”L'ultimo film di Elio Petri è un testamento che contiene un grido silenzioso e disperato.
The Boss
Dopo molti anni sono stato folgorato dal ritrovamento casuale di questo film e lo abbiamo visionato la sera stessa.
Questo articolo contiene spoiler (anticipazioni di trama) dall’inizio alla fine, si consiglia di guardare prima il film e poi tornare a leggere l’articolo.
In una Roma angosciantemente ricolma di immondizia ovunque, si svolge la tragedia di un uomo ridicolo, anzi, di una umanità ridicola e ipocrita, sempre più preda dell’ego e del vuoto narcisismo che contraddistingue i tempi attuali.
Il protagonista, innominato, è il simbolo incarnato di una umanità triste e puerile, che si nutre solo di materialismo, egoismo, sesso senza senso, dove i valori sono l’ombra di loro stessi, ormai solo un retaggio cattolico citato unicamente per salvare le apparenze e mettere a tacere la propria illuridita coscienza.
L’inversione dei costumi e un nuovo agguerrito femminismo sono alle porte, i metaforici “pantaloni” sono adesso un costume femminile, e la femminilizzazione della figura maschile è già in atto: è l’oggi.
In questa società devastata e devastante, si muove, malissimo, come il peggior pesce fuori d’acqua, l’innominato impersonato da Giannini, un ometto viscido al quale è stato affidato un ruolo di dirigenza in una grande stazione televisiva, fin troppo facilmente immaginabile di quale si possa trattare.
Questo omuncolo, che passa la sua vita tra il vittimismo e i continui tg catastrofici che emettono solo notizie terroristiche, è il centro di una storia surreale che si tinge di giallo.
Egli viene un giorno avvicinato da un vecchio amico di scuola ormai quasi dimenticato, che gli confessa il suo timore di venir presto ucciso da una ignota associazione che, per qualche non chiaro motivo, lo ha preso di mira con lo scopo di eliminarlo.
Gualtiero, lo strano personaggio interpretato da Paolo Bonacelli, sembra avere una forte attrazione verso l’innominato e dichiara più volte che questi è il suo più grande amico, cercandolo continuamente per tentare di coinvolgerlo nella propria vita, spingendolo anche tra le braccia della moglie, con la quale ha un rapporto di reciproca massima “libertà”, dicendosi felice che i due possano fraternizzare, visto che lui verrà presto ucciso e si dichiara unicamente interessato alla pratica della masturbazione, fatto che pare rafforzato da un manuale che si porta sempre dietro.
L’innominato ha una giovane moglie, insegnante, che ha spesso comportamenti infantili o adolescenziali e con la quale vive un rapporto di continui contrasti ma nel quale è comunque sempre viva la componente sessuale.
Nonostante questo, l’innominato cerca continuamente e goffamente conferme del proprio fascino da altre donne, che cerca sempre di circuire per soddisfare il proprio narcisismo, arrivando poi a non stringere mai nulla perché, come detto da Ada, moglie di Gualtiero, innominato non è altro che un mentalista moralista che non può godere naturalmente di nulla nella vita, nemmeno di 10 minuti di sesso liberatorio.
Il rapporto con il ritrovato Gualtiero si rivela sempre più sconvolgente per lui, che comincia a sospettare un interesse che và al di là dell’amicizia. Inoltre rivelerà di essere fortemente in difficoltà con la fissazione dell’amico, che vive in attesa del suo assassino, perché l’innominato stesso ha una paura folle di morire.
Non manca assolutamente nessun difetto a questo personaggio mai citato per nome, egli è proprio la perfetta allegoria di ogni bassezza umana e arriverà a rivelare del tutto la propria ipocrisia quando la moglie, che gli aveva dichiarato di essere incinta, gli confesserà di esserlo in realtà di Gualtiero, con il quale aveva una relazione, dicendogli di averla avuta perché Gualtiero gli ricorda lui.
Gualtiero verrà finalmente ucciso e l’innominato si recherà all’ospedale dove aveva lasciato l’amico, mettendo in atto una scena pietosa nella speranza di scagionarsi da un’eventuale accusa di omicidio.
