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L'ultima fatica di Ari Aster potrebbe essere il perfetto capitolo finale di una sua virtuale “Trilogia della condizione umana nel nuovo millennio” o di come possa essere difficile conservare traccia di sanità mentale nell’escalation di pazzia che la sta travolgendo.

The Boss

Si narra che le pene d’amore nascano nel 1774 con l’uscita del romanzo I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, sua opera giovanile simbolo dello Sturm und Drang e che precorre di poco il romanticismo tedesco.

 

Si narra che il libro fosse maledetto e che qualcosa scattasse nella mente dei giovani, una sorta di cieca follia contagiosa o un comando ipnotico che li conduceva alla decisione di compiere l’insano gesto… O forse era solo imitazione modaiola da parte di annoiati ragazzotti di ricca famiglia… O forse semplicemente l’inizio del marketing e dell’influencing basato su invenzioni e menzogne.

Prima edizione del romanzo I dolori del giovane Werther

Ma analizziamo pure le connessioni con i rituali magici, o meglio i rituali di magia Nera: è ben noto agli studiosi di esoterismo (ma anche agli appassionati di letteratura e cinematografia fantastica/horror) il fatto che i rituali magici servano a creare/nutrire una egregora o forma pensiero con uno scopo ben preciso che è chiaro fino in fondo solo al creatore di questa.

E’ altresì ben noto che tale forma pensiero necessiti di esser fortemente nutrita, ragion per cui servono adepti che prestino la loro energia e volontà, non è detto però che debbano per forza essere al corrente dello scopo di tale egregora o addirittura della sua creazione/esistenza (esempio spiccio e futuristico sono i “campi dove gli esseri umani vengono coltivati” visti in Matrix).

Tali rituali nel tempo potrebbero aver cambiato faccia e assunto altre sembianze come scuole (alzi la mano chi ha pensato a Suspiria), professioni (…L’avvocato del diavolo?), corporazioni con marchi aventi simboli “magici” come logo o addirittura occasioni considerate di svago come i grandi concerti e festival che attirano enormi quantità di persone, perlopiù giovani (più si è giovani e meno saggi si è e più energia si è in grado di produrre), verso i quali si può venir adescati con un miraggio o scopo esistenziale/religioso.
Potrebbe essere facile immaginare un piccolo tempietto o sala di controllo, anche celato, nelle immediate vicinanze o nella struttura stessa (qualcuno penserà al film Quella casa nel bosco).

La miglior maniera di spremere energia da una persona è l’indottrinarla (programmarla) ad uno scopo tramite trauma, dolore, paura.

E qua mi fermo perché mi rendo conto che sto deviando dallo scopo principale che è parlare del cinema di Ari Aster e soprattutto del suo ultimo Beau ha paura, eventuale perfetto capitolo finale di una virtuale “Trilogia della condizione umana nel nuovo millennio” o di come possa essere difficile conservare traccia di essa nell’escalation di pazzia che la sta travolgendo.

Aster parla sempre di rapporti di famiglia e coppia, non parla della scuola

E questo è strano perché la scuola è un mostro sociale, la prima fonte di traumi: separazione netta dalla famiglia, indottrinamento e verifica di questo tramite interrogatori, test, giudizi perentori provenienti da docenti che più spesso instillano confusione invece che insegnare e chiarire dubbi.

La scuola è la prima esperienza con la violenza e il bullismo (spesso provenienti dall’istituzione stessa), con la divisione in classi sociali e l’esclusione dalla vita di gruppo.

Non è un caso che il malessere degli anni di scuola non lo dimentichi mai nessuno e che il suo imprinting si spinga fino al sognare interrogazioni, esami e altre situazioni spiacevoli e/o trascinarsi certi traumi anche nella vita adulta anche per molti anni.

Oggi tutti parlano della scuola, molto in male e poco in bene, basta che se ne parli, che si distrugga la scuola come istituzione, o meglio il concetto originale con cui è stata istituita: fornire gli strumenti per formare e accrescere la propria cultura. Questo e non altro.

