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Dedicato a Mario Maggi (parte seconda)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Con tutta probabilità il monofonico più potente ed accessoriato progettato e costruito ai tempi, il MCS70 fu un progetto di innovazione: molto facilmente il capostipite dei monofonici con le memorie (richiamabili addirittura in 5 millisecondi), realizzato ancor prima che fossero disponibili sul mercato le prime memorie su circuito integrato, doppio filtro, routing di modulazione complesso, tastiera con sensori a infrarosso che annullavano i problemi meccanici.

Lorenzo

Stabilità assoluta degli oscillatori garantita dai migliori componenti analogici mai prodotti, utilizzati in quello stesso periodo solo da Buchla e Roland. Uno sconosciuto ed oscuro capolavoro di ingegneria Italiana che ha resistito per quasi 50 anni alla prova del tempo e dell’evoluzione tecnologica.

Ma per capire meglio di cosa stiamo parlando è meglio dare uno sguardo alle specifiche sulla brochure:

Si trattava di una macchina totalmente avveniristica e Maggi pensava in grande, quindi per la promozione pensò alla creazione di un progetto discografico che avrebbe prodotto un 33 giri interamente creato utilizzando il solo MCS70: un’autentica demo da usare come campagna promozionale per la sua creatura, in vista delle fiere del seguente anno.

Maggi contattò l’amico Romano Musumarra del gruppo “La bottega dell’Arte” e che era già sotto contratto con la EMI.

Musumarra introdusse Maggi all’etichetta, la quale accettò la proposta, concedendo per sole 4 settimane i suoi studi di Roma e suggerendo Claudio Gizzi come membro da aggiungere al progetto, data la sua formazione classica e la maggior esperienza.

I due musicisti si occuparono della composizione di una facciata ciascuno, Gizzi il lato A e Musumarra il lato B, mentre Maggi stesso si occupò della programmazione del suo sintetizzatore e nacque così Automat, album di synth pop/dance che è diventato un mito tra appassionati e addetti ai lavori.

Dal disco vennero tratte almeno due hit di successo, delle quali una in particolare, Droid, venne successivamente usata per una miriade di sigle televisive in Italia e all’estero (in Brasile, grazie anche all’uso che la Rete globo ne fece, divenne una hit da classifica): nessuna sorpresa che sia ancora oggi un disco di culto, al quale si ispirano molte delle attuali synth band revivaliste.

Booklet dell’album Automat

Album Automat (1978)

Da questo glorioso debutto del MCS70 rimase particolarmente impressionato Jean Michel Jarre, che ricevette una copia di Automat direttamente da Mario Maggi nel 1978:

“Durante la Musikmesse ho conosciuto il sig. Cavagnolo. Mi invitò a Parigi per presentare il mio MCS70 in una serie di conferenze. Cavagnolo era stato contattato da Jarre una settimana prima per altre questioni, per questo aveva il suo numero di telefono. Il primo incontro che Cavagnolo organizzò per me dopo la manifestazione fu in privato con Jarre”.

Pare che Jarre fosse rimasto talmente impressionato dall’MCS70, da volerne acquistare uno all’istante.

L’MCS70 aveva ricevuto così tanti apprezzamenti che Maggi ormai faceva progetti per la grande produzione…però proprio allora uscì il Prophet 5, che, a causa della polifonia a 5 voci (benchè a detta di chi ha potuto esaminare entrambe le macchine, l’ago della bilancia della qualità pendesse decisamente a favore del MCS), mise purtroppo KO il glorioso MCS sul nascere, anche se Maggi si prenderà in seguito una bella rivincita morale sul Prophet, ma di questo parleremo in seguito.

E’interessante la descrizione che Maggi fa della sua creatura:

“MCS70 era un progetto di sintetizzatore monofonico programmabile, realizzato in un’epoca in cui ancora non c’erano microprocessori, era interamente costruito con logica discreta ed era l’anno che stavano arrivando i primi microprocessori. Fare un software per i nuovi componenti era un’avventura, non c’erano sistemi di sviluppo e tantomeno a basso costo.

Dopo diversi anni di costruzione di soli sintetizzatori convenzionali, con programmi non memorizzabili, nel 1972 ho realizzato che avrei potuto sviluppare una versione completamente programmabile di un sintetizzatore. Senza l’aiuto di nessuno, dovetti fare a meno di un microprocessore. Da quanto mi ricordo, scrissi i codici su un minicomputer DIGITAL PDP 11.

Era il primo programmabile monofonico della storia, con doppio filtro; uno dei due lavorava come passa basso 24 db e passa alto, sempre 24 db; i due filtri erano collegabili in serie o in parallelo, tre oscillatori, di cui uno con possibilità di FM lineare e, simultaneamente, AM. Il secondo modulatore era usato come modulatore per la FM e l’oscillatore 3 come modulante AM; poi c’erano due inviluppi.

Quando stavo presentando il modello MCS70, Tom Oberheim venne allo stand della Jen Elettronica dove ero ospitato e diede uno sguardo all’interno dell’apparecchiatura, rimase impressionato perché era il primo strumento programmabile, interamente programmabile voglio dire, che era in giro.

Lui faceva un qualcosa del genere ma era un programmer parziale, che influenzava solo una parte dei parametri, gli altri dovevano comunque essere riposizionati a mano. I suoni, soprattutto quelli in FM lineare, erano particolarmente inediti per quel periodo, anche perché era una sintesi tra forme d’onda complesse, non tra semplici sinusoidi come sarebbe successo anni dopo con la Yamaha DX7.

La tastiera era a quattro ottave. Ne venne realizzato uno solo, venduto poi a Patrizio Fariselli degli Area (se vuoi sentirlo, puoi ascoltare un album che si chiama Tic Tac).

Lo stesso strumento venne utilizzato anche per fare l’album Automat con Romano Musumarra, dove mi occupai di tutta la programmazione e ogni suono presente derivava dal mio synth, compresi accordi e batterie elettroniche. Accidentalmente, l’unico aiuto esterno venne dall’utilizzo di uno dei primi sequencer della Sequential Circuits, perchè ancora non ne avevo approntato uno per l’ MCS70.

Ho sentito recentemente Patrizio e mi confermava che lo strumento è ancora nelle sue mani, gelosamente custodito, e non mi è sembrato per niente intenzionato a volermelo restituire…”

Area – Tic & Tac (1980)

Pare che in seguito l’ MCS 70 sia stato utilizzato anche in “Magie d’ Amour” 1980 di Jean Pierre Posit, uno dei nomi d’arte di Claudio Gizzi stesso, ed in altri dischi dei quali non siamo però a conoscenza, prima di finire nell’arsenale di Fariselli e farsi onore su “La torre dell’alchimista”, brano che apre l’album “Tic&Tac”, per poi venire successivamente messo a riposo a causa dello scioglimento degli Area stessi.

Jean-Pierre Posit ‎– Magie D’Amour  (1980)

Fariselli stesso ne parla nella sua intervista pubblicata su Strumenti musicali, nel numero 243 del Giugno 2001:

“Ricordo il giorno in cui il mio Arp Odissey si ruppe irrimediabilmente, doveva essere il 1975, prima di un concerto a Roma: sound check nel pomeriggio, lo accendo e non funziona più. Frenetico giro di telefonate e mi suggeriscono di andare a trovare una persona che forse poteva fare qualcosa.

Fu così che conobbi Mario Maggi, uno dei pochi grandi progettisti di tastiere in Italia. Capì subito come non ci fosse nulla da fare per l’Odissey, perché occorreva sostituire una parte essenziale, e mi mostrò la macchina che lui stesso stava progettando, il prototipo che ancora oggi posseggo e che si chiama MCS70. Prototipo e unico esemplare rimasto, che comperai subito perché era proprio un sintetizzatore monofonico fantastico, immaginiamo un Minimoog all’ennesima potenza.

La qualità dei componenti era eccellente e soprattutto aveva 64 memorie, che rappresentavano allora una novità assoluta. Pensiamo al lavoro terribile che toccava sia a me che a Paolo Tofani in ogni situazione, di dover cioè tarare e ritrovare certe sonorità che andavano ricostruite ogni volta, consentendoci di poter sviluppare non più di quattro o cinque suoni a concerto. Di colpo avevo a disposizione 64 suoni memorizzati!”