Il commissario di polizia che lo interroga sul posto, rimanendo fortemente colpito da questa ipocrita recita, comincia a dubitare che i due potessero avere una relazione e, ridendo, lo getta in faccia all’omuncolo, il quale, stizzito come suo solito, negherà quello che già dentro di sé in realtà teme.
Il film finisce nel solito parco dove il personale della emittente TV è solito andare durante le telefonate bombarole tipiche di questa società marcia. Sono proprio queste scene nel parco a puntare maggiormente il dito su quanto l’umanità si sia ridotta ad una puerile massa di adulti che sono in realtà adolescenti mai cresciuti.
Nell’ultima scena, l’innominato aprirà una busta che Gualtiero gli ha lasciato, sulla quale c’è scritto “da non aprire” e la quale contiene altre buste a matrioska con la stessa dicitura e alla fine una serie di biglietti con sempre scritto “da non aprire”, che innominato/umanità cercherà di buttare via e in seguito ad un ripensamento, raccogliere, come ultima risorsa per ritrovare sé stesso/a.
La citazione simbolica è ancora al famoso memoriale di Aldo Moro, già citato nel finale della sua opera precedente, ‘Todo Modo’, che fa capire che molto probabilmente ci troviamo davanti al secondo capitolo di una trilogia della quale il suo incompiuto “Chi illumina la grande notte” era il capitolo finale che, forse, mai vedremo.
Il comparto recitativo è eccellente: troviamo un Giannini in grande spolvero, un Bonacelli perfettamente in parte, il simpatico Ninetto Davoli in un ruolo molto marginale e un esilarante Franco Javarone nel ruolo del commissario.
Il misterico lato femminile si avvale di una giovane Angela Molina, già molto brava, nella parte di Fedora, la giovane moglie dell’innominato, Aurore Clément, eccellente nel ruolo di Ada, moglie di Gualtiero e una sorprendente ed affascinante Ombretta Colli nel ruolo della Tignetti, collega del protagonista. Si registra una apparizione della giovane e attraente Ritza Brown nel ruolo di Benedetta, amica di Fedora.
Venne proposto un ruolo anche a Giorgio Gaber, il quale rifiutò proponendo invece di prendere, appunto, la moglie Ombretta Colli.
Di tutti i film di Petri, questo è sicuramente il suo più triste e sconsolato atto di denuncia, arrivato quasi in punta di piedi alla fine di una grande carriera dedicata al denudare l’umanità dalle ipocrisie e dal provincialismo e perbenismo cattolico.
Dopo la lucida ma arrabbiata analisi attuata nel precedente Todo Modo, scintillante pur nel suo essere profondamente ammantata di gesuitica oscurità, in Buone Notizie, come accade al suo protagonista, sembra non riuscire a trovare pace e non vede una possibile soluzione a questa società marcia e contorta nell’intimo.
I fiumi di immondizia presenti ovunque, strade, parchi, marciapiedi, lungo il tevere e sulle spiagge, sono il più chiaro e ovvio simbolo di quello a cui l’umanità si sta riducendo e allo stesso tempo sono il simbolo di malagestione che i personaggi alla guida della nostra società ci stanno imponendo da anni, annichilendo l’animo umano, costretto a questa immagine di marciume e bruttura.
La figura femminile è rappresentata come una sorta di scultura modiglianesca che, con un misterioso sorriso giocondiano (e senza astenersi dallo sferrare qualche salace giudizio critico), contempla la puerilità di questa umanità resa folle da preconcetti e ingegneria sociale, quelle armi che l’umanità stessa tollera e si autoinfligge per continuare a servire un ridicolo ordine sociale che non ha alcun altro scopo che rovinarla.
Con questo suo ultimo disperato atto di amore, Petri, spera di risvegliare l’umanità da questo sordido torpore di comodo, prima che arrivi all’inevitabile autodistruzione alla quale stiamo assistendo proprio adesso, in questo preciso istante.
Trailer del film “Buone Notizie”