Aster invece la scuola la aggira, lui parla della famiglia, della coppia, della madre.

Ari Aster

La visione asteriana della famiglia

Ari Aster è uno dei pochi davvero interessanti nel mainstream oggi, un ragazzo notevolmente dotato sia come soggettista/sceneggiatore che come regista di gran livello tecnico.

Che Aster (o chi per lui) non facesse prigionieri lo si era capito fin dal debutto Hereditary, dove analizzava la famiglia odierna paragonandola ad una figura malata e maligna: una matrigna che si muove attraverso trame demoniache ben coadiuvate dalla porzione femminile che, ormai malata di un’ingombrante ego ipertrofico, si sente l’unica parte irrinunciabile dell’equazione, calpestando come uno schiacciasassi ogni figura maschile, che sia la metà “donatrice” della famiglia o il suo “prodotto”.

E nel caso dei figli non si fa problemi a calpestare anche il femminile.

Il secondo film asteriano, Midsommar, analizza il mondo femminile odierno attraverso il distorto punto di vista femminista e wiccano della questione, costantemente nutrito da un ipocrita e strumentale vittimismo strisciante che si spinge fino a ribaltare ogni logica e verità.

E’ un film gonfio e pesante, anche noioso (la tipica sindrome del capitolo centrale delle trilogie) costantemente pervaso da un’atmosfera malata e ben descrittivo anche della situazione scandinava.

Aster/Beau

In Beau invece, a chiudere questa sorta di trilogia “asteriana”, viene analizzato il punto di vista maschile ed è ovvio che nella società degli anni 20 del 2000 sia anche il più sofferto e che necessita i suoi tempi.

E’ un film che tutti dovrebbero guardare ma che oggettivamente potrà essere capito fino in fondo solo dagli uomini.

Esagerata la metafora della società?
No, tanto da non essere affatto una metafora ma pura descrizione della realtà odierna: un incubo.

Esagerata la figura della ragazzetta Toni?
No, è esattamente la condizione mentale della femmina new generation: instabile, violenta, manipolatrice e ricattatrice.

Esagerata la figura della madre folle dall’egoistica possessività, manipolazione e impositività?
No, tanto da essere addirittura sottotono, pietosamente contenuta verso la figura materna follemente esaltata dalle correnti femenwoke di oggi.

Però il finale pesta a tavoletta sulla criminale colpevolizzazione messa in atto contro il maschio bianco fin dalla nascita (il film è ovviamente “BLM safe”) anche dai vari conniventi (la scena finale , che cita The Truman Show, con l’accusa criminalmente traditrice maschile mentre la madre osserva compiaciuta – un grosso parallelo con la Mother del The Wall di watersiana memoria).

Joaquin Phoenix è Beau Wessermann

“Non ci sono più gli uomini di una volta”

Aster è ben chiaro: il maschio viene sacrificato dalla società perché senza il maschile la figura della famiglia soccombe sotto lo strapotere del femminile lasciato a sé stesso e inconsapevolmente sofferente di questo.

Dal Peter di Hereditary, al Christian di Midsommar fino a Beau, i maschi moderni di Aster sono degli esseri svuotati della loro consapevolezza a forza di traumi e manipolazione, ridotti a dei recipienti che vengono poi forzosamente riempiti di una sorta di forma-pensiero perversamente distorta, una egregora che ha preso piede oggi in occidente: il Neofemminismo Nero.

E dopo questa preparazione, che dura anni, vengono TUTTI regolarmente SACRIFICATI.

“Non ci sono più gli uomini di una volta” è la lamentosa litania vittimista, ripetitiva e provocatoria, che da anni ci sfonda gli attributi, la forma-pensiero nera studiata da una “regia occulta” e tramandata da megafoni umani eternamente insoddisfatti pure della loro stessa ampissima “libertà” odierna, loro stessi ormai ridotti a degli automi.