Da quello che si apprende dall’intervista rilasciata da Maggi al sito web Amazona.de (https://www.amazona.de/interview-mario-maggi-der-elka-synthex-erfinder), di MCS ne dovevano essere realizzati almeno 10, che dovevano venire destinati a vari studi di Roma, e che il prezzo ai tempi era di circa sei milioni di lire, speriamo quindi di rivederne presto riemergere qualcun’altro!

Molto recentemente il buon Patrizio ha pubblicato un post sulla sua pagina facebook dove ha annunciato che il suo mitico MCS è in assistenza a farsi bello per tornare presto in azione, il che può solo renderci felici. Ha anche rilasciato tre fotografie di questa mitologica macchina, della quale le immagini finora purtroppo scarseggiavano. Eccole a voi:

AGGIORNAMENTO Febbraio 2020:
L’ MCS 70 è stato finalmente restaurato alla perfezione grazie allo specialista Marco Molendi che, in collaborazione con altri operatori, ha provveduto a rilasciare un primo video demo che analizza la struttura costruttiva e le capacità sonore di questa splendida e impressionante macchina:

MCS 70 Restoration

Seguono alcuni test audio effettuati da Andrea Manuelli durante il ripristino del MCS70 effettuato dal grande tecnico restauratore Marco Molendi:

MCS 70 Restoration Backstage

Marco Molendi e Patrizio Fariselli

Patrizio Fariselli – Andrea Manuelli – Marco Molendi

Ed eccolo, finalmente tornato in azione nelle mani di Patrizio Fariselli:
Patrizio Fariselli Trio – Caterpillar

Il Syntar

Immagine di Daniele Marziali VSMI

Il Jen GS-3000 Syntar è probabilmente la versione integrata del synth monofonico da chitarra, della quale Maggi parlava riferendosi a quella ancora in suo possesso, quella presentata al Musik Messe del 1978.

Pur essendo stato pensato specificamente per essere usato con la chitarra elettrica, alcuni tastieristi hanno fatto attuare una conversione per suonarlo con un controller keyboard. Logicamente nel caso di questo synth non era prevista una memorizzazione dei programmi e per i “preset” ci si doveva affidare ad una serie di schede da sovrapporre al pannello, nelle quali erano segnati i vari parametri del suono che si desiderava ottenere.

Per una più approfondita descrizione abbiamo deciso di riproporre il testo presente sul sito Suono Elettronico:

“Il Syntar della Jen può essere utilizzato con qualsiasi chitarra a cui va applicato il pick-up custom fornito dalla Jen, per le misure single coil o humbucking.

Il fissaggio dei pick-ups sulla chitarra avviene mediante nastro biadesivo, sistema comodo perché non bisogna forare il corpo della chitarra, tuttavia il fissaggio con il biadesivo pare non risulti sufficientemente stabile.

In dotazione al pick-up nastri biadesivi di diversi spessori, per la scelta della corretta distanza dalle corde.

Il pick-up è piuttosto alto e questo costringe ad alzare un po’ le corde della chitarra.

Il “Pitch to voltage converter” è un pò lento nel passaggio tra frequenze lontane ma sufficiente per un buon uso dell’apparecchio.

Una serie di regolazioni posteriori (da tarare con estrema cura) consente di regolare il segnale proveniente da ciascuna corda.

Sei leds rossi indicano quale corda sta controllando il sintetizzatore, un led verde indica la presenza del segnale di gate. Quando questo non si accende si dovrà procedere alla ritaratura dei sei segnali d’ingresso.

Si avverte la mancanza di un “Sample and Hold” (il circuito che mantiene la frequenza stabile anche quando il livello di segnale fornito dalla corda scende sotto il minimo richiesto per il funzionamento del sintetizzatore).

Questo limita indirettamente anche l’uso del generatore di inviluppo lasciando tuttavia allo strumento una buona versatilità.

Due sono i VCO con onde triangolari, dente di sega, quadra simmetrica e tre quadre asimmetriche. Molto comodo il commutatore di ottave che consente al chitarrista di collocare il sintetizzatore sopra e sotto la frequenza prodotta dalla corda.

I due oscillatori sono provvisti di controlli separati di volume.

Un LFO (low frequency oscillator) dispone di onda triangolare, dente di sega, dente di sega invertito, quadra a due quadre asimmetriche.

Esso può controllare il VCO (vibrato), il VCF (wha-wha), il VCA (tremolo). Può essere escluso mediante l’interruttore a pedale in dotazione.

Il filtro (VCF) è dotato di regolazione di frequenza, di taglio e di risonanza, le sue prestazioni sono in linea con il resto dell’apparecchiatura.

Il Syntar ha due generatori di inviluppo a tre sub-eventi: attack, release, sustain. Essi controllano separatamente il VCF ed il VCA consentendo una buona libertà nella generazione dei suoni, anche se in parte limitata dalla mancanza del circuito di “sample and hold”.

Il Syntar non è dotato di presets nè di memorie.

Lo strumento è dotato di astuccio rigido in cui trovano posto anche gli accessori.

La timbrica in generale è soddisfacente, peccato che, mancando un ingresso per i normali pick-ups della chitarra, non è possibile miscelare i suoni dello strumento con quelli generati dal sintetizzatore.

Il Syntar, è monofonico nonostante la presenza di due oscillatori, è provvisto di “glide” e dispone di due uscite: una per l’amplificatore e l’altra per la cuffia, con comodi controlli di volume separati, la precedenza delle corde per il controllo della frequenza è verso l’acuto.”

Jen Syntar by Maggi

due demo del Syntar.

-L’articolo continua nella terza parte: il Synthex

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Dedicato a Mario Maggi (parte prima)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Il nome di Maggi è indissolubilmente legato al suo capolavoro, il bellissimo sintetizzatore analogico Synthex. ma il geniale progettista ha avuto un passato tutto all’insegna dell’innovazione, che lo pone accanto a personaggi come Moog, Buchla, Taro, Pearlman.

Lorenzo

Con questo articolo viene ufficialmente inaugurata la sezione del sito che riguarda la Sintesi.

Il sintetizzatore, strumento elettronico attraverso il quale si cerca di riprodurre sonorità già note e di crearne sempre di nuove, vede il suo più noto esponente nei prodotti commercializzati dal celebre ingegnere statunitense Robert Moog ma esistono tutta una serie di inventori che hanno contribuito in maniera più o meno incisiva allo sviluppo del synth come strumento innovativo.

La musica e la ricerca dell’imitazione dei suoni sono antiche quanto il mondo. In effetti quasi ogni essere terrestre reca in sè lo strumento musicale più antico, la voce, che raggiunge delle capacità elevatissime nell’uomo, talmente tanto da poter essere facilmentemente considerato il primo sintetizzatore della storia.

Nel corso del tempo ne sono state estese le possibilita’ a livelli davvero affascinanti fino ad ottenere la polifonia vocale, se ne trovano esempi in particolar modo nelle culture asiatiche ma anche in musicisti a noi più vicini.

E’ il caso di Demetrio Stratos, il compianto cantante degli Area, che rese ampia dimostrazione delle sue eccezionali capacita’ vocali in alcuni dischi solisti dedicati proprio al tema del ‘suonare la voce’ e che illustrano ampiamente le sue incredibili capacità di polifonia vocale (diplofonia, triplofonia, suoni bitonali e difonici, fischio laringeo).

Ma esiste tutto un fervente movimento di artisti che stanno sviluppando il discorso della polifonia vocale, una esponente di spicco è la musicista tedesca Anna Maria Hefele.

Demetrio Stratos – Flautofonie ed altro (Cantare La Voce – 1978)

Hanna-Maria Hefele – Dimostrazione di Canto Polifonico

Torneremo comunque su questo argomento più avanti e passiamo invece ad occuparci del signor Mario Maggi.

Il nome di Maggi è indissolubilmente legato al suo capolavoro, il bellissimo sintetizzatore analogico Synthex. ma il geniale progettista ha avuto un passato tutto all’insegna dell’innovazione, che lo pone accanto a personaggi come Moog, Buchla, Taro, Pearlman.

Chi ha seguito il suo lavoro da vicino sa bene che Mario Maggi era avanti a tutti gli altri di almeno 10 anni e che l’industria elettronica italiana non ha fatto molto per investire su di lui e sostenerne la ricerca come invece sarebbe stato logico fare.

