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Buone Notizie – 1979

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

L'ultimo film di Elio Petri è un testamento che contiene un grido silenzioso e disperato.

The Boss

Ombretta Colli, Giancarlo Giannini, Elio Petri

Dopo molti anni sono stato folgorato dal ritrovamento casuale di questo film e lo abbiamo visionato la sera stessa.

Questo articolo contiene spoiler (anticipazioni di trama) dall’inizio alla fine, si consiglia di guardare prima il film e poi tornare a leggere l’articolo.

In una Roma angosciantemente ricolma di immondizia ovunque, si svolge la tragedia di un uomo ridicolo, anzi, di una umanità ridicola e ipocrita, sempre più preda dell’ego e del vuoto narcisismo che contraddistingue i tempi attuali.

Il protagonista, innominato, è il simbolo incarnato di una umanità triste e puerile, che si nutre solo di materialismo, egoismo, sesso senza senso, dove i valori sono l’ombra di loro stessi, ormai solo un retaggio cattolico citato unicamente per salvare le apparenze e mettere a tacere la propria illuridita coscienza.

L’inversione dei costumi e un nuovo agguerrito femminismo sono alle porte, i metaforici “pantaloni” sono adesso un costume femminile, e la femminilizzazione della figura maschile è già in atto: è l’oggi.

In questa società devastata e devastante, si muove, malissimo, come il peggior pesce fuori d’acqua, l’innominato impersonato da Giannini, un ometto viscido al quale è stato affidato un ruolo di dirigenza in una grande stazione televisiva, fin troppo facilmente immaginabile di quale si possa trattare.

Questo omuncolo, che passa la sua vita tra il vittimismo e i continui tg catastrofici che emettono solo notizie terroristiche, è il centro di una storia surreale che si tinge di giallo.

Egli viene un giorno avvicinato da un vecchio amico di scuola ormai quasi dimenticato, che gli confessa il suo timore di venir presto ucciso da una ignota associazione che, per qualche non chiaro motivo, lo ha preso di mira con lo scopo di eliminarlo.

Gualtiero, lo strano personaggio interpretato da Paolo Bonacelli, sembra avere una forte attrazione verso l’innominato e dichiara più volte che questi è il suo più grande amico, cercandolo continuamente per tentare di coinvolgerlo nella propria vita, spingendolo anche tra le braccia della moglie, con la quale ha un rapporto di reciproca massima “libertà”, dicendosi felice che i due possano fraternizzare, visto che lui verrà presto ucciso e si dichiara unicamente interessato alla pratica della masturbazione, fatto che pare rafforzato da un manuale che si porta sempre dietro.

L’innominato ha una giovane moglie, insegnante, che ha spesso comportamenti infantili o adolescenziali e con la quale vive un rapporto di continui contrasti ma nel quale è comunque sempre viva la componente sessuale.

Nonostante questo, l’innominato cerca continuamente e goffamente conferme del proprio fascino da altre donne, che cerca sempre di circuire per soddisfare il proprio narcisismo, arrivando poi a non stringere mai nulla perché, come detto da Ada, moglie di Gualtiero, innominato non è altro che un mentalista moralista che non può godere naturalmente di nulla nella vita, nemmeno di 10 minuti di sesso liberatorio.

Il rapporto con il ritrovato Gualtiero si rivela sempre più sconvolgente per lui, che comincia a sospettare un interesse che và al di là dell’amicizia. Inoltre rivelerà di essere fortemente in difficoltà con la fissazione dell’amico, che vive in attesa del suo assassino, perché l’innominato stesso ha una paura folle di morire.

Non manca assolutamente nessun difetto a questo personaggio mai citato per nome, egli è proprio la perfetta allegoria di ogni bassezza umana e arriverà a rivelare del tutto la propria ipocrisia quando la moglie, che gli aveva dichiarato di essere incinta, gli confesserà di esserlo in realtà di Gualtiero, con il quale aveva una relazione, dicendogli di averla avuta perché Gualtiero gli ricorda lui.

Gualtiero verrà finalmente ucciso e l’innominato si recherà all’ospedale dove aveva lasciato l’amico, mettendo in atto una scena pietosa nella speranza di scagionarsi da un’eventuale  accusa di omicidio.

Il commissario di polizia che lo interroga sul posto, rimanendo fortemente colpito da questa ipocrita recita, comincia a dubitare che i due potessero avere una relazione e, ridendo, lo getta in faccia all’omuncolo, il quale, stizzito come suo solito, negherà quello che già dentro di sé in realtà teme.

Il film finisce nel solito parco dove il personale della emittente TV è solito andare durante le telefonate bombarole tipiche di questa società marcia. Sono proprio queste scene nel parco a puntare maggiormente il dito su quanto l’umanità si sia ridotta ad una puerile massa di adulti che sono in realtà adolescenti mai cresciuti.

Nell’ultima scena, l’innominato aprirà una busta che Gualtiero gli ha lasciato, sulla quale c’è scritto “da non aprire” e la quale contiene altre buste a matrioska con la stessa dicitura e alla fine una serie di biglietti con sempre scritto “da non aprire”, che innominato/umanità cercherà di buttare via e in seguito ad un ripensamento, raccogliere, come ultima risorsa per ritrovare sé stesso/a.

La citazione simbolica è ancora al famoso memoriale di Aldo Moro, già citato nel finale della sua opera precedente, ‘Todo Modo’, che fa capire che molto probabilmente ci troviamo davanti al secondo capitolo di una trilogia della quale il suo incompiuto “Chi illumina la grande notte” era il capitolo finale che, forse, mai vedremo.

Petri con il cast

Il comparto recitativo è eccellente: troviamo un Giannini in grande spolvero, un Bonacelli perfettamente in parte, il simpatico Ninetto Davoli in un ruolo molto marginale e un esilarante Franco Javarone nel ruolo del commissario.

Il misterico lato femminile si avvale di una giovane Angela Molina, già molto brava, nella parte di Fedora, la giovane moglie dell’innominato, Aurore Clément, eccellente nel ruolo di Ada, moglie di Gualtiero e una sorprendente ed affascinante Ombretta Colli nel ruolo della Tignetti, collega del protagonista. Si registra una apparizione della giovane e attraente Ritza Brown nel ruolo di Benedetta, amica di Fedora.

Venne proposto un ruolo anche a Giorgio Gaber, il quale rifiutò proponendo invece di prendere, appunto, la moglie Ombretta Colli.

Giancarlo Giannini è l’innominato

Angela Molina è Fedora

Paolo Bonuccelli è Gualtiero

Aurore Clément è Ada

Ombretta Colli è Tignetti

Di tutti i film di Petri, questo è sicuramente il suo più triste e sconsolato atto di denuncia, arrivato quasi in punta di piedi alla fine di una grande carriera dedicata al denudare l’umanità dalle ipocrisie e dal provincialismo e perbenismo cattolico.

Dopo la lucida ma arrabbiata analisi attuata nel precedente Todo Modo, scintillante pur nel suo essere profondamente ammantata di gesuitica oscurità, in Buone Notizie, come accade al suo protagonista, sembra non riuscire a trovare pace e non vede una possibile soluzione a questa società marcia e contorta nell’intimo.

I fiumi di immondizia presenti ovunque, strade, parchi, marciapiedi, lungo il tevere e sulle spiagge, sono il più chiaro e ovvio simbolo di quello a cui l’umanità si sta riducendo e allo stesso tempo sono il simbolo di malagestione che i personaggi alla guida della nostra società ci stanno imponendo da anni, annichilendo l’animo umano, costretto a questa immagine di marciume e bruttura.

La figura femminile è rappresentata come una sorta di scultura modiglianesca che, con un misterioso sorriso giocondiano (e senza astenersi dallo sferrare qualche salace giudizio critico), contempla la puerilità di questa umanità resa folle da preconcetti e ingegneria sociale, quelle armi che l’umanità stessa tollera e si autoinfligge per continuare a servire un ridicolo ordine sociale che non ha alcun altro scopo che rovinarla.

Con questo suo ultimo disperato atto di amore, Petri, spera di risvegliare l’umanità da questo sordido torpore di comodo, prima che arrivi all’inevitabile autodistruzione alla quale stiamo assistendo proprio adesso, in questo preciso istante.

Giannini e Petri

Trailer del film “Buone Notizie”

hanno cambiato faccia

…hanno cambiato faccia – 1971

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Cade quest’anno il cinquantesimo compleanno di questo incredibile film, altrettanto incredibilmente e ingiustamente dimenticato.

The Boss

Corrado Farina tra Giuliano Disperati e Geraldine Hooper

E’ capitata l’occasione, dopo tanti anni, di poter nuovamente visionare questa particolare pellicola di Corrado Farina, che contiene un messaggio urgente ed attuale, e ci siamo sentiti talmente chiamati in causa da avere la necessità di recensirlo per contribuire a dargli la visibilità che merita.