Automi dissociati che per sentirsi vivi sono eternamente bisognosi di un continuo confronto bipolare e violento con una figura maschile che amano e odiano, con l’inconsapevolezza tipica di chi, non avendo conoscenza diretta col vero maschile, vive tramite un programma di memorie distorte imposto dalla regia occulta che le manovra e senza avere la minima coscienza che con il loro comportamento non fanno che contribuire a cristallizzare questa frase rendendola reale anche tramite l’egoismo con il quale interpretano il loro ruolo di madre, anche questo imposto e regolato dallo stesso programmatore esterno a loro.

In tutto questo però non hanno nemmeno coscienza del fatto che, per contro, “non esistono più nemmeno le donne di una volta”, essendo quelle di oggi nient’altro che la versione femminile esaltata della da loro tanto odiata idea di figura maschile (forma-pensiero distorta sempre derivante da programmazione esterna).

Non è un caso che in Hereditary tutte le tre generazioni femminili della famiglia perdano fisicamente e simbolicamente la testa in favore dell’entità alla quale si sono votate.

Conclusioni

Beau è un film estremamente drammatico, una sorta di pellegrinaggio dentro una mente profonda, sensibile ma disfunzionale, perseguitata da una sfortuna atroce e consequenziale: forse il vero viaggio nell’orrore più profondo.

Eppure Aster lo ha pensato come una commedia buffa e triste e quando lo riguarda scoppia ancora a ridere (lo ha fatto uscire come anteprima il primo di aprile).
Per certi versi concordo col fatto che la commedia amara della vita andrebbe osservata così, soprattutto se contiene elementi autobiografici.

Ed è probabilmente anche la via meno letale per guardare questo film che, con tutta le difficoltà che si porta dietro, si rivela un vero e proprio calvario; un lavoro interiore al quale è consigliabile prestare il massimo dell’attenzione anche nell’analisi dei simboli, tanti e sparati a raffica, perché sarà assai difficile venga voglia di soffrire una seconda volta le 3 ore dell’epopea di questo “povero cristo”, stracolma di dolore e talmente piena di messaggi da non dare scampo (e fortunatamente neppure noia).

Lavoro certosino, visionario ancora più dei precedenti e tecnicamente perfetto sotto ogni punto di vista e con grande sfoggio di recitazione da parte di Phoenix, contiene anche una bella sequenza di 12 minuti in animazione stop-motion, usanza ormai assimilabile al nuovo neorealismo americano.

Il film dentro il film, il sogno dentro al sogno.

 

Buona visione e Buon Lavoro.

“Beau Ha Paura” (Beau Is Afraid) – USA, 2023

Regia: Ari Aster
Soggetto e sceneggiatura: Ari Aster
Produzione: Ari Aster, Lars Knudsen

 

Interpreti

Joaquin Phoenix: Beau Wessermann
Armen Nahapetian: Beau da giovane
James Cvetkovski: Beau da bambino
Patti LuPone: Mona Wessermann
Zoe Lister-Jones: Mona da giovane
Amy Ryan: Grace
Nathan Lane: Roger
Kylie Rogers: Toni
Denis Ménochet: Jeeves
Parker Posey: Elaine Bray
Julia Antonelli: Elaine da giovane
Stephen McKinley Henderson: dott. Jeremy Friel
Richard Kind: avvocato Cohen
Hayley Squires: Penelope
Maev Beaty: Angelo
Julian Richings: uomo sconosciuto
Bill Hader: fattorino UPS
Patrick Kwok-Choon: eroe
Alicia Rosario: Liz
Michael Gandolfini: figlio di Beau
Théodore Pellerin: figlio di Beau

Fotografia: Pawel Pogorzelski
Montaggio: Lucian Johnston
Musiche: The Haxan Cloak
Compagnie di produzione: A24, Access Industries, IPR.VC, Square Peg

Data di uscita

1 aprile 2023 (April Fools’ Day event at Alamo Drafthouse Cinema)
21 aprile 2023 (Stati Uniti)
27 aprile 2023 (Italia)

Durata
179 minuti

Candidature e premi

Hollywood Critics Association Midseason Film Awards:

Best Actor Joaquin Phoenix (Nomina)
Best Supporting Actress Patti LuPone (Nomina)

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