Eppure la sua storia, come scopriremo, è quella di un grande innovatore e, per la determinazione e gli enormi sforzi che ha dovuto sostenere per potere dare al mondo i suoi capolavori, anche di un vero e proprio eroe.

E non è affatto strano che, negli appassionati di synth italiani e negli addetti ai lavori, udire o leggere quel nome un po’ mistico, risvegli sempre un mix di affetto ed orgoglio nazionale, quel tipo di sentimento che scalda il cuore degli appassionati, come succede con l’Alfa Romeo e la Ferrari.

E’ quindi assolutamente doveroso dedicargli un omaggio e, trattandosi di un personaggio lontano dalle scene, del quale non è facile reperire notizie e ricostruire storia e cronologia, questo articolo verrà aggiornato nel corso del tempo, mano a mano che ulteriori notizie verranno alla luce, in modo da poter rendere un quadro più accurato possibile della storia di questa persona così affascinante.

Ma apprestiamoci ad iniziare.

Alla fine degli anni 60, un giovanissimo ingegnere elettronico innamorato del mondo dell’elettronica musicale, invia i suoi primi progetti alle riviste di settore. Il primo di cui si ha notizia ad oggi, pubblicato su CQ Elettronica, è un circuito di effetti che collegato a chitarra o organo produce “suoni spaziali”, probabilmente qualcosa di simile ad un ring modulator.

Primo circuito Maggi

Ma lasceremo che sia lui stesso a raccontare gli inizi della sua carriera:

“Quando avevo 17 anni creai un’intera collezione di effetti per chitarra per un amico. Un pomeriggio, venne a casa mia con un disco di Emerson Lake & Palmer e mi fece ascoltare Lucky Man. Il suono di quello che lui credeva essere un assolo di chitarra, lo aveva così impressionato da chiedermi di costruirgli un effetto che potesse far suonare la sua chitarra in quel modo.

Quello che lui pensava essere un effetto, tuttavia, non era una chitarra, ma il più meraviglioso solo di synth che avessi ascoltato fino ad allora. Io capii immediatamente che questo suono non poteva venire da una chitarra.

Una settimana prima, ero stato in un negozio di elettronica ed avevo scoperto una rivista con un’immagine impressionante sulla copertina. Nella foto c’era una grande tastiera per pianoforte con un pannello di controllo altrettanto grande con sopra un numero enorme di pulsanti colorati.

Arp 2500

Dalla rivista scoprii che si trattava di un ARP 2500 esposto in una galleria d’arte moderna a Milano. Alcuni giorni dopo contattai quella galleria e riuscii ad ottenere un appuntamento. Quando arrivai là, rimasi completamente solo per alcune ore nella stanza in cui l’ARP 2500 era in mostra e fui in grado di studiarlo ampiamente.

Riesco a malapena a trovare le parole per esprimere le emozioni che provai in quelle ore, ma fu allora che decisi di dedicare tutto il mio lavoro e la mia creazione allo sviluppo e alla progettazione di sintetizzatori.”

Ci spostiamo agli inizi degli anni 70, quando viene alla luce il prototipo monofonico ancora oggi in possesso ed uso di Enrico Olivieri del gruppo progressivo Metamorfosi e suo amico dai tempi di scuola, e grazie al quale il nome di Maggi entra a far parte dell’immaginario collettivo degli appassionati italiani ed esteri.

“Dopo l’episodio con il mio amico, ho iniziato a costruire il mio sintetizzatore monofonico.

All’inizio, avevo problemi a compensare le fluttuazioni di temperatura degli oscillatori fino a quando non ho trovato un circuito integrato che non era usato da nessuno in quel momento. Probabilmente perché era solo molto costoso. Usando questo integrato, improvvisamente mi sono reso conto che il mio primo sintetizzatore, in termini di stabilità dell’oscillatore, era di gran lunga superiore a qualsiasi altro dispositivo sul mercato.

Questa è stata la ragione fondamentale per cui ho deciso di continuare a costruire sintetizzatori. Volevo renderli sempre migliori.”

Questo synth chiaramente è possibile ascoltarlo nei dischi dei Metamorfosi e nei concerti che tutt’oggi il gruppo tiene.

Enrico Olivieri con il suo synth monofonico by Maggi

Enrico Olivieri (Metamorfosi):

“Tutto cominciò ai tempi della scuola, nel 1970, quando io e il mio amico Mario Maggi frequentavamo l’istituto tecnico per elettronica Enrico Fermi.

A quel tempo Roma pullulava di cantine e locali dove una miriade di formazioni musicali trovavano spazio per “provare” ed esibirsi e, mentre io passavo da una formazione all’altra (prima accompagnato dal mio inseparabile organo Farfisa, poi dall’organo Pari e dal piano elettronico Crumar, entrambi amplificati con un Leslie Lombardi 250 watt), Mario si dilettava a modificare amplificatori, ottimizzare effetti per chitarra e voce, e metteva il naso in tutto ciò che riguardava l’elettronica del tempo al servizio della musica, il più delle volte con risultati entusiasmanti.

Un giorno Mario m’invitò ad andare al suo laboratorio e, senza darmi altre spiegazioni, mi disse che voleva farmi provare una “bomba”.

Enrico Olivieri con il suo monofonico by Maggi e il Synthex

Una volta arrivato, sopra un tavolo che in quanto a disordine non aveva nulla da invidiare a quello del famoso Archimede Pitagorico della Disney, vidi un groviglio multicolore di fili elettrici in mezzo ai quali si distingueva a fatica un lamierino con alcuni potenziometri scoperti: si trattava del primo oscillatore con filtro passa-basso costruito dal mio amico.

Passammo l’intera nottata ad ascoltare e visualizzare sull’oscilloscopio sinusoidi, denti di sega, quadre modulabili, inviluppi di filtro e tutto ciò che poteva produrre quella piccola diavoleria, con la stessa curiosità di un bambino alle prese con il giocattolo nuovo.

Da quella sera, molti furono gli incontri durante i quali Mario mi faceva provare e ascoltare il risultato degli ampliamenti e miglioramenti del suo progetto; dopo una gestazione durata molti mesi, nacque un vero sintetizzatore monofonico, il primo costruito da Mario Maggi, che entrò di prepotenza a far parte della mia strumentazione. Ancora oggi, a distanza di 35 anni dalla sua costruzione, è perfettamente funzionante e lo utilizzo in tutti i concerti di Metamorfosi.”

Un estratto dall’album Metamorfosi (Inferno – Introduzione)

Di probabile derivazione del primo, fu quest’altro misterioso monofonico, che si pensa risalente alla prima metà degli anni 70, anche questo in un unico esemplare, e del quale purtroppo si sa poco, tranne che venne prodotto dalla Jen, in alcune decine di esemplari, con un’altra grafica di pannello e il nome ‘Synt-O-Rama’.

Di quelle decine di esemplari, ad oggi conosciamo solo quello in possesso di Lucio Kraushaar, che ne personalizzò il mobile costruendone uno in noce e che ci ha gentilmente fornito un’immagine, assieme a quelle del depliant e a questa piacevole testimonianza:

«Il primo synth lo progettò qui a casa mia, ero single e lo ospitai per alcuni giorni. Ai suoi aveva detto che andava in vacanza al mare, gli lasciai le chiavi di casa, io dovevo volare (lavoro). Lui dormiva di giorno e studiava la notte. Mi ricordo che per un turno mi dovevo alzare presto ma avevo la sveglia rotta. Avevo un registratore a cassette, Mario in quattro e quatr’otto fece un circuito che, collegato al registratore, mi svegliava con la musica.»

Synth derivati da questi due primi lavori vennero realizzati, tra gli altri, per Vittorio Nocenzi del Il Banco del Mutuo Soccorso, Roberto Turbitosi, Mario Natali. Il SYNTH monofonico disegnato da Mario Maggi era un vero gioiello di stabilità: nessuna traccia dei problemi di contatto dell’ Arp Odyssey, e non soffriva delle croniche perdite di intonazione del MiniMoog alle basse frequenze.
Il mono-synth di Maggi era stabile, estremamente stabile, e non c’è da meravigliarsi che Enrico Olivieri lo usi tutt’oggi.

Seguirà poi il guitar synth modulare che Maggi realizzò nel 1975 (anche questo in un esemplare unico) che gli venne commissionato da un cliente di Bologna e che adesso dovrebbe trovarsi in Francia.

