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C2V

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Eko – gli anni ’80

By Amplificatori Vintage Italiani, Bassi Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Oliviero Pigini, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Siamo giunti al termine dell'epopea Eko, un'avventura che corre lungo tre densissimi decenni e che vede la sua conclusione con le serie Master, Performance e SA, al tempo stesso punta di diamante e canto del cigno dello storico marchio.

Lorenzo

La fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 avevano visto la nascita di grandissimi strumenti interamente in massello e con tavola armonica in abete Val di Fiemme, come la Alborada e la Giuliani per le chitarre classiche e la Korral Special e la Chetro per le acustiche.

Della Giuliani, il catalogo del 1981 citava:

“Chitarra da concerto costruita solo su ordinazione. Strumento eccezionale sotto tutti i punti di vista etc. E segue: “La Giuliani è l’unica chitarra oggi reperibile per la quale il fabbricante può garantire il livello sia di potenza che di qualità del suono. Soltanto gli strumenti che superano le severissime prove di collaudo finale dell’ E.A.R.L. (LABORATORIO DEI RICERCHE ACUSTICHE) ottengono infatti il nome Giuliani.”

Sul versante elettrico erano nati gli strumenti in monoblocco, sia bassi che chitarre, come la M24, la M20, la CX7 ed i bassi BX7 e MB21. L’hardware era in ottone massiccio e veniva prodotto nelle officine interne assieme agli ottimi pick-up (antironzio in esaferrito di bario ed in alnico 5° americano – speciale lega di alluminio, nickel, cromo, cobalto e rame) che venivano offerti come alternativa ai DiMarzio.

Articolo su Strumenti Musicali 1981 – clicca sulle immagini per leggere

Ci fu anche una piccolissima produzione di DM, ovvero le versioni doppio manico della M24 che furono create a 10 (chitarra e basso), 16 (chitarra 12 corde e basso) e 18 corde (manico 6 e manico 12).
Altri nuovi modelli furono la C33 e la C44 con il corpo in acero massiccio dello spessore di 42 mm e manico sempre acero.

Sempre nel periodo fine anni 70 inizi anni 80 nacque anche la famosa M33 Short Gun, conosciuta comunemente come “Fuciletto” per la strana forma del corpo (sempre in massello di Val di Fiemme) a forma di calcio di fucile.
In quegli anni iniziò anche una collaborazione con la Camac per il mercato tedesco.

Unibody M24

Unibody M24 e SC800 nel film “In viaggio con papà”

Unibody M20

Unibody DM 10, 16 e 18

Camac

Con la stessa tecnica nacque anche la C11, ispirata alla SG di Gibson. Anche la serie dei bassi si rinnovò con una nuova serie: a fianco alle chitarre C01 e C02 fu creato il B02 con le stesse tecniche costruttive e manico a scala corta.

Per i bassi scala lunga stile Fender nacquero il B55 ed il B55S, sempre con il corpo abete Val di Fiemme con finiture Natural, Cherry e Walnut (ordinabile anche fretless).

Discorso a parte fu la rara C22, una bella Les Paul molto leggera ed estremamente suonabile, costruita con un legno particolare di nome Jelutong. Ne furono fatte talmente poche che è quasi irreperibile e chi ne ha un esemplare lo tiene o se lo fa pagare caro.

Anche per queste linee era prevista la scelta tra pickup Eko o DiMarzio (la lettera S finale nella sigla significava che lo strumento montava i DiMarzio).

C11

C02

B55

CX7 Artist

C22

Il primo sistema di elettrificazione delle acustiche fu lo Shadow piezoelettrico (i migliori pickup sul mercato di allora) e di conseguenza nacque anche l’esigenza di avere un amplificatore da abbinare allo scopo. Al reparto della sezione amplificatori, il cui responsabile era Ferdinando Canale (poi fondatore della SR-Tecnology e della Sound Engineering), crearono il meraviglioso ed eccellente SC800, con cabinet in Val di Fiemme, del quale vennero prodotti due lotti da 50 esemplari.