E’ un lavoro che si snoda attraverso un preciso utilizzo della simbologia e un uso peculiare della macchina da presa e delle tesissime musiche dell’ottimo Amedeo Tommasi di Avatiana memoria (purtroppo recentemente scomparso), che saranno anche fonte di forte ispirazione del futuro cinema “argentiano” (I Goblin prenderanno a piene mani).

Durante tutto il film viene urlato, con urgenza, un messaggio inquietantemente sempre più attuale: attenzione al potere della tecnologia che, vista come un mostro, irretisce e intimorisce l’uomo, rendendolo suo succube e estinguendo in lui ogni spirito di autocoscienza, critica e ribellione.

Data la natura del film, è impossibile non fare anticipazioni sulla trama, perciò consigliamo caldamente di visionarlo e tornare in seguito su questo articolo, per confrontare le proprie opinioni con le nostre.

Trama:

Il dr. Alberto Valle, (Giuliano Esperanti, alias Giuliano Disperati), impiegato dell’importante Auto Avio Motor, viene convocato dal presidente dell’azienda e invitato a recarsi presso la villa del proprietario, l’ing. Giovanni Nosferatu (Adolfo Celi).

Giunto nella località rurale che circonda la dimora, Valli incontra Laura (Francesca Modigliani), una hippy che viaggia senza meta precisa, alla ricerca di esperienze che la portino lontano dalla quotidianità.

Una volta arrivati alla villa, Laura decide di attendere il suo accompagnatore in automobile, mentre quest’ultimo si reca all’incontro con il magnate. L’atmosfera, che già nei dintorni del villaggio appariva sinistra, all’interno della tenuta di Nosferatu diventa ancora più gravosa e opprimente.

Lungo il viale d’ingresso, Valle viene scortato da due Fiat Cinquecento bianche, guidate da strani uomini che non rispondono alle sue domande. Varcata la soglia della casa, trova ad attenderlo l’algida segretaria personale dell’ingegnere, Corinna (Geraldine Hooper).

Il successivo colloquio con Nosferatu porta con sé delle grosse sorprese: l’uomo d’affari propone infatti a Valle di diventare il nuovo presidente della compagnia, e per questo lo invita a trattenersi alla villa affinché maturi la propria decisione.

Gli eventi si susseguono a ritmo incalzante, e Alberto si ritrova coinvolto in una strana ma coinvolgente relazione con Corinna. Tuttavia, durante alcune solitarie perlustrazioni fa una scoperta inquietante…

Le Cinquecento che, usate come cani da guardia, pattugliano la villa, sono un’ovvia metafora della classe operaia resa ottusa e sensorialmente deprivata per servire il padrone tradendo la propria anima e la propria individualità.

Stessa cosa che accadrà al protagonista, nel momento in cui sceglie di abbandonare la propria purezza – qua simbolizzata da Laura (L’ Aura, con anello di ametista), la giovane ragazza incontrata per strada – per varcare il cancello di villa Nosferatu, accettando il richiamo e la corruzione del potere e poter scoprire “quanto è profonda la tana del Bianconiglio”.

Disperati non sarà forse un attore perfetto ma riveste bene il ruolo e la sua mimica facciale rende bene la parte di un uomo alle prese con un dilemma di vitale importanza, la Hooper incarna perfettamente l’algida e filiforme Corinna, personaggio enigmatico ancora più dello stesso Nosferatu. Celi, al solito, è solidissimo in un ruolo perfetto per lui.

Giuliano Disperati è Alberto Valle

Geraldine Hooper è Corinna

Francesca Modigliani è Laura

Adolfo Celi è Giovanni Nosferatu

Farina sfrutta totalmente la propria esperienza in campo pubblicitario ed evita efficacemente di finire racchiuso nel film di genere, sfruttandone al contempo efficacemente l’onda per urlare il suo messaggio al mondo.

Nonostante ciò, la vena gotica che pervade il film finirà per influenzare profondamente proprio quello che è considerato il più famoso dei registi italiani del film di genere.

Inoltre, la freschezza delle idee trattate pare addirittura precorrere i tempi per sposarsi bene agli attuali, quasi una ‘premonizione’.

Una sequenza eccellente mostra una serie di bambini in culla e un enorme registro dove si leggono i nomi e i “destini” dei bimbi presenti e passati. Lì Alberto trova il proprio nome e una sua foto da bambino con la previsione che sarebbe diventato Presidente della Auto Avio Motor.

Nosferatu alleva i figli prediletti perché nel futuro ricoprano un ruolo alle sue dipendenze, mantenendone un assoluto e stretto controllo, tentando di impedire loro il libero arbitrio. Questa immagine è logicamente estendibile a tutti gli italiani, dei quali il destino, che ne siano coscienti o meno, è quasi sempre deciso da “altri”.

E’ immediata l’associazione del personaggio dell’ingegner Nosferatu con una ben nota figura dell’industria automobilistica di allora ma è, al tempo stesso, ancora più in sintonia con i tempi correnti.

La seduta del consiglio di amministrazione è un capolavoro di sottile ironia, perché al tavolo di Nosferatu siede ogni tipo di potere, persino quello ecclesiastico.

La parte metafilmica dei caroselli non è solo esilarante ma perfettamente al passo con i tempi odierni.

Ci troviamo insomma davanti ad un piccolo art-film che ha però il pregio di parlare in faccia ed essere quindi fruibile da chiunque.

Celi, Farina e Disperati

Corrado Farina nel carosello LSD

Dal punto di vista estetico, i canoni del tempo sono ben rappresentati da complementi di arredo in stile Space Age, tra cui le splendide lampade Platea Artemide disegnate da Ferrari-Mazzucchelli-Tartaglino, che si mischiano con elementi più classici, conferendo un’atmosfera algida alla pellicola, atmosfera dove i colori vengono mantenuti su tenui tinte pastello tranne che per qualche studiata rottura improvvisa con colori accesi (vedasi il maglione giallo, simbolo di conoscenza e intelletto, del Disperati nelle scene diurne in esterni e nella cripta).

Tre splendide lampade Platea di Artemide, ad adornare il soggiorno

Singolari l’inserimento di continui jingle pubblicitari interattivi che entrano in funzione nel momento in cui si utilizzano oggetti all’interno dei locali della villa e i pasti a base di cibi fluidificati, definiti ‘socialismo gastronomico’ e volutamente resi privi di forma e sapore, perché possano evitare di evocare inutili piaceri che si tradurrebbero in energie sprecate invece che utilizzate a fini ‘produttivi’.

Il ‘socialismo gastronomico’ di Nosferatu

Cinquecento da guardia

Come già accennato, Argento prenderà molto da questo film, dalle inquadrature e movimenti di camera (specialmente durante le esplorazioni per i corridoi e nella cripta), alle musiche, dalle luci-colori-scenografia della scena in cui Nosferatu suona il pianoforte di spalle e persino l’utilizzo della Hooper come caratterista per il personaggio dell’androgino Massimo Ricci in Profondo Rosso.

E’ impressionante quanto la scena del ritrovamento del registro dei ‘predestinati’, durante l’esplorazione dei corridoi, ricordi Suspiria (ma anche Inferno) per musiche ed accadimenti ma ovviamente non può non richiamare alla mente anche la celebre scena dei campi di coltivazione degli umani in Matrix.

Le culle dei predestinati

Il registro dei predestinati

Alcuni degli ‘slogan’ lanciati come mantra diabolici durante il film:

‘Gli uomini, li obblighi a lavorare e ti dicono grazie’

‘pubblicità e sesso’

‘Alice nel paese del consumo’

‘La vendita delle indulgenze’

‘La futura occupazione di tutti i bambini è di essere consumatori specializzati’

‘Ritorno alla culla’

‘Psicoseduzione dei bambini’

‘Reclutamento di nuovi consumatori’

‘La regia del consenso’

‘Come si coltiva l’ottimismo’

‘Il consumatore và aggredito quando meno se lo aspetta, nell’intimità del soggiorno, della cucina, della camera da letto’

‘Narcisimo di massa’

‘Attacco all’inconscio’

‘I capricci del consumatore’

‘La materia su cui lavoriamo è la sostanza stessa di cui è fatta la mente umana’

‘I simboli del prestigio’

‘Gli ami vengono calati’

‘L’anima in scatola’

Incredibilmente, il film di Farina venne osteggiato proprio da quella sinistra liberista che avrebbe dovuto abbracciarlo ed eleggerlo a proprio baluardo e, contro ogni ovvietà, scelse invece di snobbarlo e addirittura stroncarlo apertamente dalle pagine de L’Unità con una recensione che lascia a bocca aperta:

«Diremmo che per un’opera prima essa si mostra nell’insieme terribilmente datata con tutti i vezzi paraintellettuali che ostenta, con tutte le compiaciute “citazioni” del cinema di periodi gloriosi tipiche degli incanagliti frequentatori di cineclub, con tutto l’armamentario apparentemente dissacratorio di miti e di presenze del nostro tempo contro i quali, se si vuole davvero averne ragione, occorrono ben altre energie, ben altra lucidità, ben altro coraggio che non le funamboliche e puerili metafore di Hanno cambiato faccia»

«Spiace dire parole così severe per un’opera prima quale quella di Corrado Farina ma il fatto è che in essa l’apparente carica di azione eversiva si tinge di tali e tante corrive banalità contro le quali secondo noi sarebbe colpevole restare indifferenti o peggio acquiescenti» – Sauro Borelli, Mediocrità variabile al XXIV Festival di Locarno, in L’Unità, 10/08/1971.