Maggi Modular Guitar Synth

A quanto dichiara la casa d’aste che ne ha curato la vendita (link), il tecnico che lo ha revisionato sostiene si tratti di un lavoro dalla realizzazione altamente superiore, in termini di design e organizzazione dei circuiti, ai PPG di concezione similare.

Sembra che in quegli anni 3 fossero i personaggi ad occuparsi a studi del genere applicati al campo della sintesi: il signor Buchla, il team del signor Roland Ikutaro “Taro” Kakehashi e…indovinate un po’, il nostro Mario. E sostanzialmente dovrebbe trattarsi proprio di un progetto tecnicamente e qualitativamente comparabile a quelli di Buchla, personaggio con il quale gli studi di Maggi di quell’epoca avevano diversi punti in comune.

Racconta Maggi:

“Realizzai un monofonico modulare, con i patchcords per le connessioni, appositamente disegnato per essere pilotato tramite chitarra elettrica, il tutto per un cliente di Bologna. La conversione Pitch to Voltage era risolta con un filtro che si agganciava sul segnale di entrata togliendo più armoniche possibile, poi con una controreazione, se il segnale si abbassava troppo, il filtro si apriva automaticamente; poi c’era uno zero crossing ed un circuito che convertiva il tempo elaborato in una tensione corrispondente; gli oscillatori non andavano in deriva termica (a differenza di quelli Moog del periodo, ad esempio).

Poi ci fu una versione integrata del sintetizzatore per chitarra, di cui posseggo ancora il prototipo. Sul prototipo c’è ancora attaccato un adesivo della MusikMesse 1978…un documento storico!”

Come suona il guitar synth modulare di Maggi. Per l’originale vai al link

A quanto pare questo stesso guitar synth passò anche dalle mani di Hank Marvin degli Shadows, come ci dice questa rara foto dell’epoca.

Maggi aveva però già intuito che le cose stavano cambiando e che la maggior diffusione dei synth, anche per uso domestico, aveva portato alla necessità di macchine con interfacce sempre più user-friendly rispetto all’essere costretti a modificare continuamente i parametri per ottenere il suono deisderato e che si sarebbe sentita la necessità di poter memorizzare i propri suoni, senza dover per forza usufruire solamente dei preset di fabbrica.

Ai tempi però i microprocessori a basso costo ancora non esistevano, perciò già nel 1974 si era messo al lavoro su di un progetto di logic board a componenti discreti che gli permettesse di evitare l’uso degli appunto indisponibili processori e che, unito alla creazione di una rivoluzionaria tastiera a sensori ottici, che permetteva di evitare le noie date dai contatti elettromeccanici, porterà nel 1977 al completamento di MCS70, ovvero Memory Controlled Synthesizer.

Ma di questo parleremo nella SECONDA PARTE.

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La storia degli effetti Cosmosound, Silversound, Goldsound – intervista a Sandro Marchetti (parte seconda)

By Sandro Marchetti, Amplificatori Vintage Italiani, Effetti Vintage Italiani, Pedali VIntage Italiani, Personaggi StoriciNo Comments

Continua l'intervista a Sandro Marchetti, creatore dei pedali Cosmosound, Silversound, Goldsound.

Lorenzo

C2V: “Sandro, come nacquero i pedali in stile Fender?”

SM: “Nel ’76 Baldoni ebbe l’idea di riprendere il case dei Fender Blender in estruso di alluminio, anche il principio degli effetti era simile ma in realtà i circuiti erano un po’ diversi, abbiamo creato i distorsori (E-6 Powerful Sound e E-8 Wild Sound) e ci abbiamo aggiunto anche altri effetti (ndr. il distorsore con tremolo Cosmosound E-7 Fearfully Sound, tremolo che fu fatto anche come effetto separato, E-5 Shaking Sound). Tra l’altro arrivarono richieste dai chitarristi per un riverbero esterno da poter collegare agli amplificatori che ne erano sprovvisti. Di conseguenza creai un modulo in stile rack con riverbero a molla con più ingressi e controlli di volume e tono da poter utilizzare con chitarre e tastiere (CSE-10). Poi venne il Leslie elettronico Cosmosound (CSE-18): all’inizio li facemmo con le linee di ritardo ITT ma il costo era alto quindi ne facemmo pochi pezzi e nel frattempo ne studiammo uno con gli operazionali 741, molto più piccolo, che in pratica era un phasing doppio con due forme d’onda che funzionavano in opposizione simulando proprio il suono leslie. In seguito abbiamo ricreato anche l’effetto di cambio velocità. Agli inizi fu un po’ difficoltoso regolarlo ma con la pratica diventò una cosa estremamente rapida.”

C2V: “Ecco, a proposito di Leslie, ne producevate solo di elettronici o anche meccanici?”

SM: “No quelli erano solo elettronici, un leslie meccanico lo feci nei primi tempi alla MET, Baldoni e Polverini (Logan, GIS) stavano cercando un nome adatto e io uscii fuori con Rolling Sound, che piacque moltissimo. Ne facemmo alcuni campioni ma poi smisi di occuparmene perché nel frattempo, nel 1975, uscii dalla EME per dare vita, assieme e a Baldoni, alla ditta dove mi dedicavo ai pedali, la EF-EL, e il progetto del Rolling Sound K200 venne passato alla MAC di Carlo Mandolini la quale lo rinominò SC200 R e ne cambiò il mobile, mentre quello creato da me era decisamente più piacevole rispetto alla media degli altri leslie, anche se poi altri produttori una mezza scopiazzata gliela diedero, a quel mobile lì…del resto ai tempi era normale. Con la EF-EL creai anche dei componenti Hi-Fi e dei piccoli amplificatori da chitarra da 5 e 10 W, di quelli ne furono fatti parecchi. Degli ampli Hi-Fi (ndr. marchio MARSAN, che sta appunto per Marchetti Sandro) vennero prodotti modelli da 25 e 40 RMS e anche una tiratura limitata di 7 esemplari da 75+75w rms su 8 ohm, dei quali uno l’ho fatto per me e lo uso regolarmente.”

MET Rolling Sound K200 cosmosound marchetti classic2vintage
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C2V: “E tornando ai tuoi pedali, per quali altri marchi venivano prodotti?”

SM: “Li abbiamo fatti per vari marchi, anche per Meazzi e Vox.”

C2V: “E questo spiega perché si trovano gli stessi pedali Cosmosound a marchio Vox.”

SM: “Esatto, ai tempi a Montecassiano c’era la EME di Ennio Uncini (il padre del campione di motociclismo Franco Uncini) che aveva molti contatti all’estero e che produceva e importava per la Thomas e anche per Vox, anche se non ho idea di chi producesse gli amplificatori. Mi chiese se volessi fare i miei pedali con la scritta Vox e io accettai. Ma poi li feci anche per altri, per esempio Crosio di Parigi, un grosso negozio che importava le fisarmoniche, mi chiese i pedali e io glieli feci. Ma anche DO RE MI (poi diventata C D E, di Alfonso Barabino) e Cavagnolo ci distribuivano I Goldsound e i Silversound a tappeto in Francia. In seguito però sorsero problemi col mio socio Baldoni, inoltre il mercato dei pedali in quell’epoca cominciò a scendere e la produzione dei pedali rallentò. C’è da capire che il mercato va dietro alle mode, una volta nelle Marche era tutta una produzione di fisarmoniche, poi solo chitarre e tu vedevi ovunque complessi che suonavano solo chitarre, la Eko faceva gli straordinari nella produzione. Poi cominciò il periodo degli organi e tutti gli altri produttori aspettavano il modello nuovo della Farfisa per studiarselo e, anche se non i circuiti, almeno l’idea generale dello strumento gliela copiavano.”

C2V: “Quindi tu cosa facesti in seguito?”