Nei primi anni 80, per quanto riguarda la produzione delle chitarre, la sezione delle classiche vide, oltre alle già esistenti Alborada e Giuliani, la nascita delle Conservatorio 51 e Conservatorio 53, entrambe con tavola armonica in Abete Val di Fiemme massello e la Carulli tutta completamente in massello.

Per le acustiche, dal 1983 anche la Eldorado acquistò la tavola armonica in massello di Val di Fiemme e nacque il modello D100FP sempre con tavola in massello in pregiato Val di Fiemme.
Nel 1984 Korral e Chetro rimasero in produzione, scomparve la Ranger e subentrò la AW nelle versioni a 6 e 12 corde con amplificazione elettromagnetica al manico oppure rilevatore piezoelettrico al ponte.

La linea delle acustiche

Il modello di punta della chitarra classica divenne la TK Classic, a cassa bassa interamente in massello e con sistema di preamplificazione, della quale furono costruiti solamente una trentina di pezzi.
La Tk venne introdotta anche in versione Acoustic, sempre a cassa bassa e con preamplificazione (modello molto simile alla Takamine Ef391MR).

Ai tempi i più grandi musicisti italiani utilizzavano gli strumenti acustici EKO. Le Korral e Chetro erano comunemente suonate da Guccini, Franco Mussida, Teresa De Sio, Stefano Rosso, Ricchi e Poveri, Mauro Pagani, Mario Castelnuovo, Marco Ferradini, Lucio Violino Fabbri, Claudio Baglioni (anche con SC800), Ivan Graziani, Goran Kuzminac, Ricky Gianco, Fausto Leali, Francis Kuipers, Edoardo Bennato.

TK Classic

Per gli strumenti elettrici, nel 1983 arrivarono la M6 e la M7 che montavano Pickup “Magnetics”, entrambe attive, e i bassi MB9 e MB10, anch’essi con Pickup “Magnetics”.

Nel 1984 vide la luce la serie Master con i modelli M4, M4 e M4S Electroacoustic (presentate alla fiera di Milano appena prima del fallimento), la M5, la M7 e la M7 Deluxe. Il sistema Electroacoustic era un brevetto EKO che prevedeva un pickup piezoelettrico con 6 sellette separate inserite nel ponticello di una chitarra elettrica.

Nacque anche la serie Performance con le chitarre P100, P100 DeLuxe, P200, P200 DeLuxe. Tali modelli avevano corpo in ontano massello e manico in acero. La P100 Gipsy era come la P100 ma aveva un amplificatore incorporato con altoparlante tra il pick-up al ponte ed il manico.
I bassi della serie performance erano i B25 ed i B55.

M4S

P100

M4 Electroacustic

M5 (foto di Atraz)

M7 DeLuxe

Per venire incontro alle esigenze di un pubblico giovane rockettaro nacque anche la serie Tunderbolt, con il modello T40 (pick-up humbucker DiMarzio al ponte) e la T50 con due pick-up e nuovo design del corpo.

Anche le semiacustiche furono rinnovate, con i modelli SA29, SA39, SA39 Custom. I modelli di punta erano la SA396 e la SA396 Custom, entrambe con cassa da 60 mm e pick-up Attila Zoller oppure DiMarzio DP106.

Nel 1984 cominciarono a venire al pettine tutti i nodi dei problemi finanziari dell’azienda che, di conseguenza, chiuse nel 1985. L’istanza di fallimento è in data 21 maggio 1986 a cui segue una vendita gestita dal curatore fallimentare e così, tristemente, finisce la storia della VERA EKO.