Di ben altra opinione furono al Festival di Locarno di quell’anno dove, il film vinse il Pardo d’oro come opera prima.

Corrado Farina con il Pardo D’oro

Chiudiamo con le ottime parole di Salvatore Incardona, tratte dal suo articolo sul film, e una considerazione di Corrado Farina stesso:

Salvatore Incardona:

-Non ci dilungheremo su quali rovinose conseguenze ebbe all’epoca un certo tipo di commenti, ma è facile immaginare come tale ostracismo finì per condizionare il giudizio del pubblico (specializzato e non), impedendo così alla pellicola di ricevere un’adeguata distribuzione. Anzi, a frenarne sul nascere ogni possibile diffusione su larga scala arrivò anche il blocco della censura che appose un arbitrario quanto incomprensibile V.M. 18.

E a tal proposito non possono che risultare emblematiche le parole rivolte da Giovanni Nosferatu al proprio dipendente Alberto Valle dopo la proposta di mettere lui a capo di una delle società: «Lei sta pensando che questo discorso sia sproporzionato rispetto all’offerta che le faccio. Ma non è così. Io non possiedo soltanto un certo numero di fabbriche, di aziende, di grandi magazzini. Possiedo anche giornali, partiti politici, gruppi di opposizione».

A quasi cinquant’anni di distanza, a noi rimane comunque un’opera audace, preziosa, alla quale si può rimproverare forse qualche leggera pecca di regia – dovuta più che altro al limitatissimo budget a disposizione [Cfr. Corrado Farina, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono (a cura di), Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001. ] – ma che nell’insieme appare come un magma di fantasia e simbolismo, di reale e irreale, di narrazione avvincente e di critica impietosa che costituisce il suo carattere specifico e il suo miglior pregio.-

Corrado Farina:

-Non ho cambiato il mio punto di vista. Se non altro, è ancora più negativo. Considero ancora un certo tipo di pubblicità – quella che persuade o manipola, piuttosto che informare – come un volano per spingere gli esseri umani in direzioni forse utili e positive dal punto di vista economico, ma pericolose e sbagliate da un punto di vista etico e sociale. Come potrebbe dire Erich Fromm, crea un focus sull ‘”avere”, piuttosto che sull’ “essere”.-

Scheda Tecnica

… HANNO CAMBIATO FACCIA (1971) DI CORRADO FARINA

Anno 1971

Durata 97 min

Genere Fantastico – Horror – Satirico

Regia Corrado Farina

Soggetto Corrado Farina

Sceneggiatura Corrado Farina, Giulio Berruti

Casa di produzione Filmsettanta

Fotografia Aiace Parolin

Montaggio Giulio Berruti

Musiche Amedeo Tommasi

Interpreti e personaggi

Giuliano Esperati (Disperati): Alberto Valle

Adolfo Celi: Giovanni Nosferatu

Geraldine Hooper: Corinna

Francesca Modigliani: Laura

Doppiatori italiani

Renato Turi: Giovanni Nosferatu

Benita Martini: Corinna

Rassegna Stampa

Il trailer del film “…HANNO CAMBIATO FACCIA”

Corrado Farina era una persona poliedrica e si è occupato di molte cose. Sono interessanti i suoi corti e gli spot, che si possono trovare facilmente online, sono interessanti i suoi libri e gli altri suoi lavori. Si consiglia una visita alla sua pagina web.

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EKO Auriga – la Biga degli Dei

By Chitarre Vintage Italiane2 Comments

Ispirata alla celebre Mandoguitar nei tempi in cui la Eko produceva per Vox, l’Auriga è uno splendido esempio di design italico, con le sue linee slanciate e ben proporzionate e la paletta “reverse” di derivazione Eko 700.

Lorenzo

L’anno di commercializzazione è il 1968 e solo a guardarla si viene proiettati in un’era fatta di feste beat, vestiti colorati e capelli a caschetto.

Augusto Pierdominici, l’uomo che guidò la Eko dopo la morte del fondatore Oliviero Pigini (tempi in cui un dirigente d’azienda doveva essere anche il suo designer di punta, esattamente come lo fu Pigini), fece certamente un lavoro eccellente, con questo strumento destinato al complesso Equipe 84.

La storia narra che Maurizio Vandelli abbia portato con sé in Eko una Gibson Firebird, chiedendo appositamente che lo strumento venisse realizzato con paletta “reverse” (capovolta).

Ispirata alla celebre Mandoguitar nei tempi in cui la Eko produceva per Vox, l’Auriga è uno splendido esempio di design italico, con le sue linee slanciate e ben proporzionate e la paletta, appunto, “reverse” di derivazione Eko 700.

I potenziometri, molto ben organizzati, seguono il profilo del body e sul corno trova posto il selettore dei pick-up, due single coil sovravvolti che esteticamente ricordano il design di quei Burns Trisonic resi famosi da Hank Marvin degli Shadows e dalla celebre Red Special di Brian May.

La parte elettronica è suddivisa in volume generale + volume e tono per ciascun pick-up, una configurazione piuttosto atipica per gli strumenti Eko, forse realizzata su richiesta del gruppo stesso. Il selettore è a slitta a tre posizioni.

Il tremolo è quello tipico delle solid body del periodo, il modello Eko 102, con la sua ampia e comoda leva stile Bigsby. Le chiavette sono di precisione, a bagno idraulico, marchiate Eko.

Il nomignolo Tavolozza (o anche Picasso) fu dato a causa della forma del body che ricorda appunto quello della tavolozza da pittura.

Furono prodotti 40 esemplari, più alcuni bassi e almeno un esemplare a 12 corde, visto anche in una foto con gli Equipe 84.

I legni utilizzati, da quel che è dato di capire, erano pioppo o ontano per il body, acero per il manico e palissandro ed ebano per la tastiera.

L’esemplare nelle foto è di proprietà del collezionista Simon Testamatta, che, comprensibilmente, non ha alcuna intenzione di separarsene: “Era in un armadio a casa di una signora anziana, l’ho pulita e messa con le altre della sua ‘categoria’, le Italiane.”

Video panoramica della Eko Auriga di Simon.

Il Basso Auriga

Chiudiamo aggiungendo alcune immagini del basso Auriga, anch’esso nelle tipiche colorazioni rosso e sunburst.

L’esemplare rosso dentro la custodia appartiene al nostro affiliato, il collezionista Sergio Lombardi, mentre quello nell’immagine con la Auriga chitarra è di proprietà di un altro nostro affiliato, il collezionista Jacques Charbit, creatore della celebre linea di pedali effetto Jacques Pedals.

Infine, troviamo un sunburst in una vecchia foto di gruppo proveniente dall’Argentina.

Ringraziamenti

Si ringrazia Fetishguitars per l’utilizzo di alcune immagini.

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EKO 700 “Spaghetti alla Bolognese”

By Chitarre Vintage ItalianeNo Comments

Con questo articolo, Classic2vintage da spazio ad un nuovo collaboratore, il giovane liutaio Matteo Fontana, che ci presenta uno dei suoi ultimi lavori, una splendida Eko 700 uscita dalla capsula del tempo.

Lorenzo

Ma lasciamo la parola a Matteo:

«La serie Eko 700 venne prodotta dal 1961 al 1965 e tutti i modelli erano caratterizzati dalle tre spalle mancanti; quella posta sul lato inferiore della chitarra era ideata per suonare da seduti, con il manico rivolto verso l’alto, come da impostazione classica. Questa idea delle tre spalle mancanti, tipica dei modelli anni ’60 e chiamata anche “triple cutaway”, sembra essere frutto di Bartolini e dei fratelli Cingolani.

La serie 700 è ricca di dettagli ed è l’esempio perfetto per ricordare gli albori della Eko, quando si prendevano ancora i pezzi delle fisarmoniche, in particolare la celluloide, per costruire delle chitarre totalmente diverse rispetto a quelle che venivano prodotte in America.

La chitarra in mio possesso è una Eko 700 modello “Spaghetti alla Bolognese” e l’ho acquistata da un signore che l’aveva “dimenticata” per 58 anni nella sua custodia, dentro ad un armadio. Proprio per questo motivo lo strumento è in ottime condizioni, con colori e cromature ancora perfette.

Gli unici interventi che ho dovuto fare sono stati una leggera rettifica della tastiera, pulizia dell’elettronica e, ovviamente, un meritato cambio corde.