SM: “Nel 1976 lasciai la EF-EL a Baldoni e andai alla Logan, con la quale avevo già cominciato a collaborare per gli organi. All’epoca la Logan era appena partita, agli inzi andai a dargli una mano e poi finii per rimanere con loro. Logan ai tempi produceva una tastiera di strings che era risultata la migliore in giro, poiché, al contrario delle altre ditte che usavano solo 2 linee di ritardo ITT (tra cui la Eminent, che aveva brevettato le tastiere strings), usava ben 3. Il capo tecnico della Logan, Costantini, aveva fatto alcuni esperimenti quando era stato precedentemente a lavorare alla Farfisa e si era reso conto che più linee di ritardo c’erano e migliore usciva il suono prodotto. Si avevano in pratica 3 oscillatori sfasati di 120° tra loro, con notevoli risultati finali. Alla fine chi la ascoltava restava innamorato e andò che i migliori gruppi usavano questa tastiera di violini. Il problema fu che la Elka fu la prima a produrre le Strings e anche la prima a portarle alla fiera di Francoforte, di conseguenza vendette tutto perciò la Logan, che arrivò in ritardo, rimase fregata per quell’anno. Ma le cose andarono ben diversamente l’anno seguente e la Logan vinse su tutti i fronti. Morale, io rimasi in Logan fino al 1982 e finii la mia carriera nel mondo degli strumenti musicali con loro perché dopo ci fu la crisi, alla quale i giapponesi contribuirono non poco: i primi anni vennero a Francoforte e fotografarono tutto quello che vedevano, non gli sfuggiva niente. In seguito si presentarono con prodotti migliorati sia esteticamente che tecnicamente migliorati, cogliendoci di sorpresa e mettendo fine alla storia della produzione italiana.”

C2V: “E questo accadeva alla fine degli anni 70, un vero peccato…”

SM: “Eh si, perché fino ad allora si stava benissimo e c’era un mare di lavoro per tutti, eravamo sommersi dalle richieste. Del resto i giapponesi avevano aiuti dal governo che noi, come al solito, non avevamo (pare che il governo giapponese pagasse in anticipo alle ditte gli strumenti che venivano esportati e si occupasse poi di gestire i pagamenti dilazionati dei vari clienti).”

C2V: “E da qua si entra nella storia che tutti in Italia ben conosciamo. Tornando  di nuovo ai Pedali, come funzionava il ciclo di costruzione?”

SM: “Agli inizi, quando ero ancora alla MET, progettai il tutto e ne avviai la produzione. In seguito, quando avviai la EF-EL, la MET (che aveva officina meccanica) continuò la produzione della parte meccanica e io mi occupavo di farli verniciare e finirne l’assemblaggio: montaggio della parte elettrica, finitura, collaudo e imballaggio.”

C2V: “Anche di applicare i vari marchi ti occupavi tu, quindi. Quali erano, ti ricordi?”

SM: “Eh, ricordarli tutti è difficile…c’erano i G.I.S., che aveva l’esclusiva in Italia di vari marchi e gli EUR che erano per i mercati paralleli.”

C2V: “Ce ne sono in giro anche di marchiati JEI, GUN, WERSI, ZENTA, EMTHREE (che è sempre Meazzi), MAC e ovviamente della tua EF-EL.”

C2V: “E come funzionava invece la promozione? C’erano già i dimostratori di strumenti?”

SM: “Si, eccome, noi avevamo Johnny Charlton dei Rokes e anche Peter Van Wood, che si prendeva più che altro i prototipi, tutte le cose “strane”: avevamo fatto un prototipo di octaver con ottava alta e bassa che era una cannonata, l’intento era quello di perfezionarlo e metterlo in produzione ma se lo prese lui e non lo vedemmo più, poi nel frattempo io me ne ero già andato. Un altro prototipo che facemmo era distorsore, repeat e un altro effetto che adesso non ricordo, il tutto controllabile con i piedi (ndr. la descrizione ricorda molto quella dell’Eko Multitone), ma erano cose che perlopiù non entravano in produzione perché non c’era mercato.”

C2V: “Dopo il settore musicale su cosa ti sei orientato?”

SM: “Mi sono occupato di tutt’altro, dai rubinetti elettronici, sia come meccanica che elettronica, alla creazione di prototipi in plastica e alluminio di apparati di illuminazione per la Guzzini, i cataloghi venivano realizzati con quelli. Da dopo la pensione ho coltivato l’hobby dell’aeromodellismo e ho costruito una decina di motori, a scoppio due e quattro tempi, a vapore, aria compressa, che sono stati pubblicati su riviste del settore.”

C2V: “Una vita all’insegna dell’artigianato vero e poliedrico, complimenti! Benissimo Sandro, a questo punto non mi rimane altro che ringraziarti per questa bellissima chiacchierata e per tutte le informazioni che ci hai dato!”

SM: “Figurati, è stato un piacere!”

Ringraziamenti

Si ringraziano ToneHome ed ElectricMister per la gentile concessione dell’uso di alcune delle immagini presenti nell’articolo.
Un ringraziamento all’amico Sebastian Galassi per la foto del Rolling Sound K200.

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La storia degli effetti Cosmosound, Silversound, Goldsound – intervista a Sandro Marchetti (parte prima)

By Amplificatori Vintage Italiani, Effetti Vintage Italiani, Pedali VIntage Italiani, Personaggi Storici, Sandro MarchettiNo Comments

Gli anni 60 e 70, come ben sappiamo, furono un periodo di enorme fermento creativo per la nostra penisola e in particolar modo per le Marche, dove si trovavano i grandi numeri della parte creativa e manifatturiera.

Lorenzo

Sandro Marchetti

E fu grazie all’ingegno e alla creatività di persone come Oliviero Pigini e Remo Serrangeli (Eko reparto chitarre), Terzino Ilari (EME ed Eko reparto elettronica), Aldo Paci e Giuseppe Censori (Eko reparto elettronica), Carlo Lucarelli (Farfisa, che lasciò nel 1976 per aprire la Siel), Giovanni Livieri (CRB), Bravi e Jura (Crumar synth), Orsetti e Pannelli (Crumar organi), Elio Zamorato (Farfisa, Elka), Alfredo Gioielli (fondatore di Pari e Milton), Marcello Colò (collaudatore e creativo CRB, Elka, Gem – Generalmusic, Ketron), Sandro Marchetti (EME, EF-EL, Logan) che furono creati gli strumenti marchigiani che invasero il mercato, lasciando un marchio ancora oggi indelebile.

Dietro a quelli che sono, assieme ai Jen, i pedali più famosi della produzione italiana, si cela la mente di Sandro Marchetti, poliedrico tecnico elettronico e meccanico marchigiano. Siamo fortunatamente riusciti a contattarlo per chiedergli di svelarci i segreti di questi ancora misteriosi pedali effetto e lui, con molta gentilezza e disponibiltà, ha accettato ed ecco finalmente tutta la storia della creazione di questi mitici effetti:

C2V: “Sandro, com’è iniziata la tua avventura nel campo degli strumenti musicali?”

SM: “Allora, ho inziato nel 1960 con la MET (Micro Elettro Tecnica) di Carlo Baldoni (MET, Logan, GIS, EF-EL) come tecnico progettista di motori elettrici in corrente continua a 6 espansioni polari che dovevano servire per magnetofoni, che erano gli apparecchi che “tiravano” ai tempi. Questi motori furono passati alla Phonola ma nel frattempo il mercato era cambiato e cominciarono ad andare le fonovalige (giradischi portatili) perciò fui costretto a progettare un motore a 3 espansioni adatto alle fonovaligie, per i quali brevettai anche un braccetto con contrappesi.”

C2V: “Ah, il classico giradischi con il quale siamo cresciuti!”

SM: “Si, e le fonovaligie inizialmente avevano un problema, la puntina aveva un braccetto che la premeva con troppa forza sul disco e dopo il primo ascolto il disco era da buttare. Così fui costretto a inventarmi questo sistema di contrappesi per ridurre la pressione del braccetto e funzionò molto bene. A seguito del calo di richieste dei mangiadischi venne fuori quella degli strumenti musicali e, oltre alle parti meccaniche ed elettroniche per chitarra per ditte come Eko, Melody, Welson (ndr. tra le quali la bellissima borchia dado conica che blocca gli ingressi jack che troviamo anche in buona parte dei prodotti italiani dei tempi), creai dei pedali volume per la gran parte dei produttori di organi della zona (Crumar, Elgam, Logan, Moreschi etc.) e da li iniziai la progettazione e realizzazione di vari pedali effetto ispirati a quelli presenti sul mercato ai tempi ma anche di scatolette da inserire direttamente nell’input della chitarra, tra le quali preamp, booster per bassi e alti e altri effetti.”

