazione impedivano di procedere senza intoppi.

Oltre al caldo da svenimenti ci furono anche incidenti di percorso inaspettati come quando l’unità artistica rimase impantanata in una palude senza più riuscire ad uscirne o una scena in cui un cavallo condotto dal protagonista doveva crollare per la fatica ma si rivelò resistente all’anestetico perchè i cavalli marocchini mangiano regolarmente cannabis selvatica e quindi il farmaco risultò del tutto inefficace.

Il budget di produzione era di 400 milioni di yen. Per la colonna sonora Kenzo voleva i Journey e, grazie agli sforzi di Fujii, il gruppo accettò rinunciando a un tour europeo.

Anicée Alvina (Tsuki)

Il titolo originale del film, “Yume, Yume No Ato” (Il Sogno, dopo il Sogno), venne tradotto in inglese e francese e la Prima, con estrema ansia di Kenzo, avvenne a Parigi:

«I parigini hanno un senso dell’estetica estremamente spietato, era il posto peggiore e lo sapevo.
Vennero 300 persone e, quando scoppiò una risatina durante una scena critica che avrebbe invece dovuto far commuovere il pubblico fino alle lacrime, capii che non ero riuscito a creare l’atmosfera che volevo. Ad un certo punto il pubblico iniziò ad alzarsi e ad andarsene nel bel mezzo del film.
Fu un fiasco totale. E fu tutta colpa mia. Avevo causato notevoli problemi a tutte le persone coinvolte, non da ultimo a Fujii.»

Da persona gentile e d’onore Kenzo si assunse quindi ogni responsabilità e, rimasto profondamente ferito dalla maleducazione del pubblico francese, decise di bloccare la distribuzione del film, il quale è stato trasmesso solo un paio di volte sulle tv giapponesi ed è scomparso, a quanto pare finora.

Anicée Alvina (Tsuki)

Le musiche

I Journey erano allora una delle band di maggior successo sia discografico che live della CBS, avevano prodotto tre album di jazz progressivo per poi acquisire un cantante e virare verso un AOR commerciale di grande stile ed erano reduci dal successo dell’album “Departure”, che si era piazzato all’ottavo posto della classifica Billboard 200 degli album.

La colonna sonora di Yume, Yume No Ato (Dream, After Dream appunto) venne realizzata nello spazio di tempo tra “Departure” e “Escape” e fu il settimo disco dei Journey, rappresentando un parziale ritorno alla vena progressive degli inizi del gruppo.

È l’ultimo album con il tastierista e membro fondatore del gruppo Gregg Rolie e delle sue nove tracce solo tre sono cantate, mirabilmente, da Steve Perry mentre le restanti sono strumentali. Gli arrangiamenti orchestrali furono curati dal padre di Neal Schon, Matthew, e “Destiny” rappresenta a tutt’oggi il brano più lungo finora registrato dai Journey.

Le registrazioni avvennero presso gli studi CBS/Sony Shinaromaki di Tokio tra il 13 e il 22 ottobre 1980. Al periodo di registrazioni venne abbinato un tour giapponese che sfociò poi in un paio di brani inclusi nel loro seguente album “Captured” e registrati proprio la sera del 13, data finale al Koseinenkin Hall di Shinjyuku.

La musica è estremamente ispirata e ben suonata, si percepisce tutto l’impegno e la passione di una band che una volta tanto è libera di creare e lavorare fuori dalle regole commerciali alle quali è normalmente costretta.

Le composizioni si presentano come opere separate, dove la loro cinematicità si riflette nell’uso generoso della sezione degli archi, che conferisce loro un carattere misterioso etereamente romantico, sempre interamente nel contesto dell’estensione vocale di Perry, il quale canta come mai abbia fatto prima e dopo di allora.

I ritmi rock più duri sono rari ma nelle dinamiche emotive Dream After Dream supera qualsiasi cosa i Journey abbiano mai realizzato. I lunghi passaggi dei lenti e meditati assolo di chitarra sottolineano perfettamente il paesaggio dei sogni.

Il disco fu stampato solo per il Giappone, venne pubblicato il 10 dicembre 1980 e rappresentò una sorpresa sia per i fan del gruppo che per la critica entusiasta quando, anni dopo, ne emerse l’esistenza grazie ad internet (Negli Usa ne era silenziosamente uscita solo una versione in cassetta nel 1985) e alle importazioni dal Giappone.

Del film invece, ancora nessuna traccia.

Se non che…

L’intero album “Dream, After Dream” dei Journey

La sinossi del film

Un giovane tessitore senza nome (Enrico Tricarico, già visto nella parte del direttore del “Villaggio 27” in “I viaggiatori della sera” di Ugo Tognazzi) parte alla ricerca della felicità. Un saggio indovino (Léo Campion) dice al giovane che la troverà sulla riva opposta di un lago a sud, lui ascolta il consiglio e vi si dirige.

Dopo aver attraversato il deserto l’uomo arriva al lago e trovando una barca abbandonata nelle vicinanze salpa a tarda notte.

Al sorgere del sole egli perde conoscenza e al risveglio scopre di essere stato portato in un antico castello all’estremità opposta del lago. Questo castello ospita due sorelle misteriose di nome Tsuki (Anicée Alvina) e Yuki (Anne Consigny), l’ultima delle quali lo aveva trovato e portato in salvo.