Thunderbolt

Le semiacustiche SA

SA39

Ekoisti anni ’80

Franco Cerri con M-24

Ivan Graziani con Korral

Ivan Graziani con M-55 “Fuciletto”

Edoardo Bennato con Ranger 12 Electra

Edoardo Bennato con Korral e Lucio Bardi con M-24

Edoardo Bennato prova la sua E85 nella sala prove Eko

Franco Mussida (PFM) con DM-18

Patrick Djivas con MB-21

Patrick Djivas e Franco Mussida

Flavio Premoli (PFM) con Ekosynth P15

Rino Gaetano con un raro Bouzouki Eko

I Fratelli Balestra (Rocking Horse, Superobots) con le Crossbow (balestra, appunto), derivazioni della M33 “Fuciletto” scherzosamente create per loro dalla Eko

Bobby Solo con M-24

La Bottega Dell’Arte con una Fuciletto e un mini-ampli Polyphemus

Bernardo Lanzetti (Acqua Fragile – PFM) con una M-24

Donatella Rettore con una M-33 decorata con il Sol Levante

CLICCA IL PULSANTE E GUARDA!

Donatella Rettore – “Oblio” con CX-7 Artist  (alias “la Stratokiller”), M-24 e BX-7 

I Knack con le Fuciletto

Shane McGowan dei Pogues con una Ranger 12

Andy Wickett (ex Duran Duran) con Ranger 12

Ricchi e Poveri con Chetro e Korral

Vasco Rossi con Ranger 12 Electra

Roberto Puleo e CX-7 Artist “Stratokiller” con Riccardo Fogli

Ekoisti oggi

Mauro Pagani (PFM) con Bouzouki e Chetro

Fausto Leali e una delle primissime Korral

Giorgio Zito (Edoardo Bennato) con Ranger 12 Electra

Claudio Prosperini (Stradaperta – Venditti) con una rara M-24 12

Teresa De Sio con Korral

Francis Kuipers con la sua Korral Special autografa

Chiara Ciavello con Florentine single cutaway

Cristiano De Andrè con Bouzouki

Federico Poggipollini (Ligabue – Litfiba) con una 500

Saturnino con B02

De Gregori con 100/M

Johnny Winter con Ranger 12

Phil Rocker con 500

Sean Lennon con Ekomaster 400

Salutiamo e ringraziamo l’amico Julien D’Escargot per gentilissima e fondamentale consulenza e per l’enorme quantità di materiale messo a disposizione: senza di lui l’intero articolo Eko non sarebbe stato possibile.

Parte del materiale è stata reperita dal gruppo FB “Eko vintage guitars”, dove ex personale Eko e appassionati condividono immagini in loro possesso o trovate sul web. Un sincero ringraziamento va quindi anche a tutti loro.

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EKO – Gli anni ’70

By Amplificatori Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Effetti Vintage Italiani, Pedali VIntage Italiani, Sintetizzatori Vintage ItalianiNo Comments

Iniziano gli anni 70 e la Eko guidata da Augusto Pierdominici si prepara ad affrontare con grinta il nuovo decennio, con nuovi prodotti all'avanguardia sia dal nuovo reparto Ekoelettronica che da quello Chitarre di Remo Serrangeli.

Lorenzo

Mentre inizialmente la fabbricazione di organi Ekosonic e amplificatori era affidata alla Galanti e nel ‘65 a Cremonini (che produsse Viscount, Duke, Herald e Valet ma anche i pick-up per le chitarre Eko e Vox che precedentemente uscivano dalla CRB), nel 1968 la Eko fondò la EME con la Danieli Milano, la JMI e la Thomas e prese in carico la produzione degli strumenti elettronici a nome Eko, mentre i mobili che contenevano le parti elettroniche venivano fabbricati in due reparti gestiti dalla sezione legno di Remo Serrangeli, che continuava ad occuparsi di chitarre, officina e manutenzioni.

Ekoelettronica

Dopo la progettazione del bellissimo modello Auriga chitarra e basso, Augusto Pierdominici passa a guidare la Eko a dirigere la produzione della neonata divisione di progettazione elettronica della Eko, che vedrà al comando del reparto progettazione e costi Felice Labianca e che partì alla grande nel ‘72 con la nascita dell’incredibile ComputeRythm.