C2V: “Ed eccoci arrivati ai pedali…”

SM: “Si, uno dei primissimi fu il wah con distorsore, che era quello che andava per la maggiore, e i vari distorsori. Dopo facemmo il Phasing, che rispetto agli altri era particolare in quanto per creare la sfasatura del suono usavamo dei transistor FET (transistor ad effetto di campo) che erano tutti selezionati, cosa che gli altri produttori non facevano e di conseguenza la rotazione non risultava bella. Invece noi utilizzando i FET selezionati avevamo ottenuto una modulazione perfetta. In seguito vedemmo che immettendo il segnale di uscita nell’ingresso del phasing veniva fuori un filtro attivo che produceva un effetto somigliante ad un sintetizzatore e quello lo chiamammo Super Phasing. Nonostante i nomi fossero Cosmosound, Silversound e Goldsound, i pedali avevano gli stessi circuiti ma ne venivano variati l’estetica e il nome a seconda delle richieste del distributori dei vari paesi.”

(L’intervista continua nella SECONDA PARTE)

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Epiphone – Gibson Spirit

By Chitarre Vintage USANo Comments

Con l’arrivo degli anni 80 la Gibson doveva cercare in ogni modo di recuperare un decennio assai gramo, nel quale aveva perso notevolmente smalto e mercato in favore delle ormai note copie di alta qualità fabbricate nel sol levante. L’uomo della provvidenza fu l’ormai celebre Tim Shaw, il quale dovette raccogliere una pesante eredità, con tutte le problematiche che ne derivavano e ad onor del vero fece un ottimo lavoro riportando la qualità là dove ormai latitava da tempo e presentando idee eccellenti come l’ottima riedizione degli humbucker 1959 PAF.
In quel periodo nacque la Spirit.

Lorenzo

La Spirit era una chitarra basata sulle Les Paul Double Cut Junior e Special e venne inizialmente fabbricata tra il 1982 e il 1983 nello storico stabilimento di Kalamazoo sotto il marchio Epiphone per poi passare a quello di Nashville e venire quindi commercializzata come Gibson fino al 1986, anno in cui venne cessata la produzione.

Tuttavia, a causa delle scarse vendite, anche alcuni degli strumenti marchiati Epiphone vennero rimarchiati Gibson e per questo motivo in quegli esemplari una leggera traccia del marchio originale si può ancora intravedere sotto la scritta Gibson.

La differenza maggiore rispetto ai modelli di ispirazione è l’innesto del manico al ventesimo tasto rispetto che al ventiduesimo come sulle Junior e Special DC.

Tutte le Spirit erano costruite in estrema semplicità per essere chitarre “da palco” con top piatto, manico incollato con segnatasti di tipo dot e uno (Spirit I) oppure due humbucker (Spirit II) riedizione dei Gibson 1959 (soprannominati appunto in seguito Tim Shaw).

Il coperchio del truss rod delle Epiphone riporta la scritta “Spirit Made By Gibson” mentre negli strumenti a marchio Gibson troviamo semplicemente il nome “Spirit”. Le meccaniche sono le tipiche Kluson Tulip ma in alcuni casi si possono trovare meccaniche registrabili tipo le Schaller o le Grover.

I ponti sono quasi esclusivamente Schaller 455, una combinazione di ponte a sellette regolabili individualmente e ponte wraparound.

I legni differiscono, passando dal corpo in pioppo e manico in acero dei primi modelli all’ontano e mogano delle produzioni seguenti, alcune con top in acero fiammato o tigrato e finitura sunburst o transparent mentre altri hanno verniciatura in tinta unita alla nitro.

Differenza sostanziale fra la Spirit I e la II sono il numero di pickup, la colorazione (più spesso tinta unita nelle I e suburst più comune nelle II, anche se nelle immagini sopra abbiamo pure la tipica eccezione che conferma la regola) il numero di controlli e il battipenna, quasi sempre presente sulle Spirit I e decisamente assente nelle II (alla Spirit II nera nelle immagini è stato probabilmente agiunto, trattandosi forse di un prototipo). Mentre il modello I è ispirato ad una Junior e quindi consta di un solo volume ed un tono, la Spirit II ha un volume per ogni pickup, un controllo di tono generale e un classico selettore Gibson.

“Spirit XPL”

Un modello particolare di Spirit, la XPL, fu prodotto dal 1985 al 1986 con una particolare paletta presa in prestito dalla Explorer e un tremolo Kahler Flyer, con la probabile intenzione di far entrare la Gibson nel mercato delle Super Strat da rock metal. Questo modello di Spirit è di difficilissima reperibilità e ancor di più lo è la versione SR-71 con manico avvitato e ponte Floyd Rose, pickup in configurazione single-single-humbucker e una forma decisamente più strat style.

Strumento definibile raro, ha tra i suoi estimatori Chris Hayes, storico chitarrista di Huey Lewis & The News, che ne ha posseduti e suonati alcuni esemplari almeno fino agli inizi degli anni 90 (io stesso ricordo di averlo visto suonare continuamente una XPL nel tour italiano di Small World), la Spirit è in realtà una grande chitarra dalle grandi sonorità, leggerissima ed estremamente versatile, con i pickup Shaw che non fanno mai sentire la mancanza dei single coil perché estremamente puliti e dinamici, in buon ricordo dei PAF originali.

In conclusione si tratta del classico strumento ancora “dormiente” ma che, grazie anche al riscoperto amore per le Les Paul Double Cut, si sta già rivelando un ottimo investimento che si rivaluterà ulteriormente in un futuro molto prossimo.

Pickup e strumenti come questi la Gibson non ne ha mai più prodotti e purtroppo, date le condizioni in cui ormai versa il famoso brand, è anche probabile che non ne produca mai più.

Qualche demo della Spirit

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Ibanez MC 5000

By Chitarre Vintage JapanNo Comments

Se con la serie Artist 5000 ci troviamo di fronte a modelli usciti in tirature a basso numero, con la Musician 5000 si entra addirittura nel misterioso campo dei modelli storici unici, costruiti in pochissimi esemplari, ognuno differente dall’altro. Nel caso specifico di questa Musician 5000 ne sono conosciuti 3 ma ne è uscito fuori anche un quarto in Germania, acquistato da nuovo nel 1983 presso un negozio di Berlino, il che rende ancora più fitto il mistero: quante sono in realtà le MC 5000 esistenti al mondo?

Lorenzo

Nella seconda metà del decennio ‘70 la Hoshino Gakki, proprietaria del marchio Ibanez, inizio la produzione di strumenti originali come la Artist, la Iceman e la Musician, che fu messa in commercio nel 1977.

Le varianti dei modelli, come spesso accadeva nella produzione nipponica, erano molteplici e le versioni di punta solitamente erano particolarmente elaborate, costruite con legni selezionati esotici di rara bellezza e ricche di intarsi estremamente complessi.

Lungo le tastiere erano incastonati alberi della vita e su alcuni body si trovavano foglie, infiorescenze e ornamenti vari, così come sulle palette riccamente adornate.

Con la MC 5000 siamo probabilmente davanti al massimo dell’arte ebanistica giapponese: una paletta letteralmente ricoperta da foglie in madreperla, un capotasto addirittura triplice in legno/osso/ottone e un particolarissimo albero della vita che corre lungo un listello in mogano incastonato al centro della tastiera in ebano. All’interno del listello trovano posto i segnatasti a dot e al 21° tasto è stato collocato un ulteriore intarsio, una targhetta con la scritta “Limited Edition” in corsivo. I body sono realizzati con legni sublimi, tra i quali Koa e Zebra Wood e il vertiginoso neck thru è la quintessenza della perfezione.

La storia narra che la MC 5000 fosse stata disegnata appositamente per Jerry Garcia dei Grateful Dead ma che questi non la volle perché eccessivamente pesante per essere suonata dal vivo. Ai tempi Bob Weir, l’altro chitarrista della band, possedeva un suo strumento autografo di produzione Ibanez e la Hoshino Gakki, in collaborazione con Weir stesso e Jeff Hasselberger, decise di realizzare un particolare modello di Musician con parte elettronica speciale da dare appunto a Garcia.

Bob Weir con il modello Ibanez che porta il suo nome

Furono quindi fabbricati i famosi 3 esemplari, che vennero presentati al NAMM di Atlanta del 1978 e in seguito al rifiuto di Garcia i 3 esemplari presero altre strade: uno si trova giustamente nella collezione privata Ibanez, un altro è in possesso del collezionista Orval Engling (conosciuto anche come Mr. Ibanez) e l’altro dovrebbe far parte di una non meglio conosciuta collezione americana. Ma questo è solo il “Mito”, in realtà non si è a conoscenza dell’esatto numero di esemplari prodotti.