Sebbene affascinato da Yuki l’uomo si innamora di Tsuki che lo invita a fare l’amore. L’uomo inizia a tessere per entrambe ma mentre i tessuti che crea per Tsuki sono particolarmente belli, Yuki trova che i suoi siano inferiori.

La brochure del film

Enrico Tricarico (il giovane)

Anicée Alvina (Tsuki)

Anne Consigny (Yuki)

Un giorno Tsuki e l’uomo si incontrano fuori dal castello e fanno l’amore su un letto di fiori. Al loro ritorno Yuki viene a sapere della loro storia d’amore e ne è rattristita. Le due sorelle iniziano a litigare e l’uomo si sente in colpa per l’animosità che ha causato.

Come risultato della lite Tsuki decide che dovrà uccidere l’uomo e lo invita a letto un’ultima volta. Tuttavia, avvolta nel suo abbraccio, scopre di non riuscire a pugnalarlo.

Fugge quindi sulla terrazza seguita dal giovane che osserva con soggezione Tsuki mentre lei si trasforma lentamente in un uccello, spiega le ali e prende il volo. Yuki la imita e, mentre vola via, in lontananza sussurra con rammarico all’uomo che pur essendo troppo bello e meraviglioso per poter essere amato da loro, entrambe si erano comunque innamorate di lui.

L’uomo grida al cielo per confessare il suo vero amore e viene lasciato da solo ad affrontare il proprio destino.

Anicée Alvina (Tsuki) si trasforma in Uccello.
La passione e l’accuratezza simbolica di Kenzo si spinse fino allo scegliere attrici di due segni zodiacali d’aria per il ruolo di Tsuki e Yuki: Acquario la Alvina e Gemelli la Consigny…

Il progetto fu annunciato in una conferenza stampa il 16 giugno 1980 e fu una coproduzione giappo/francese poiché il cast era composto in buona parte da attori francesi mentre i membri della troupe erano di entrambe le nazionalità.

Kenzo con Anicée Alvina (Tsuki), Liliana Gerace (governante), Anisée Alvina (Tsuki), Anne Consigny (Yuki) ed Enrico Tricarico (il giovane)

Kenzo Takada scrisse il soggetto del film insieme a Xavier De Castella, suo compagno di allora, e Yoshio Shirasaka fu lo sceneggiatore.
Hiroaki Fuji e Tatsuo Funahashi ne furono i produttori,
Tatsuji Nakashizu fu lo scenografo,
Senji Horiuchi e Julien Cloquet furono i tecnici del suono,
Setsuo Kobayashi fu direttore della fotografia.

Kenzo con cast e troupè

Il film uscì ufficialmente il 24 gennaio 1981 con una durata di 101 minuti.
Il titolo francese è “Rêve, après Rêve” ovvero sempre “Il sogno, dentro il Sogno”.
Si intuisce che la natura del film fosse molto intimista e metaforica e che di conseguenza richiedesse una certa sensibilità e predisposizione delle quali non tutti possono essere dotati, mentre l’educazione dovrebbe essere cosa comune a tutti.

A causa della scortesia del pubblico parigino Kenzo si sentì talmente umiliato che rifiutò sempre di pubblicarlo in home video o dvd e dopo il suo decesso le speranze di poter recuperare una copia di questo film sembravano ancora più vane ma negli ultimi mesi ne è incredibilmente saltata fuori una copia in DVD con menù interattivo che è in possesso di un signore americano e che pare sia stata estratta da una VHS, forse registrata da uno dei rarissimi passaggi tv giapponesi.

Non è chiaro se questa copia verrà mai messa a disposizione del pubblico ma forse la casa produttrice TOHO-TOWA Company si deciderà un giorno a ristampare il film e distribuirlo.

 

Importante Aggiornamento:

Alcuni mesi dopo l’uscita di questo articolo, fortunatamente un collezionista è riuscito a scovare e mettere in condivisione una copia non completa del film che, anche se mancante di circa una mezz’ora, riesce a rendere un’idea del film a chi come il sottoscritto stava cercando di poterlo visionare da decenni.

CLICCA E GUARDA LA RARISSIMA COPIA DEL FILM MESSA IN CONDIVISIONE DAL COLLEZIONISTA AMERICANO!

Sono disponibili anche i sottotitoli in italiano a cura della redazione di Asianworld.it che ringraziamo caldamente per il loro lavoro!

“Yume, Yume No Ato” (Jp/Fr) di Kenzo Takada

Regia: Kenzo Takada
Soggetto: Kenzo Takada, Xavier De Castella
Sceneggiatura: Yoshio Shirasaka

Costumi: Kenzo Takada
Scenografia: Tatsuji Nakshizu
Fotografia: Setsuo Kobayashi
Suono: Senji Horiuchi, Julien Cloquet

Produttore:Hiroaki Fujii, Tatsuo Funahashi

Musiche: Journey (Neal Schon: chitarre, cori – Gregg Rolie: tastiere, armonica – Ross Valory: basso, pianoforte, flauto – Steve Perry: voce e cori – Steve Smith: batteria e percussioni) – Produzione: Kevin Elson

Personaggi e interpreti

Enrico Tricarico: Il Giovane
Anicée Alvina: Tsuki
Anne Consigny: Yuki
Léo Campion: Veggente
Liliana Gerace: Governante