La Eko ComputeRythm è la prima batteria elettronica interamente programmabile della storia, un piccolo mostro che ha fatto la storia grazie ai dischi di personaggi come Tangerine Dream, Manuel Gottsching (che la comprò proprio da Chris Franke dei TD) e Jean-Michel Jarre (da Oxygene), il quale ancora oggi ne fa uso, tessendone lodi appassionate.

Jean Michel Jarre con Eko ComputeRythm

Eko ComputeRythm, prima drum machine interamente programmabile della storia

Manuel Göttsching (Ash Ra Tempel) con Eko ComputeRythm

La splendida creatura di Giuseppe Censori e Aldo Paci aveva addirittura la possibilità di salvare i preset su schede traforate e la sua estetica così peculiare la portò ad essere addirittura protagonista delle scenografie di alcuni film di fantascienza del periodo.

Uno dei pochi esemplari ancora rintracciabili è oggi di proprietà del Museo del Synth Marchigiano e Italiano.

Hainback e la Eko ComputeRythm

In seguito nasceranno, oltre a tutta una serie di organi casa di varie fasce di prezzo, la celeberrima serie degli organi Tiger (un successo da 55.000 esemplari prodotti in tre anni), il piano elettrico Sensor, le pedaliere per bassi K1, K2 e K3 e nel ‘74 il synth monofonico Ekosynth e lo Stradivarius, synth di violini.

Eko Tiger 61

Il New Tiger Duo su progetto di Fabio Conti: la tastiera superiore dell’organo scorre su binari interni e si chiude fino a diventare una valigia.

Ekosynth

Eko Stradivarius

Fu creata anche una linea di pedali effetto come lo wha Strepitoso, il simulatore di rotary speaker Sound e il Mitico Multitone, uno dei primissimi pedali multieffetto analogici (volume, wha, bass/treble booster, distorsore e repeat percussion), che pare siano nati addirittura nel 1969.

Multitone

Eko Multitone

Strepitoso wha

Pedali Ekosound, Multitone e pedaliera bassi Special o K1

Nel 1975 la EME passerà di proprietà alla Farfisa e gli ultimi prodotti del reparto elettronico Eko saranno nel ‘79 il P 15, monosynth analogico a controllo digitale con preset, e l’Ekopiano ad inizi ‘80.

Ekosynth P 15

Nel frattempo, al reparto chitarre

Mentre il reparto di Pierdominci faceva furore, Serrangeli non stava certo a guardare e, tra il ‘74 e il 75 riprese lo studio tecnico della fisica degli strumenti a corda e delle forze agenti su di esso. A questo scopo acquistò lo stesso complesso macchinario Bruel Kier che veniva utilizzato all’università di Cremona per tale scopo e diede inizio alla produzione della Alborada.

Da queste esperienze, tre anni dopo, nacque la Giuliani, autentico modello di punta (anch’essa in massello e tavola in pregiatissimo abete Val di Fiemme), che veniva fornita con attestazione della curva di risposta, realizzata proprio con quella apparecchiatura. Tale documento dava la possibilita al cliente di tornare dopo anni in fabbrica e ripetere il test per controllare la maturazione dei legni e il conseguente aumento di volume dello strumento.

Chetro e Korral

Serrangeli e De Carolis con la Chetro

Le Chetro di De Carolis

Nello stesso periodo cominciò la progettazione delle prime acustiche professionali e, in collaborazione con John Huber, liutaio e all’epoca area manager della Martin in Europa, progettò la Korral Special, anch’essa interamente in massello e con top solido in Val Di Fiemme e tastiera in ebano. Da questa nascerà la Chetro, la prima delle quali fu un esemplare a 9 corde creato per Ettore de Carolis (Chetro è appunto il nome di sua figlia). Le etichette interne alla buca, con descrizioni di materiali e lavorazione, in tutti e quattro gli strumenti acustici venivano scritte a mano con inchiostro a china da Ettore Guzzini, Manager Italian Market di Eko, che scriveva anche il nome del proprietario sugli esemplari destinati a diventare Signature.