Nel maggio 2012 un esemplare, visibile nelle immagini qua sotto e certificato da Bob Weir come quello appartenuto a Garcia, venne messo all’asta a San Francisco. Non è comunque dato sapere con certezza se si tratti veramente di quello appartenuto a Garcia o meno.

Aggiornamento

Da un recente scambio di commenti tra Orval Engling e Jeff Hasselberger su di un gruppo Facebook, siamo giunti a conoscenza del fatto che le MC 5000 vennero fabbricate in due  mandate, 1977 e 1980 (apparentemente riconoscibili dal tailpiece a forma di nuvola che, nella prima mandata è incassato nel body e nella seconda è appoggiato sopra).

Oltre a questo, Hasselberger ha fornito alcuni interessanti particolari sullo strumento realizzato per Garcia:

“Facemmo una chitarra per Jerry. L’ha suonato in un paio di concerti. Gli piaceva, ma non abbastanza. Il test chiave per riconoscere una autentica Ibanez Garcia sarebbe la presenza di un “Garcia Effects Loop”.  Jerry aveva notato (correttamente) che i pedali rispondevano in modo diverso a diversi livelli di input. Jerry era nel suo periodo dell’ auto-wah in quel momento ed era un tratto molto evidente di quel particolare setup.

La sua soluzione fu di avere un “loop effetti” incorporato nelle sue chitarre.  Il segnale andava direttamente dallo switch dei pickup ai suoi pedali e poi tornava di nuovo nella chitarra tramite un cavo stereo. Al suo ritorno, il segnale andava quindi al volume, al tono e ad altri circuiti di bordo, quindi usciva tramite un cavo standard.

Sono sicuro che abbiamo fatto una chitarra. Non sono altrettanto sicuro che ne abbiamo fatte due. Quello che ricordo è che si trattava fondamentalmente di una Musician MC 5000 standard personalizzata con il circuito degli effetti. In conclusione, se non ha il loop, non è una Jerry Special.”

La MC 5000 di Joe

Siamo anche venuti a conoscenza di un esemplare del 1980 che si trova nella collezione di Joe Deferm, il quale, molto gentilmente, ci ha fornito una bella galleria fotografica del suo raro quanto prezioso strumento e ci ha brevemente raccontato la storia della sua MC 5000:

“Come mi fu detto dal ragazzo da cui ho comprato la chitarra, venne esposta alla Musikmesse di Francoforte alla fine degli anni ’70. Un negozio di chitarre belga chiamato JnR la portò in Belgio dove fu venduta al chitarrista di una band chiamata The Sunrock. 15 anni dopo ho iniziato a suonare con questa band e ho comprato la chitarra.

Sarà stato attorno al 1999 e da allora ce l’ho. Ma solo anni dopo ho scoperto l’intera storia di Bob Weir e Jerry Garcia e mi ci sono voluti anni per risolvere tutti gli enigmi della storia ma non sono ancora riuscito a trovare una foto di Jerry che suona uno dei 3/4 esemplari conosciuti …”

Quanti altre MC 5000 esisteranno? Il mistero si infittisce…

La splendida Mc5000 di Joe.

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Westone Rainbow I (third version)

By Chitarre Vintage JapanNo Comments

Il marchio Westone è legato indissolubilmente alla famosa fabbrica di Matsumoku, un nome che nell’immaginario degli appassionati di vintage giapponese è un po’ come la Kalamazoo nipponica.

Lorenzo

Westone, dicevamo, era probabilmente la proposta high level per eccellenza della produzione Matsumoku, un marchio riservato alla produzione di strumenti di fascia alta e di altrettanto elevata qualità.

Prodotta dal 1983 al 1986, la Rainbow I terza versione è una semi hollow di gran classe, con blocco centrale realizzato in un sandwich di mogano/acero/mogano, che dona sia morbidezza di suono che sustain, dotandola di una voce rotonda e con un ottimo attacco. Il corpo è realizzato in laminato di acero canadese, il manico in 3 pezzi di acero con tastiera in palissandro è eccezionalmente comodo e dotato di una suonabilità assoluta: accordi e fraseggi escono rilassati e precisi, con la massima gioia della mano. Il ponte e il bell’attaccacorde sono in acciaio pieno.

Particolare cura è stata riposta nell’elettronica: i classici 4 potenziometri, volumi e toni individuali per ciascun pickup, sono racchiusi in contenitori di acciaio che impediscono l’ingresso della polvere e schermano il circuito dalle interferenze: oltre ad essere uno strumento silenziosissimo è assente il tipico problema dell’ossidazione e del fruscio dato dal depositarsi della polvere all’interno dei potenziometri.

I pickup sono gli ottimi MMK75 in alnico II (definiti dalle brochure Super Twin 750), un classico dei modelli top made in Matsumoku, che gli appassionati conoscono bene in quanto sono tra le migliori riproduzioni dei PAF Gibson e come tali molto sensibili alle tonalità del legno e alla dinamica del tocco, con un bella e tipica voce rotonda e pastosa.

Strumento dotato di ottimi puliti e che risplende in saturazione, si esalta nei territori della fusion e del jazz e si trova comunque perfettamente a suo agio nel blues, nel funky come nel rock, grazie anche alla perfetta costruzione del blocco centrale e soprattutto alla elevata suonabilità del manico, all’elettronica curatissima e perfettamente schermata e agli splendidi quanto versatili pickup. Uno strumento professionale a tutto tondo, insomma, con una personalità e una voce tutte sue e che fa della poliedricità il suo vanto.

Specifiche:

Version 3 (1983-85?)

As shown in the 1983 catalogue – same as version 2, except for – Different shape on the f holes.

The body is laminated maple, 3 ply Maple neck, centre block is Maple/Mahogany/Maple (ndr: c’è un errore, in realtà si tratta di Mogano/acero/mogano).

Rosewood fingerboard, 24.75 inch scale 22 frets.

Long travel  bridge (All steel), Swiftlok tailpiece (More ornate than the early model).

2 covered Super Twin 750 (MMK 75) pickups, 2 volume and 2 tone controls (All pots shielded in individual steel cans).

Available in Antique Walnut and Antique Maroon.

Seguono due interessanti video demo della Westone Rainbow I.

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Orville By Gibson LPSR – 1994 Catalogue Model

By Chitarre Vintage JapanNo Comments

Le chitarre “Orville by Gibson” vennero prodotte in Giappone dal 1988 al 1998 ed erano a tutti gli effetti chitarre Gibson commercializzate per il mercato interno giapponese. La produzione venne gestita da Yamano Gakki e gli strumenti vennero costruiti negli stabilimenti Fuji-Gen Gakki e Terada. Concepite per essere chitarre di alta qualità, univano la rinomata liuteria giapponese all’elettronica originale Gibson.

Lorenzo

Orville by Gibson 1994 Les Paul Standard Rosewood del 1994, conosciuta come Catalogue Model o anche Exhibition Model.

Queste chitarre furono realizzate nello stabilimento Fujigen per apparire  sulla copertina dell’edizione 1994 del catalogo Orville by Gibson e vennero costruite in un numero limitatissimo.

Strumenti talmente rari da non riuscire praticamente a trovare notizie persino sul web giapponese, ne furono ideati 2 modelli con 2 differenti top: noce e palissandro, come l’esemplare qua sotto presente e, a quanto è possibile capire, ogni pezzo differisce dagli altri in alcuni particolari.

Le voci di corridoio parlano di legni (di prima scelta) forniti direttamente dalla casa madre americana assieme ai pickup ’57 Classic: la qualità dei materiali e costruttiva è visibile e il mogano qua lo estrinseca in tutto il suo lucente splendore.

A lungo ho pensato che la porzione in ebano del binding sulla punta del corno inferiore fosse una riparazione dovuta ad una rottura di assestamento del binding stesso che è invece realizzato in acero, poi vedendo che è presente anche nelle poche foto disponibili di altri esemplari di quella serie mi sono reso conto che si tratta proprio di un effetto voluto. Non che avessi comunque dubbi sulla ormai conclamata perizia dei maestri liutai nipponici ma si tratta in effetti di un vezzo assai inusuale.