DESCRIZIONE DELLA CHITARRA

Questo strumento venne prodotto nella seconda metà del 1963, la datazione è facile perché nel corso di quell’anno i designer della Eko modificarono per l’ennesima volta piccoli dettagli nell’estetica della chitarra.

Viene chiamata “Spaghetti alla Bolognese” per il top in celluloide di colore rosa e oro. Il retro dello strumento, sempre in celluloide, è di un colore chiamato variegato all’amarena rosa; top e back sono uniti da un filetto in metallo color oro che sormonta le due coperture in plastica.

Il manico è unito al body con piastra a 4 viti, le meccaniche sono aperte, con bottoni ovali in plastica bianca, (presumibilmente meccaniche Van Gent). Il capotasto è in plastica bianca, la tastiera in palissandro ha sui lati un binding bianco; i tasti sono 21, più il tasto zero. Una particolarità delle Eko 700 sono i segna tasti in plastica bianca, la cui forma ricorda vagamente quella delle navicelle spaziali.

Il body, in multistrato come quasi tutti gli strumenti Eko dell’epoca, è sormontato da un battipenna bordeaux con il logo Eko in sovraimpressione. È proprio osservando il battipenna che si può affermare che questa chitarra è stata prodotta nella seconda metà del ’63 in quanto, rispetto alle chitarre prodotte nel primo semestre, questo battipenna è più arrotondato e gli è stato aggiunto anche un minijack con switch per remotare gli effetti.

Al di sotto del battipenna è ancorata tutta l’elettronica, con selezione dei pickup a 6 pulsanti, un volume e un tono. Il circuito viene chiamato a fisarmonica in quanto utilizza alcune parti, selettori compresi, che precedentemente erano utilizzati per la costruzione delle ormai antiquate fisarmoniche.

IL SUONO

Il suono è quello di una tipica chitarra vintage, quattro pickup single coil non molto potenti che ti obbligano a tenere le corde molto vicine; la cosa bella è che la selezione pickup funziona per preset e si hanno a disposizione 5 tipi di suono diverso.

Con il primo selettore chiamato M, tutti i pickup lavorano in contemporanea e si ottiene un suono molto bilanciato, perfetto per arpeggi e linee melodiche; è quello che potremmo paragonare al pickup al manico di una Fender.

Il secondo selettore chiamato 1, fa lavorare solo il primo pickup al manico, il suono è molto pastoso e mette in risalto i bassi, a discapito delle frequenze più alte.

Il terzo selettore, chiamato 4, fa lavorare solo il quarto pickup, quello al ponte. Il suono è l’opposto del precedente, molto tagliente ed elimina quasi completamente le frequenze basse.

Il quarto selettore invece è una combinazione tra il pickup al manico e il pickup al ponte, infatti è chiamato 1+4; il suono è potente, meno impastato rispetto ad M ed è molto gradevole.

Il quinto selettore è l’ultima combinazione e fa lavorare insieme i pickup in mezzo per questo è chiamato 2+3; anche in questo caso il suono è tagliente, simile al suono del terzo selettore ma con più volume, dovuto alla combinazione tra i due pickup.

Infine l’ultimo selettore è chiamato 0 (zero) e praticamente è un Off che, se selezionato, disattiva tutti e quattro i pickup.

CONCLUSIONI

Come in tutte le chitarre vintage, i difetti ci sono, ma la cosa più bella di questo strumento, oltre al suono che ti trasporta in un’altra epoca, è l’estetica, un’estetica davvero particolare ed innovativa, per il tempo futuristica e che rispecchia a pieno gli intenti della Eko nei suoi primi anni, cioè differenziarsi dalle già diffusissime chitarre americane.

Un’altra caratteristica meravigliosa è il riadattamento delle parti delle vecchie fisarmoniche, dalla copertura in celluloide alle componentistiche dell’elettronica. Il tutto è stato fatto così bene da non ricordare i vecchi strumenti popolari, ma porta piuttosto a pensare alla chitarra come ad un oggetto di design, ricco di dettagli e di peculiarità che ormai da anni non si vedono più.»

-Matteo Fontana-

«Liuteria Fontana è un progetto giovanissimo, nato dopo aver conseguito il diploma presso la Civica Scuola di Liuteria di Milano. Sono un giovane liutaio che ha voglia di imparare e migliorarsi, questo articolo è stata una grande occasione per esprimere il mio parere a riguardo di uno strumento davvero unico. Se vorrete vedere i miei lavori potete visitare le pagine Facebook e Instagram»

Demo dei suoni di questa Eko 700 “Spaghetti alla Bolognese”.

Come suona in saturazione una Eko 700 a quattro pickup.

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Wandré Etrurian Basso

By Bassi Vintage Italiani, Personaggi Storici, Wandrè2 Comments

Siamo lieti di inaugurare la "vetrina" di Classic2vintage con questo rarissimo pezzo di Italica produzione: uno splendido esemplare di basso Etrurian di Wandrè.

Lorenzo

Come molti appassionati sapranno, Wandrè era il nome di battaglia di Antonio Pioli, il genio di Cavriago, piccolo centro situato nella pianura padana.

Studioso di ingegneria e artista, prima che liutaio, Pioli cominciò ad interessarsi alle chitarre nella metà degli anni cinquanta e nel 1959 costruì una rivoluzionaria fabbrica tonda, nella quale avrà sede la sua particolare “liuteria”.

Il signor Wandrè è stato l’autore di alcuni fra i più sconvolgenti strumenti di liuteria moderna, sia elettrica (in buona parte strumenti a cassa vuota ma anche varie solid body) che acustica (lo splendido contrabbasso Naika).

Gran parte dei suoi strumenti presentano soluzioni innovative come il manico in alluminio ricoperto di resina PVC e speciali pickups ed elettronica di fabbricazione Davoli con bobina che cambia l’impedenza del pickup, così da poter ottenere da un unico rilevatore due timbriche molto definite, come se i pickup fossero due.

Grazie a questo accorgimento, in combinazione con il controllo toni, le sfumature sonore diventano molteplici e sorprendenti.

Ma la cosa che salta subito all’occhio sono le forme assolutamente inedite e le decorazioni estremamente artistiche e colorate dei suoi strumenti.

Copertina del 45 giri “Chi lo sa” (1966) del gruppo Beat degli Im-Pact, sulla quale campeggiano due Wandré Scarabeo con al centro un Etrurian

E’ il caso dello splendido Basso Etrurian che è oggetto del presente articolo: uno strumento che, come il nome suggerisce, prende ispirazione dalla civiltà etrusca, riproponendo in forme e colore un tipico vaso bucchero e utilizzando le spalle mancanti come richiamo ai manici del bucchero stesso, donandogli anche una forma ricurva che ricorda i Litui etruschi.

Ma anche il manico, il cui diapason è 854 mm, ha una forma che può ricordare vagamente anche il Lituo di Bach, una leggendaria tromba dalla forma estremamente allungata che è stata recentemente ricostruita.

I primi esemplari avevano un unico pickup al manico, controllo tono e volume e un interruttore on-off per il pickup.

Il legno usato per il body è l’ Ayous o Obeche (un tipo di essenza centro africana), body nel quale è ricavata un’ampia camera tonale che conferisce al basso un’estrema leggerezza.

A chiuderla troviamo dei pick-guard che può essere in plexiglass bianco, nero o rosa, oppure in formica color legno con talvolta una decorazione a foggia di giglio fiorentino.

In seguito arriverà anche l’Etrurian con due pickup.

Per maggiori informazioni vi rimandiamo all’ottimo libro “Wandré – L’artista della chitarra elettrica” scritto dal maggior esperto di Wandré, il dott. Marco Ballestri.

L’ Etrurian Basso, concepito da Wandrè in collaborazione con il giovane designer Stefano Beltrami, è innegabilmente un esempio di arte concettuale, dove lo stile moderno si lega mirabilmente al passato e il design si sposa perfettamente con l’ergonomia dello strumento elettrico. 

Ne nasce un’opera indimenticabile, che proseguirà la sua vita nel tempo, passando nelle mani di musicisti attuali e futuri: cosa potremmo desiderare di più per l’arte, se non il suo continuo rinnovarsi per rimanere eterna?

L’esemplare che vi presentiamo nelle seguenti immagini è di proprietà del collezionista Alessandro Marziali, si tratta di una prima edizione con unico pickup e mascherina in formica, senza il tipico copri-paletta in plastica, disegnato anch’esso dal designer Stefano Beltrami in collaborazione con Wandré, che verrà apposto a partire dalla seconda metà del 1965. E’ presente invece la linguetta stilizzata sulla sommità della paletta.

Sono state aggiunte 3 viti, una come rinforzo alla placca del manico e due per spostare l’attacco per la tracolla. Con il tempo e l’uso si è verificata una crepa nella copertura in PVC del manico, tra il terzo e il quinto tasto.

Non essendo stato possibile sostituire il pezzo, data la quasi irreperibilità delle parti di ricambio, ed essendo il manico ottimamente suonabile allo stato attuale, si è preferito non effettuare interventi invasivi ma solo conservativi.