Poi ci fu la produzione della Ranger nera di Bennato che vendette 6500 esemplari e alla fine degli anni 70 nacquero le elettriche monoblocco come la M24, ma di questo parleremo nella parte dedicata agli anni 80 della Eko.

La piccola Chetro De Carolis con la chitarra che ha preso il nome da lei, il prototipo 9 corde

Catalogo strumenti acustici 1975

Chi suonava Eko negli anni 70

Mick Taylor

Mick Jagger

Martin Barre (Jethro Tull)

Mike Rutherford (Genesis)

Peter Ham (Badfinger)

Joe Egan (Stealers Wheel)

Stealers Wheel – Stuck In The Middle With You

Jimmy Page (Led Zeppelin)

Bob Marley

Lucio Battisti e Ornella Vanoni

Mia Martini con una J56/1

Ron e Lucio Dalla

Guccini con una Chetro

Fabrizio De Andrè con la PFM (Lucio “violino” Fabbri suona una Chetro 12)

Peter Van Wood con Ranger 12 Electra

Lino Vairetti (Osanna) con Ranger 12

Pino Daniele con la Ranger 12 che fu di Lino Vairetti degli Osanna

Vanna Brosio con Ranger 12 Electra

Renato Zero con Rio Bravo

The Trip con strumenti Eko (Billy Grey con chitarra Kadett e Joe Vescovi con organo Ekosonic)

Clicca il pulsante e guarda The Trip con gli strumenti Eko (chitarra Kadett, Organo Ekosonic)

Un caro ringraziamento all’amico Roberto Bellucci di Elettronica Musicale Italiana per le informazioni integrative sulle creazioni del reparto Ekoelettronica.

L’articolo continua nella terza parte: Eko – gli anni 80

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EKO – Gli anni ’60

By Amplificatori Vintage Italiani, Bassi Vintage Italiani, Chitarre Vintage Italiane, Oliviero Pigini, Personaggi Storici, Sintetizzatori Vintage Italiani2 Comments

La Eko fu non solo la più grande fabbrica di chitarre d'Italia ma anche uno dei maggiori successi mondiali nel campo degli strumenti musicali. L'artefice di tale successo fu un personaggio di nome Oliviero Pigini e a lui dedichiamo questa mostra virtuale di celebrità che hanno imbracciato i suoi strumenti.

Lorenzo

Oliviero Pigini, fondatore della Eko

Oliviero Pigini fu un leone dell’industria italiana che, dalla fondazione della Eko nel 1960, riuscì da solo a portare la quota delle chitarre italiane esportate nel mondo dallo 0,8% del 1956 al 12% del 1965.

Dopo un inizio come produttore di fisarmoniche, Pigini decise di rivolgere la sua attenzione alle chitarre e nel 1956 fondò la Giemmei (Giocattoli Musicali Italiani) a Castelfidardo, con la quale gestiva la vendita per posta di chitarre di liuteria siciliana e importate dalla Jugoslavia.

Nel 1959 fonda la Eko S.A.S. di Oliviero Pigini & Co. e nel 1960 rilevò un ex-stabilimento di fisarmoniche ed inizio la produzione in proprio con il supporto di CRB Elettronica, che già dal 1958 progettava e produceva pick-up su richiesta di Pigini.

Nel 1964 la Eko si trasferirà a Recanati, dove, mentre Pigini e Augusto Pierdominici disegnano chitarre e bassi a marchio Eko, la fabbrica produrrà strumenti anche per altre grandi ditte come la Vox.

Nel 1965 inizia la produzione delle chitarre con i nomi di animali (Cobra, Barracuda, Dragon, Condor, Cygnus) e le nuove chitarre signature come Rokes, Kappa, Auriga, Pace.