Diamo un occhio alle specifiche:

Orville by Gibson LPS-R Limited Edition

Made in Japan 1994

Mahogany body.

Carved Maple top with Rosewood veneer.

One piece Mahogany set neck.

Rosewood Fingerboard.

Maple binding. 22f. Trapezoid inlays in natural MOP.

Gibson pick ups PAF Patent Sticker

Inked serial number

Oil Finish

Full original.

Carved Ebony lower bout.

Rosewood veneer headstock.

Brass truss rod cover.

E’ veramente difficile riuscire a rendere pienamente in fotografia la bellezza dei legni e dei colori, in modo particolare il fascino della madreperla naturale dei segna tasti, la cui tonalità cremosa splendidamente si abbina alle tonalità calde del mogano e del palissandro. La finitura ad olio conferisce al tutto morbidezza al tatto e quella sensuale mielosità tipica degli strumenti vintage: è sicuramente uno strumento che non passa inosservato e che spesso ci si scopre ad ammirare incantati in sacra adorazione.

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Greco 950 “The Shrike”

By Chitarre Vintage JapanNo Comments

Questo sorprendente strumento è un po’ il simbolo del nostro credo, della nostra continua ricerca, del nostro continuo addentrarci nell’arte liuteristica del secondo novecento e non manca mai di affascinare ancora oggi, nutrendo schiere di ammiratori che la osservano in assorta contemplazione, come si fa con un grande vino da meditazione o con un buon cognac ristoratore.

Lorenzo

Il nomignolo Shrike (in inglese è un modo di chiamare alcuni uccelli) deriva dalla particolare forma dei suoi pick up a V che hanno sortito grande fascino sull’immaginario collettivo, tanto che Tim Shaw, il mitico project designer che fu incaricato della rinascita della Gibson alla fine degli anni 70, ne disegno una sua versione che applicò alla V2, una particolarissima versione di Flying V che vide la luce a fine decennio.

I pickup della 950 erano comunque particolari anche nella progettazione interna, ognuno era composto di due set di 3 bobine ed era possibile splittare la metà di ognuno per combinarli assieme (es. la parte superiore del pickup al manico si poteva combinare con la parte inferiore di quello al ponte). Pickup con un gran suono ma che nel tempo si sono rivelati purtroppo anche piuttosto delicati e praticamente ogni esemplare ha dovuto essere riavvolto.

Il resto della parte elettronica della 950 Shrike consiste nel potenziometro volume e nei 4 selettori per selezionare le varie combinazioni delle bobine dei pickup.

Le Greco 950 furono costruite nella vecchia fabbrica della Teisco a Nagano in Giappone. Dal 1967 al 1969, la fabbrica continuò a produrre strumenti, anche se il contratto con la Teisco era stato chiuso nel 1966. La fabbrica venne rinominata Teisco Gen Gakki e iniziò a produrre strumenti con vari marchi come Greco, Idol e altri, acquisendo grande fama tra gli importatori americani nei tardi anni 60 grazie all’alta qualità produttiva e ai prezzi competitivi.

Chitarra purtroppo praticamente introvabile in Europa e quindi trofeo ambito dai collezionisti, si rivela anche strumento molto versatile, riuscendo a spaziare dal funky, al jazz morbido al rock blues, donando gioia alle orecchie oltre che agli occhi.

Questa è probabilmente la versione più conosciuta e amata delle 950 Shrike: anche qua la presenza del tasto zero denota la tipica simpatia giapponese per le produzioni italiane, mentre manico e paletta strizzano l’occhio alle americane Rickenbacker, le buche romboidali (diamond) sono quelle della Trini Lopez Gibson e il doppio cutaway ha invece il sapore delle inglesi Burns e delle Gibson SG.

C’erano anche i bassi…ma questa è un’altra storia…

Greco “The Shrike” Bass

Gibson Flying V2 by Tim Shaw

La Greco 950 di “Drowning In Guitars” testata da Mike Dugan

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Godwin “The Organ”

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Ad un certo punto la magica follia tecnologica degli anni 60 partorì il suo “mostro”: dopo che Bob Murrell ebbe presentato i suoi primi esperimenti e la Vox ebbe pensato bene di trasferire il modulo sonoro del suo organo Continental dentro il corpo di una chitarra Phantom VI, altri furono gli esempi che seguirono e tra i vari non si può non menzionare il progetto probabilmente più affascinante e tecnicamente meglio riuscito, la Godwin The Organ. Di anno di nascita incerto, c’è chi la assegna alla metà degli anni 70 e chi all’inizio, sicuramente lo strumento prodotto per Godwin/Sisme è quello più affascinante della famiglia delle chitarre riproducenti suoni di organo.

Lorenzo

Vera antesignana del guitar synth, la The Organ vede la genialità Italiana spingersi al suo massimo: ogni tasto del manico, diviso in 6 segmenti, aveva collegamenti elettrici in modo che quando entravano in contatto con la corda si otteneva lo stesso effetto dello spingere un tasto su un organo; il contatto elettrico si chiude e la nota suona perfettamente e senza possibilità di errore. In questo la Godwin non ha rivali: nessuna latenza o sfarfallio dovuto ad un pessimo tracking (tracciamento della nota), difetto presente in quasi ognuno dei primi guitar synth e spesso anche negli attuali. Questo la pone, dicevamo, come vera antesignana delle chitarre synth.

Oltre al suono di organo elettronico, la The Organ è anche una “normale” chitarra elettrica, equipaggiata con una coppia di pickup che ricordano lo stile lipstick, con bilanciamento e volume regolabili. L’elettronica è alloggiata dentro allo strumento, in uno scomparto posto sul retro e sotto al largo battipenna che ospita i vari controlli (19 switch e 13 potenziometri sul modello di punta e 16 switch e 4 pot sul modello “economico”), mentre il complesso sistema elettronico è alimentato da un apposito power pack racchiuso in un box nel quale è inserito anche un pedale del volume. Fondamentalmente, gli interruttori rotativi assurgono alla funzione dei drawbars e ciascun “drawbar” può essere inserito o disinserito, il musicista può così aggiungere o sottrarre i suoni di “strumenti” desiderati e regolare la velocità del tremolo tramite i controlli on board.

L’estetica di questo strumento parla da sola e si nota al volo che fu pensato per il mercato Usa (come spesso avveniva con gli strumenti a marchio Godwin): una particolare e moderna versione del doppio Florentine cutaway arricchisce le forme sinuose di questa hollow body interamente costruita in acero con una splendida buca a forma di S e altri cinque sound-holes di varie lunghezze, anche questi con retina argentata, vanno ad ornare il top. Il comodo manico panciuto in 3 pezzi, anch’esso in acero, è assicurato al body da una piastra a 4 viti con pin reggi-tracolla, numero seriale e la dicitura “Made In Italy”.

I segnatasti di tipo micro dot neri si trovano lateralmente, sul binding che corre ai bordi della tastiera, mentre la bella e moderna paletta stilizzata recante il bel logo Godwin Organ è equipaggiata con le ottime meccaniche Grover Rotomatic. La tastiera in palissandro è dotata di 21 tasti suddivisi in 6 segmenti per altrettanti contatti elettrici individuali. Il ponte è tipicamente regolabile in altezza, con 6 sellette anch’esse regolabili individualmente ed ha copertura poggiamano, mentre il piacevole attaccacorde a trapezio con la G del logo è ancorato con 3 viti.

La forma della Organ ha una personalità che si distingue ed ogni particolare è decisamente ben equilibrato: ci troviamo davanti ad un’estetica di grande fascino ed è un peccato non sia stata commercializzata anche come chitarra elettrica hollow body a sé stante perché sicuramente avrebbe riscosso un successo tutto suo.

L’endorser più conosciuto di questo strumento fu Peter Van Wood, che ne fu evidentemente tanto entusiasta da dedicargli addirittura un album dal titolo “Van Wood and His Magic Guitar Organ”, facendosi ritrarre in copertina con la The Organ in bella mostra.

Purtroppo non si riescono a trovare molti file video, tranne questi pochi che non rendono bene l’idea del funzionamento e delle sonorità dello strumento (nell’ultimo la chitarra non ha più nemmeno la sezione elettronica dell’organo). Nel primo è però possibile vedere il frammento di una esibizione dal vivo di Van Wood con la sua chitarra organo.

Video di Van Wood con la chitarra Organo.