Lo strumento è stato quindi totalmente pulito e revisionato, corde nuove, funziona perfettamente e con la tipica ottima suonabilità.

Per ulteriori informazioni e contatti, rivolgersi ad Alessandro, all’indirizzo [email protected]

Ringraziamenti

Ringraziamo il gruppo Facebook Wandré Guitars che, nella persona del dottor Marco Ballestri, ci ha cortesemente fornito materiale informativo e fotografico, nonchè gentile consulenza.

Un ringraziamento doveroso và poi all’artefice di tutto, quel Wandré che ci ha lasciato un patrimonio di arte e innovazione che non manca mai di farci rimanere in stupefatta ammirazione.

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Harmond De Luxe Viola Bass

By Bassi Vintage ItalianiNo Comments

Una delle cose più affascinanti degli strumenti vintage italiani, è il fatto di ritrovarsi, come dei novelli Indiana Jones, in una continua e soprendente scoperta di marchi sconosciuti.

Lorenzo

E’ il caso di questo Armond De Luxe, con il quale inauguriamo la sezione Bassi di Classic2vintage.

Si tratta di un classico viola bass molto ben realizzato e dalle tonalità ambrate assolutamente accattivanti, che sprigionano il tipico calore degli strumenti vintage di “quelli belli”.

Il suo possessore, il collezionista Massimo Bellomo, ci narra qualcosa della sua storia:

“Acquistai questo basso nel 1975. Era il mio primo basso, un usato economico, anche se in ottime condizioni. L’ho suonato (e maltrattato) fino al 1980, poi è stato riposto in soffitta, dove è rimasto fino a marzo 2020 quando, approfittando del lock down, e stato “riesumato”, ripulito e settato al meglio.

Oggi lo strumento si presenta in condizioni pressoché originali (fatta eccezione per l’abbassacorde, che verrà presto sostituito con gli originali “a farfalla”).

Non mi è mai capitato di vederne uno uguale con lo stesso marchio, ma da ricerche effettuate on line ho scoperto che il marchio Harold-Jackson (Manlio Accoroni di Castelfidardo, titolare dell’ex fabbrica di fisarmoniche ELETTRA, il cui stabile era la vecchia fabbrica della Polverini Bros poi demolita) ne produceva modelli molto simili.”

Non sono attualmente disponibili altre informazioni su questo strumento ma, come da nostra usanza, continueremo la ricerca e vi terremo informati aggiornando l’articolo appena verranno reperite nuove notizie.

Nel frattempo gustiamoci altre immagini e video test di questo affascinante basso.

Aggiornamento:

Durante le ricerche è saltata fuori anche una chitarra Harmond Del Luxe ed è in vendita. Le immagini si trovano alla fine dell’articolo, chi fosse interessato all’acquisto, può rivolgersi al proprietario, Mattia Benvenuti.

La chitarra Harmond De Luxe è una offset che dichiarà immediatamente la sua italianità, a partire dallo “zero fret”. Ha i classici controlli volume + tono e un controllo rotativo di selezione dei pickup, con anche la posizione “zero” per silenziare lo strumento senza agire sul volume.

La regolazione del truss rod è tipicamente al tacco del manico e si può agire su di essa senza dover separare il manico dalla cassa, come accadeva sulle Fender, con notevole aumento di praticità e assoluto risparmio di tempo. Questa soluzione, di origine italiana, si ritrova oggi, assurdamente, quasi solamente sugli strumenti EKO e Ernie Ball Music Man.

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Jolana Big Beat, un pezzo di Futurismo

By Chitarre Vintage CecheNo Comments

Gli anni 60 hanno segnato un periodo di enorme innovazione e fantasia nel design ovunque nel mondo, chiaramente l'Est Europa non poteva mancare alla chiamata.

Lorenzo

Facendo un attimo di mente locale, mi ricordo che da piccoli ci parlavano dell’est europeo come di un luogo buio e totalmente chiuso all’occidente e alle sue “devianze”, dove non esistevano altro che povertà e arretratezza…quindi viene spontaneo chiedersi: da dove salta fuori tutta questa musica rock, funk, jazz est europea che da anni impazza sui canali video tematici? E tutti questi strumenti con i quali veniva suonata, non solo assolutamente occidentali ma addirittura provenienti dagli USA, ma anche estrememente costosi e difficili da reperire persino nella parte “libera” dell’Europa? Quindi, a questo punto, perchè sorprendersi dell’esistenza di indotti che producevano non solo chitarre elettriche ma addirittura di fogge assolutamente non conformi all’immagine grigia che ci era stata raccontata di quei posti?

Scopriamo oggi, con piacere, che in Cecoslovacchia esisteva una fabbrica di nome Jolana che produceva uno strumento assolutamente attraente ed inedito, la splendida Big Beat!

La Big Beat ha una grande somiglianza con la celeberrima Chiquita di Mark Erlewine, una travel guitar resa iconica sia da Billy Gibbons degli ZZ Top (suo co-creatore) che dal film Ritorno al Futuro, dove il piccolo diavolo giallo fa bella mostra di sè in un primissimo piano della celebre scena di apertura:

Lo strumento completo è composto dalla chitarra vera e propria e da un amplificatore ad essa collegato. Come opzione veniva offerto anche lo Jolana T6 Kombo, un piccolo amplificatore esterno alloggiato in una custodia per macchina da scrivere portatile e contenente la stessa circuitazione di quello collegato alla chitarra.

L’esemplare qua presente, che appartiene al nostro amico collezionista Gordy Ramz, si trova al momento in una fase di riparazione resa problematica dalla difficoltà nel riuscire a reperire lo schema elettrico di questo rarissimo strumento, non è stato quindi possibile ottenere una registrazione della chitarra suonata ma non appena ve ne sarà la possibilità l’articolo verrà aggiornato.

AGGIORNAMENTO:

grazie all’amico Mattheus siamo entrati in possesso dello schema dell’ampli della Big Beat, si trovano alla fine dell’articolo.
Mattheus ci informa anche che la chitarra è estremamente rara e costosa ed è molto ricercata in Repubblica Ceca e Slovacchia.

Gustiamocela per il momento in questo spezzone tratto da un film dell’epoca:

Le immagini seguenti sono invece tratte dal sito jolana.info

Non molto è conosciuto della storia della Jolana Big Beat, tranne che fu il prodotto della mente geniale e del lavoro di un personaggio molto importante per lo sviluppo della chitarra elettrica dell’est Europa, il signor Josef Růžička (1928 / 2004), definito giustamente il Leo Fender Ceco. Il signor Růžička fu responsabile della nascita, tra le altre, della bella Resonet Grazioso che abbiamo visto tra le mani di George Harrison e Jimmy Page.

Una galleria di video della Big Beat e dell’amplificatore “lunchbag” opzionale.

Gli schemi che Mattheus ci ha gentilmente fornito

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I Due Mondi Di Kevin (Didn’t You Hear…?) – 1971

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

KARL KROGSTAD è venuto a mancare esattamente un anno fa.
Nell'occasione dell'anniversario del suo passaggio ad un'altra dimensione, vogliamo fargli omaggio di questo articolo, con il quale viene ufficialmente inaugurata la sezione cinema di Classic2vintage.

The Boss

Karl Krogstad

Vi chiederete chi fosse il signor Krogstad. Ebbene, non solo era uno dei registi/sceneggiatori indipendenti più stimati della scena di Seattle ma è stato, appunto, lo sceneggiatore e regista de “I due mondi di Kevin” (Didn’t you hear…?).

Adesso vi chiederete cosa sia “I due mondi di Kevin”…va bene, basta con questo giochetto: si tratta di uno dei film più particolari e difficili da reperire.

Tanto per iniziare ha una storia travagliata: dichiarato come uscito nel 1983, risale in realtà al dicembre 1970 e uscì in contemporanea in alcune sale del circuito di Seattle il 24 febbraio 1971, proprio in coincidenza di una tremenda tempesta di neve, così che venne visionato solo da uno sparutissimo gruppo di persone.

Pare in seguito sia stata programmata una più vasta distribuzione nelle sale attraverso la Futurama International per il luglio 1972 ma in realtà non sono state reperite prove di ulteriori proiezioni oltre a quelle di Seattle.

La Skip Sherwood Productions rinnovò il copyright nel 1983 (motivo per il quale gli è stato erroneamente assegnato l’83 come anno di uscita) e il film iniziò i passaggi tv in tarda serata, cominciando finalmente a raccogliere un suo seguito di fan.

Venne poi riedito nel 1985 in VHS dalla American National Enterprises (A.N.E.) Home Video/Prism Entertainment, in tiratura talmente bassa che è molto difficile da trovare anche negli Usa.

Non è nemmeno chiaro se sia stata prodotta una versione DVD o meno.