Nel 1966 fonderà La Comusik, con la quale gestirà la commercializzazione degli strumenti (Eko, Vox, Thomas) e la Genim che gestirà la parte immobiliare come l’albergo Eko di Fano che, nelle intenzioni di Pigini, sarebbe stato l’hotel dedicato alla musica e agli artisti.

Sempre nel 1966 però si verifica un incendio (a detta di alcuni doloso), che distrugge una parte dello stabilimento di Recanati e Pigini inizia la costruzione del nuovo stabilimento di Montecassiano ma non ne vedrà mai la fine poichè un infarto arresterà la sua corsa ad inizi 1967 a soli 44 anni.

Pigini con il personale della Eko

La fabbrica Eko

Purtroppo la scomparsa di Pigini coincide con l’inizio di una crisi del mercato causata dalla concorrenza asiatica e per alcune scelte non proprio azzeccate e lungimiranti: sotto la guida di Augusto Pierdominici la Eko aggiorna e diversifica la produzione, mettendo in secondo piano il reparto chitarre e puntando tutto sugli strumenti musicali elettronici, le tastiere e gli effetti incorporati come nelle chitarre Vox.

Soluzione questa che si sarebbe rivelata fallimentare, non perchè mancassero idee e innovazione, tutt’altro (prova ne è la mitica drum machine Computerythm), ma grazie alla politica commerciale aggressiva giapponese anche in campo elettronico (il governo giapponese sovvenzionava ampiamente le proprie ditte musicali mentre il governo italiano pensava a sovvenzionare il “vampiro” FIAT, che avrebbe condotto al fallimento la scena automobilistica italiana, trascinandosi dietro tutti i marchi migliori acquisiti nel tempo).

Il mercato degli strumenti a corde invece non era affatto in calo perchè la scena musicale non si fermava mai e mantenne le sue posizioni anche durante gli anni 70, 80 e a seguire. Questo mentre la Eko pagò le scelte sbagliate come quella di ripiegare sulla produzione di copie e strumenti elettronici, arrestando di fatto la curva ascendente che Pigini aveva impressso alla produzione italiana nel mercato mondiale degli strumenti musicali.

Gli ultimi tentativi di riportare la Eko ai tempi gloriosi furono sotto la guida oculata di Remo Serrangeli, che, con idee produttive innovative, iniziò una produzione di chitarre e bassi di alta qualità ma l’improvvisa entrata in campo di una nuova gestione scellerata vanificò gli sforzi portando la Eko alla chiusura a metà anni 80.

Questo articolo sarà quindi una celebrazione dello storico marchio italiano, attraverso le immagini di musicisti, artisti e quanti altri hanno amato ed usato i suoi strumenti nel corso del tempo.

Maurizio Vandelli ne I Giovani Leoni, con Eko Master 400

Franco Ceccarelli dell’Equipe 84 con la chitarra della Pace

I Dik Dik con strumenti prototipo

The Rokes con i celebri strumenti che portano il loro nome

The Rokes – Grazie a te

Caterina Caselli con Ranger 12 Electra

Adriano Celentano con Ekomaster 400

Rita Pavone (basso 995) e Giancarlo Giannini

Dario Toccaceli con Eko 100

Ricky Shayne con Eko 100

I Kings con le Eko Kappa, create per loro

Le Snobs con chitarre e basso della linea Cobra

Herbert Pagani con Ranger 12

Fausto Leali con Ranger 6 Electra

L’avventura internazionale

Pigini stabilì diversi contatti con distributori esteri, tra cui i fratelli Lo Duca per gli Usa. Perciò chitarre e bassi Eko si possono trovare con altri marchi come Eston, Shaftesbury e in seguito anche D’Agostino, Camac… Alcune Vox erano semplicemente delle Eko rimarchiate.

Oliviero Pigini (a sinistra) con Tom Lo Duca, importatore USA della Eko.