Insomma, il classico film fantasma, del quale forse si sono perse le tracce…se non fosse che Classic2vintage possiede quella che sicuramente è l’unica copia in italiano esistente in VHS, pazientemente registrata oltre 25 anni fa durante un passaggio tv.

Ed è anche di qualità più che accettabile.

Sinceramente non sappiamo nemmeno come sia possibile che esista un’edizione italiana di questo film.

E dopo aver fatto un po’ di cronistoria, andiamo adesso a parlare del film stesso.

In un’epoca nella quale il cinema psichedelico e sperimentale era cosa all’ordine del giorno, si pensò di lanciare Didn’t You Hear come “il primo film con colonna sonora totalmente elettronica! Sperimenterete suoni e sensazioni che non avete mai avuto prima“.

Della composizione della soundtrack, appunto, si occupò lo specialista in elettronica Mort Garson, operandola con il suo Moog modulare, mentre oggetto/sceneggiatura e regia (erroneamente attribuita al produttore Skip Sherwood) furono opera del nostro signor Krogstad.

Copertina del vinile

Mort Garson

Ma di cosa tratta il film?

Dunque, Kevin è uno studente del college con un’elevata sensibilità e con parecchi problemi a confrontarsi e vivere a contatto con i propri coetanei.

In pratica quello che oggi verrebbe facilmente liquidato come nerd sociopatico: estremamente timido e con una grande difficoltà a rapportarsi con l’altro sesso, vive in pratica quella difficile situazione nella quale una persona si trova ad essere quando è più matura e sensibile rispetto alla propria età fisiologica.

Impossibilitato a legare con gli altri nella realtà, si rifugia in sogni psichedelici ad occhi aperti dove lui e i compagni di classe (gli amici che non riesce ad avere nella realtà) si impadroniscono di un veliero abbandonato a pochi metri dalla riva, lo battezzano Regina di Saba e giocano alla vita dei pirati, solcando in lungo e in largo un arcipelago di isolette (principalmente Lopez Island e le San Juan Islands).

In questi viaggi, infarciti di dialoghi e considerazioni filosofiche interessanti e simboliche (“perchè gli umani ad un certo punto della vita smettono di giocare?” – ci stanno derubando della nostra individualità), incontrano gli abitanti delle isole e ne nescono situazioni spesso surreali e colorate.

E’ questa la parte degna di nota del film, assieme alla fotografia psichedelica e alle gestualità rituali e votate al simbolismo.

Per quanto riguarda invece la parte “reale”, girata nel campus della Washington University, è sicuramente prevedibile ma serve appunto come efficace preambolo di lancio per la parte onirica.

Krogstad si occupò anche della fotografia ed è piuttosto chiaro che il progetto gli stesse parecchio a cuore. Il risultato non è affatto male, la colonna sonora di Garson, ricca di sonorità particolari e atmosfere vintage, è sognante e psichedelica e si sposa ottimamente alle immagini surreali delle avventure che i novelli pirati psichici vivono tra le isole.

Passiamo al comparto recitazione: Kevin è interpretato da un giovanissimo Dennis Christopher, caratterista super prolifico e protagonista di alcune pellicole di culto come All American Boys e Dissolvenza in Nero (Fade to Black), probabilmente però in Italia il suo ruolo più famoso è quello di Eddy Spaghetti nella prima, ottima, versione di IT realizzata da Tommy Lee Wallace e Larry Cohen.

James, unico amico di Kevin nel mondo reale, è il noto Gary Busey e Paige, compagna dei sogni di Kevin, è l’affascinante Cheryl Waters, qua al suo debutto.

Dennis CHristopher

Gary Busey

Cheryl Waters

L’unico trailer reperibile è però virato sulle scarse scene d’azione presenti e non rende quindi un’idea reale del film.

Trailer del film

“I due mondi di Kevin” è una pellicola che, tutto sommato, conserva una buona freschezza e tiene vivo l’interesse alla visione e al suo messaggio giovanile che in realtà vale per tutte le età.

Il parere di Classic2vintage è che il film meriti la visione; l’augurio, a questo punto, è di riuscire a trovarlo.

Recensione del film alla prima

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The mysterious Serrini Bros

By Chitarre Vintage ItalianeNo Comments

Proseguiamo il nostro viaggio negli strumenti d'epoca con un altro rarissimo esemplare, probabilmente uno dei più rari al mondo, con buona probabilità che possa trattarsi addirittura di un prototipo mai entrato in produzione.

Lorenzo

Capita, fin troppo spesso, che nella sterminata produzione di strumenti italiani della regione delle Marche saltino fuori dei prototipi o degli esemplari rimasti ad una piccola produzione artigianale a scopo dimostrativo e mai entrata in produzione, era cosa comune in quel folle calderone di idee che erano gli anni 60 e 70 italiani, dove gli esempi di ottimo design si “sprecavano”, spesso anche letteralmente (in seguito altri in cerca di idee ne avrebbero approfittato e possiamo vederne esempi recentissimi anche nella produzione di arredo ed illuminazione di note multinazionali del settore).

Sembra proprio che questa Serrini Bros sia stata prodotta da una ditta che si ooccupava, com’era di prassi nella zona delle Marche, di fisarmoniche.  Le sparute notizie che si trovano in rete indicano la probabile appartenenza del marchio a Randolfo Serrini che, al ritorno dagli USA, fondò la ditta Lira a Castelfidardo, mantenendo i legami commerciali con l’ex socio Zoppi a Chicago.

Lo strumento si presenta con un design irregolare e slanciato, abbastanza atipico per la produzione italiana dell’epoca e ricordare i lavori di Jim Burns e Neal Moser e, in alcuni particolari, anche Wandrè e Dean Zelinsky.

Presente anche qua la tipica pulsantiera per la selezione della combinazione dei pickup che ritroviamo in gran parte degli strumenti di produzione marchigiana dell’epoca, molto simile a quelle che venivano installate anche su alcuni strumenti giapponesi di ispirazione italica. Tipici anche i quattro pickup single coil installati a coppie.

Ciò che desta particolarmente l’attenzione sono la paletta, che diventa biforcuta sulla sommità, la bella forma irregolare del corpo con i due corni audacemente sottili e slanciati e il particolare sunburst della finitura. E’ presente anche un tremolo di forma non proprio usuale. In complesso uno stumento dall’estetica piacevole e con una spiccata personalità.

Il possessore della chitarra, il collezionista Gordy Ramz, ha acquistato la Serrini Bros direttamente dall’Australia nel 2011 e molto gentilmente ci ha inviato immagini, video e la documentazione in suo possesso, un post del 2008 reperito su un forum e dal quale risulta che lo strumento è stato rinvenuto nel 2007 in una discarica.

Lo strumento è stato sottoposto ad una approfondita manutenzione e attualmente si trova in perfetto stato di funzionamento.

Per il momento è tutto, speriamo di poter aggiornare l’articolo quanto prima con nuove ed interessanti informazioni e magari anche con il ritrovamento di altri strumenti della Lira/Serrini.

Alcuni video della Serrini Bros.

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Dedicato a Mario Maggi (parte terza)

By Mario Maggi, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Il nome lo scelsi dopo numerose notti insonni, doveva essere un nome breve che finisse con la X, è probabile che abbia influito anche Tex Willer, all’epoca Bonelli mi faceva impazzire… La grafica invece è stata in parte ispirata da una società di componenti elettronici, con questi tagli orizzontali che fecero scalpore; sottoposi la cosa al grafico in Elka e loro completarono le fonts necessarie."

Lorenzo

Il Synthex

Ed eccoci arrivati al capolavoro storico di Mario Maggi, quello che gli ha finalmente concesso la rivincita su Prophet e Oberheim, a fronte di maggior polifonia e grandi potenzialità tra cui il sequencer polifonico, il filtro multimode, il chorus, il ring modulator e un prezzo a dir poco vantaggioso rispetto alla concorrenza. Un capolavoro dalla genesi travagliata ma che ha finalmente visto trionfare il nostro ingegnere.

“Il Synthex è stata la conclusione logica di oltre 12 anni di lavoro con i sintetizzatori. Per capirlo bene, devi guardare lontano nel passato. Comunque, dopo aver programmato la produzione in serie del MCS70 venni a sapere che un nuovo dispositivo stava per arrivare sul mercato: un sintetizzatore polifonico chiamato Prophet-5. Questa era la ragione. Fino ad allora, avevamo un piccolo laboratorio con un piccolo numero di tecnici freelance, con cui abbiamo prodotto l’ MCS70. Fui quindi costretto a bloccare la costruzione di altri 9 MCS70 che erano in programma e iniziai a lavorare su un progetto polifonico io stesso…il progetto Synthex era iniziato. Per il Synthex, era chiaro che c’era bisogno di un’azienda consolidata con una fabbrica per un progetto così ampio.

Il nome lo scelsi dopo numerose notti insonni, doveva essere un nome breve che finisse con la X, è probabile che abbia influito anche Tex Willer, all’epoca Bonelli mi faceva impazzire… La grafica invece è stata in parte ispirata da una società di componenti elettronici, con questi tagli orizzontali che fecero scalpore; sottoposi la cosa al grafico in Elka e loro completarono le fonts necessarie.