Dick Elliot, testimonial e dimostratore della Eko per gli Usa

The Grass Roots

The Blue Chip Village Band

The Jackson Five

La Eko 100 di Jimi Hendrix

Pete Townshend

Roger Daltrey

Al Stewart

Brigitte Bardot

Les Disciples

Gary Burger (The Monks)

L’articolo continua nella seconda parte: Eko – gli anni ’70

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Utopia – Deface The Music (1980)

By MusicaNo Comments

Chi conosce Todd Rundgren, sa bene quanto sia appassionato dei Beatles. Non c'era quindi troppo da sorprendersi quando, a fine 1980, uscì Deface The Music, un intero album a nome Utopia che si rivelò essere un concept album dedicato al magico quartetto di Liverpool.

Lorenzo

La copertina dell’album

“Outstanding in their field!”

 

Già da qualche anno l’organico degli Utopia si era assestato dal sestetto prog/avanguardistico degli inizi ad un compatto quartetto che andava maggiormente orientandosi verso un più semplice e diretto pop/rock.

Il settimo album degli Utopia di Todd Rundgren fu quindi un omaggio ai “4 fantastici 4” di Liverpool, maniacalmente realizzati con la stessa strumentazione e suonati in perfetto e altrettanto maniacale stile.

Del resto il nostro pareva già aver anticipato le sue intenzioni nell’ album solista Faithful del 1976, dove su un intero lato dedicato a sei incredibilmente fedelissime cover, ben due erano del duo Lennon/McCartney (Rain e Strawberry Fields Forever).

La copertina originale dell’album

I nostri novelli “fab four” uscivano di fresco dalla loro maggior successo e ultima fatica discografica – Adventures in Utopia – un progetto assai complesso che comprendeva musica piuttosto articolata e video produzioni, quale momento migliore di questo per concedersi una vacanza a base di musica immediata, semplice e melodica?

Partendo da una sua canzone, I just want to touch you, che era nata per la colonna sonora del film Roadie ma immediatamente scartata perché i produttori della pellicola erano terrorizzati da eventuali azioni legali a causa dell’eccessivo richiamo ad I Wanna Hold Your Hand , Todd decise allora di creare un intero album di eccessivi richiami ai Fab Four!

E lo fece con ispirazione, gusto e grande classe: i pezzi sono fantastici e ci sono alcuni assoluti classici immediati come l’irresistibile Take it Home, la potente Everybody else is Wrong, la profonda All Smiles, la drammatica Life Goes On, l’orecchiabilissima Where does the World go to Hide, la gioia di Feel Too Good!

I 13 brani (13 come quelli dell’album A Hard Day’s Night) ripercorrono la carriera dei 4 di Liverpool, in un pastiche che va dal 1963 al periodo psichedelico e ogni canzone è talmente ben elaborata da poter sembrare un autentico prodotto dei Beatles:

1 “I Just Want to Touch You” 2:00 “I’m Happy Just to Dance with You”, “I Want to Hold Your Hand”, “Little Child”
2 “Crystal Ball” 2:00 “Can’t Buy Me Love”, “She’s A Woman”
3 “Where Does the World Go to Hide” 1:41 “A World Without Love”, “You’ve Got to Hide Your Love Away”
4 “Silly Boy” 2:20 “I’m a Loser”, “I’ll Cry Instead”, “Help!”
5 “Alone” 2:10 “And I Love Her”
6 “That’s Not Right” 2:37 “Eight Days a Week”
7 “Take It Home” 2:53 “Day Tripper”
8 “Hoi Poloi” 2:33 “Penny Lane”, “Lovely Rita”
9 “Life Goes On” 2:21 “Eleanor Rigby”
10 “Feel Too Good” 3:04 “Getting Better”, “Fixing a Hole”
11 “Always Late” 2:22 “Yellow Submarine”, “A Day in the Life (middle section)”
12 “All Smiles” 2:27 “Michelle”, “I Will”
13 “Everybody Else Is Wrong” 3:38 “Strawberry Fields Forever”, “I Am the Walrus”

A sinistra i brani di Deface The Music e a destra i Brani dei Beatles ai quali sono ispirati.