C’è stato il prototipo che venne presentato alla Elka, con un pannello molto diverso da quello attuale: non aveva il chorus, non c’era il sequencer, c’era il minimo: due oscillatori, un filtro con vca, due inviluppo e un lfo, il minimo indispensabile. Però aveva già un suono che si riconosceva.

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Il primo abbozzo di programma per il Synthex, un programma da 1,5 Kb, è stato realizzato scrivendo a mano le istruzioni sulla carta e digitando con la tastierina esadecimale su un sistema di sviluppo a basso costo, calcolando tutti i salti relativi in esadecima a mano, non c’era niente di niente. Poi, man mano che il progetto andava avanti uscì un primo sistemino dove c’era un assemblatore. Mi attrezzai con questo sistema che aveva, di base, 256 bytes di RAM, zero memoria di massa, non c’erano floppy, non c’erano hard disk… niente.

Per fortuna c’era un’interfaccia a cassette e quindi, con due registratori audio, potevo salvare i programmi che altrimento dovevo scrivere su carta… In questo modo si potevano salvare i programmi e assemblarli; tempo di assemblaggio per un programma stile Synthex era pari a 5 minuti… impensabile per i ritmi di oggi.

Nei due anni di realizzazione per il prototipo del Synthex, (che finalmente aveva il microprocessore a bordo) bisogna comprendere anche il tempo necessario per imparare a scrivere software con strumenti primordiali; all’inizio, per visualizzare il programma, avevo a disposizione solo un display da venti caratteri, ad una sola riga… Dovevo leggere il programma una riga alla volta, successivamente riuscii a costruire una prima scheda video per poter visualizzare più caratteri tutti insieme, ma dovetti partire da zero perchè non c’era nulla di disponibile. Qualche anno dopo sono riuscito a mettere le mani sul primo floppy disc.

Nel Synthex c’è un unico processore – a quei tempi costavano una tombola e quindi il suo inserimento era considerato un lusso notevole – con velocità pari a 1 mHz, lo stesso processore dell’Apple II e del Commodore 64, il modello 6502 ancora oggi in produzione da parte della Western Design Center. L’antagonista di quei tempi era lo Z80, contenuto nel Prophet 5 e, prima ancora nello Spectrum Sinclair.

Inizialmente ho offerto il progetto a tre altre società prima che la ELKA alla fine accettasse. Per prima cosa l’ho offerto a Galanti, proprietario di GEM, poi a EKO e infine a Mario Crucianelli, proprietario di CRUMAR. Soprattutto i negoziati con CRUMAR sono durati diversi giorni, ma fortunatamente per me hanno finalmente rinunciato al progetto.

Dopo alcuni mesi, stavo per arrendermi.

Poi è successo che un amico decise di andare a Castelfidardo per far riparare il suo organo alla ELKA. decisi di andare con lui e portare con me il prototipo del SYNTHEX per fare un ultimo tentativo di trovargli un produttore.

Il direttore del dipartimento musicale di Elka e anche il consiglio rimasero estremamente colpiti dal suono e dalle molte possibilità. E senza perdere un secondo di tempo, mi chiesero se volevo presentare il Synthex alla prossima fiera della musica per testare le reazioni dei visitatori.

Due mesi dopo, insieme a Elka, presentammo il Synthex al Musikmesse, con funzionalità aggiuntive e un nuovo pannello. Ebbi modo di conoscere i partner di vendita Elka di tutto il mondo e, a sua volta, il giovane Paul Wiffen, che era stato assunto da Elka UK, e che in futuro sarebbe diventato anche il dimostratore Synthex.

A Francoforte arrivai con ben due giorni di ritardo, per i soliti problemi dell’ultimo secondo e appena arrivato sullo stand c’erano già due distributori che stavano aspettando per ascoltare lo strumento, non ebbi neanche il tempo di lasciare i bagagli in albergo: appoggiai il prototipo su un bancone e feci la dimostrazione con il sequencer polifonico.

E tieni presente che, a quei tempi, un sequencer polifonico funzionante era una cosa clamorosa, sopratutto incorporato in un sintetizzatore, era un’esperienza inedita. Subito dopo la Fiera c’era un bell’impatto di credibilità e, in Elka, si prese la decisione di partire con una prima serie di cinquanta strumenti.

La mia sensazione era che fossero troppi, mi prese il panico… non pensavo che sarebbe stato possibile venderli tutti (io avrei proposto dieci macchine), loro decisero cinquanta e invece azzeccarono in pieno le previsioni perchè gli strumenti furono letteralmente ingoiati dal mercato musicale.

Oggi, i primi cinquanta modelli li puoi riconoscere da un particolare: furono usate manopole costosissime, di produzione inglese, con il body verniciato di nero e questa vernice, con l’uso, tendeva a sgraffiarsi perdendo la satinatura, mettendo in vista il colore nero sottostante.

Gli strumenti successivi ebbero manopole fatte internamente alla Elka, da un loro stampatore di fiducia, che non presentano questo inconveniente. Comunque, tanto per tornare alle previsioni di mercato, non fecero in tempo a finire i primi cinquanta che furono obbligati a lanciare un nuovo ordine di altre duecento macchine.

La cosa è stata un crescendo continuo; non si faceva in tempo a costruirli e a consegnarli, i distributori erano assetati di macchine, era una situazione quasi tragica, se non fosse stata comica.

In Elka avevano una gran pratica di organi da casa, e -per facilitare la linea di produzione -proposero subito il mobile in legno con la possibilità di agganciare le gambe indipendenti; di listino, lo strumento era disponibile con un flight case, le zampe e la custodia delle zampe; non vennero mai prodotti dei pedali dedicati.

La macchina costava cinque milioni e mezzo dell’epoca; a quei tempi l’alternativa era rappresentata dal Prophet 5, che qui costava sette o otto milioni e poi Oberheim OBx, insomma c’erano solo macchine molto più costose che, tra l’altro, avevano una polifonia più ridotta e non possedevano sequencer interno.”

“Dopo la prima serie di 50 venne fuori il MIDI, una novità clamorosa; divenne necessario fare un retrofit. Per fortuna, sul Synthex avevo previsto un multiconnettore per l’interfaccia computer – prima che esistesse il MIDI ero già cosciente delle possibilità di controllo offerte dal microprocessore sulle voci dello strumento, per fargli fare cose che erano impensabili per uno strumento analogico.

Arrivato il MIDI, si fece un nuovo circuito stampato, si sostituirono le EPROM del software e si otteneva la compatibilità a livello di nota on/nota off, e sopratutto si ricevevano e trasmettevano le note da e per il sequencer interno.

C’è una serie di caratteristiche funzionali che oggi sono considerate uno standard, ma che sono state inserite per la prima volta in uno strumento musicale proprio con il Synthex; te le elenco: il filtro multimodo con gestione polifonica, il chorus analogico on board, il sequencer multilinee e multitimbrico, gli oscillatori ibridi.

Insomma, i milleottecento cinquanta strumenti costruiti dalla Elka a suo tempo (e non è un mistero per nessuno che, tra gli utenti “blasonati” è possibile citare Keith Emerson, J.M. Jarre, Tangerine Dream, Stevie Wonder, Nick Rhodes, Geoff Downes…insomma, gente col manico), oggi sono oggetto di una caccia spietata tanto da parte dei collezionisti vintage che da parte di musicisti “militanti”…

E allora perchè, partendo da quell’esperienza, non fare qualcosa di ancora più potente, analogico e definitivo?

Del resto io sono il proprietario del progetto, che ho creato assieme al nome, al logo, al layout del pannello, al design della circuit board e al codice delle eprom, quindi ho registrato il marchio di fabbrica a mio nome.”

Questo ha logicamente messo fine al sogno della finlandese Soundion (che dopo aver acquisito la Elka, sperava di poter fabbricare anche il Synthex) ma non a quello di Mario, che da anni sta lavorando alla nuova versione della sua creatura, il Synthex 2, le cui immagini indicative e le impressionanti specifiche si possono vedere sul sito di Maggi, di nuovo un’autentica innovazione in un settore dove è già stato fatto praticamente tutto e che ci auguriamo possa vedere presto la luce.

Da sempre uno dei maggiori e appassionati fruitori del Synthex, Jean Michel Jarre ci spiega il perchè del suo amore per questo sintetizzatore, che utilizza anche con la mitica interfaccia Arpa Laser.

Clicca sotto e guarda il video di Jean Michel Jarre che parla del Synthex e spiega il perchè del suo amore per questo sintetizzatore.

Ma cosa fece il nostro Mario, dopo l’avventura del Synthex, a cosa dedicò la sua brillante inventiva?

“Dopo il Synthex, ho realizzato diversi progetti al di fuori del mondo musicale (attrezzature di collaudo, apparecchiature medicali…) e poi ho fatto un equalizzatore parametrico, controllabile via MIDI, che ha la possibilità di morphing tra i parametri; una sorta di equalizzazione dinamica che può essere automatizzata completamente. Su questo progetto ci sono state lunghe trattative con la Audio Kinetics e con la Solid State Logic…”

Siamo riusciti a reperire anche un’affascinante testimonianza del suo fraterno amico Templeton, che parla proprio dei giorni della creazione del Synthex:

Artwork creato da Roberto Bellucci di Elettronica Musicale Italiana, per la prima edizione del “Museo del Synth Marchigiano e Italiano”.

“Mario Maggi aveva una sua filosofia personale e un modo unico di studiare e sviluppare i suoi progetti. Era avanti a tutti gli altri di almeno 10 anni. Assurdo che l’industria elettronica non abbia voluto sostenerlo nelle sue geniali ricerche.

Ricordo ancora molto bene i problemi con l’acquisto degli speciali integrati AD-DA dalla Intersil e altri produttori. Sapevo che fortunatamente Mario era supportato nella sua ricerca da altri giovani che lo aiutarono molto, alcuni dei quali fornendo gratuitamente la componentistica.

Da parte mia, ho rastrellato tutte le scorte di componenti d’Inghilterra per trovare degli integrati con le caratteristiche adatte!

Molti di coloro che prendevano ancora il biberon in quegli anni, e usano questo strumento oggi, hanno difficoltà a capire le dure condizioni alle quali questo grande e allo stesso tempo modesto sviluppatore ha dovuto lavorare in Italia. Quasi nessuno può immaginare quanto fosse difficile trovare uno sponsor per un nuovo progetto.

Mario Maggi si è praticamente sempre dovuto autofinanziare il suo lavoro, e questo vale anche per il SYNTHEX. Fortunatamente ha avuto piccoli aiuti dagli amici, come piccole donazioni, supporto logistico, fornitura di tonnellate di pasticcini (come carburante per il cervello), fornitura di componenti speciali e molto altro.

Ma tutto questo era solo una goccia nell’oceano, rispetto alla dedizione e all’investimento che ha portato questo uomo disinteressato a realizzare le sue idee.

Non è stato quasi mai supportato dalle pubbliche istituzioni e più avanti, è stato solamente sfruttato dalle varie ditte. Mario Maggi era, è, e sarà sempre, una persona capace e modesta, senza grandi pretese tranne il portare avanti il proprio sogno, gentile e generoso con tutti, un vero idealista.

È un uomo al quale si può affidare fiduciosamente la propria carta di credito e il proprio portafogli con la certezza che non si prenderà un soldo.

Ha collaborato con varie società nel campo della musica elettronica (Crumar – Elka). Aziende che ebbero una grande fortuna ad averlo come consulente tecnico, ma come tutte le aziende a scopo di lucro non sempre lo capivano come persona e come sviluppatore e finivano con lo sprecare il suo lavoro.

Electronic & Music Maker dell’Aprile 1983, articolo
sul Synthex

Mario era ed è un amico, un amico dei musicisti, di tutti i musicisti, anche quelli che non ha mai incontrato ma che apprezzano lui e gli strumenti che ha costruito. Una persona che amorevolmente si impegna a spiegare il lavoro che ha fatto sul Synthex.

Se solo una volta aveste visto il suo laboratorio, dove trascorreva ore a mettere a punto il software, riprogrammandolo, cancellando costantemente la eprom del Synthex per correggere questo e quell’errore.

Se almeno una volta aveste trascorso una delle migliaia di notti con lui, seduti a distruggersi gli occhi davanti al monitor a 14” a fosfori verdi, al costante, caparbio e paziente lavoro dalle 3 del pomeriggio fino alle 3 o le 4 del mattino…forse allora riuscireste a capire.

E agli amici che lo prendevano in giro per questa sua “ossessione” per il suo lavoro rispondeva sempre con un sorriso amabile e quando lavorava era sempre in piena serenità: mai un’imprecazione, nemmeno quando, rapidissimo, lavorava contemporaneamente alle tastiere di due computer, saldava, dissaldava, controllava con l’oscilloscopio, programmava e riprogrammava eprom senza sosta.

Mario per me era la felicità incarnata, unita a una competenza così unica che avrebbe potuto lavorare in qualsiasi grande centro di ricerca o alla Nasa.

Ma lui preferiva il suo mondo, il mondo della musica e della sua cantina-laboratorio.

Sfortunatamente, questo mondo da lui così tanto amato lo ha ben poco supportato, solo pochi gentiluomini tra i musicisti. Oggi avrebbe come minimo ricevuto i ringraziamenti di tanti. Ma Mario Maggi non ha ricevuto alcun ringraziamento da questo mondo. Se lo cercate su Internet, troverete tristemente solo 46 riferimenti in varie lingue su di lui (a partire dall’ottobre 2004) che ne hanno anche parlato perlopiù superficialmente e telegraficamente.

Sono convinto che se Mario Maggi avesse lavorato in America, i suoi progetti sarebbero diventati assai più popolari. Non voglio dire che non sia stato proprio supportato da nessuno, ma era troppo ‘piccolo’. Coloro che si offrirono volontari per lavorare con lui furono, come lui, gli ultimi idealisti e passeranno alla storia come illustri sconosciuti.

Il mio ultimo ricordo di Mario Maggi è stato quando lo sentii l’ultima volta (per ragioni professionali non ho avuto l’opportunità di venire in Italia e incontrarlo) e mi disse che era stanco, ma voleva continuare a lavorare con tutte le sue forze sul progetto DIGITAL MODULAR SYNTH (ndr. immaginiamo stia parlando del progetto conosciuto come Synthex 2).

Ricordo ancora i suoi occhi che irradiavano allegria e il nostro ultimo banchetto a base di dolci. Negli ultimi anni, ho cercato di trovarlo e incontrarlo di nuovo, ma senza risultato. Forse è davvero andato a lavorare in un altro mondo, dove ha trovato maggior apertura mentale verso le sue idee.”

Music Maker cover (aprile 1985) – Keith Emerson con il suo Synthex

Una recensione del canale YouTube SynthMania

Un recente splendido videoclip demo dei suoni del Synthex, realizzato dal collezionista e compositore Reuben Jones, al quale va tutta la nostra stima per la passione dedicata a questo synth!

L’ultimo video realizzato dal nostro amico Reuben Jones è una jam con tre dei più bei synth Italiani, tra i quali spicca il rarissimo Logan Vocalist

E’ notizia di questi giorni, di un esemplare di Synthex messo in vendita sullo stesso sito di aste online dove è stato venduto il guitar synth modulare, Vemia, che è stato restaurato e messo a punto da Mario stesso, forse è un segno che il nostro caro ingegnere è finalmente tornato al lavoro?

RINGRAZIAMENTI

Mille grazie a Roberto Bellucci, grande e appassionato conoscitore di strumenti Italiani, nonchè curatore della importante pagina Facebook Elettronica Musicale Italiana, per le generose consulenze e la gentile concessione del materiale in suo possesso. Grazie anche a Daniele, alias mr. VSMI, per la rarissima foto del misterioso mono synth.

Grazie ad Enrico Cosimi, per la sua ottima intervista a Mario Maggi e per i suoi articoli e commenti sempre illuminanti.

Grazie ad Amazona, per l’intervista che è risultata fondamentale per chiarire alcuni punti che erano oscuri, soprattutto riguardo al MCS70 e grazie anche a Marco Molendi e Andrea Manuelli per averlo fatto tornare in vita!

Brochure tedesca del Synthex con le specifiche al completo

Grazie a Templeton per il suo appassionato racconto dei momenti vissuti con Mario, che è servito a rendere un ritratto dell’uomo, oltre che del genio. Sempre sul bel sito di Robert Wittek si trova un bellissimo articolo che tratta estensivamente il Synthex, compresa la parte tecnica.

Grazie all’ottimo sito Tonehome.de per l’ottimo materiale fotografico sul Syntar e al sito Suonoelettronico.it per le specifiche e le informazioni tecniche a riguardo. Grazie a Francesco Mulassano di Soundmit per le immagini dell’articolo sul Synthex della rivista E&MM.

Infine,

Grazie a tutti i contributi degli appassionati (tra i quali Reuben Jones e MrFirechild per il loro amore e i loro bei video demo del Synthex) recuperati in ore ed ore di paziente e ostinata ricerca sul web: scrivere un articolo sul signor Maggi è stata una delle esperienze umanamente più appassionanti, belle e formative e, pur non avendo avuto modo di incontrarlo, questo ostinato, umile e mitico pioniere sembra di conoscerlo da sempre e si finisce davvero per amarlo come l’amico e il fratello che avremmo sempre voluto avere.

Chiudiamo quindi con un ultimo, fondamentale ringraziamento e un sentito augurio:

GRAZIE E LUNGA VITA, MARIO MAGGI !

Clicca sotto e scarica i consigli di Mario Maggi per l’utilizzo del Synthex