Il disco uscì il 24 settembre 1980 e fin qua tutto bello, carino e divertente, perché i pezzi sono davvero belli come parodie, a volte addirittura quasi meglio degli originali. Anche il titolo stesso del disco, “Sfigurare la musica” è abbastanza controverso, benchè probabilmente ispirato a Face the Music degli ELO.

La copertina originale, che era praticamente uguale a quella dell’album With The Beatles, con i quattro “utopisti” posizionati come i quattro liverpoliani, venne poi sostituita con un’illustrazione contenente i busti del gruppo. Mentre la foto del retro, dove campeggia la scritta “Outstanding in their field”, richiama ironicamente Strawberry Fields Forever.

Quello però si rivelò un anno piuttosto movimentato, il disco funzionò molto bene con la critica e molto male con i fans, che pur essendo abbastanza abituati ai continui cambiamenti musicali di Rundgren, questa volta si ritrovarono totalmente spaesati dall’improvvisa svolta dal modernissimo rock aor da stadio venato di prog, al brit pop anni 60.

Inoltre molte rockstars erano parecchio in agitazione per l’eccessivo interesse da parte dei fans e accadde che, poco prima del rilascio del disco, il 13 agosto, Rundgren subì una traumatica rapina.

Durante una serata con la compagna e una manciata di amici, quattro personaggi mascherati fecero irruzione in casa del nostro, portandosi via impianti hi-fi e dipinti, minacciandolo di amputargli tutte le dita se non gli avesse consegnato tutta la riserva di droga che aveva in casa, il tutto mentre gli fischiettavano la sua celebre hit “I saw the light”.

In più l’8 dicembre di quell’anno, John Lennon fu ucciso a colpi di pistola e dell’omicidio fu accusato un ragazzo di nome Mark David Chapman, apparentemente fan di Rundgren (il giorno precedente era stato a cercarlo senza successo alla sua casa di Woodstock). Infatti al momento della sparatoria, Chapman vestiva una T-shirt promozionale di Hermit of Mink Hollow, ultimo album solista di Rundgren e nella sua camera d’albergo la polizia rinvenne una cassetta Stereo 8 dell’album Runt. The Ballad Of Todd Rundgren, il secondo disco solista del nostro.

Se si considera anche che il buon Todd ebbe un ben noto screzio con Lennon stesso nel 1974, che lo portò ad uno scambio di missive piuttosto acido con l’ex Beatle e che Rundgren ha fatto parte della nota All Starr Band di Ringo Starr per svariate edizioni, beh… ci sono diversi curiosi punti ad unire i due musicisti.

Ma a noi adesso interessa parlare di Deface the Music e, più che altro, gustarci queste 13 tracce perciò, Buon Ascolto!

Il video ufficiale di “I Just Want To Touch You”

Ascolta l’album “DEFACE THE MUSIC”

UN LIVE DEL 1982 DEGLI UTOPIA

Deface The Music – Utopia

  • Todd Rundgren – lead guitar & lead vocals
  • Kasim Sulton – bass, backing vocals
  • Roger Powell – synthesizers, keyboards, backing and lead vocals
  • John “Willie” Wilcox – drums, percussion, backing and lead vocals

Recorded at Utopia Sound
Cover [Cover Illustration] – Jane Millett
Engineer [Assistant Engineer] – Chris Andersen
Photography By – Kenneth Siegel
Producer – Utopia
Producer, Engineer, Mixed By – Todd Rundgren

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IL FISCHIO AL NASO (1967)

By Cinema, Narrativa e saggistica, Personaggi StoriciNo Comments

Ispirato da un racconto di Buzzati, nella sua seconda regia Ugo Tognazzi costruisce un'aspra satira su come l'industria della sanità riesca a creare malati da persone in perfetta salute.

Lorenzo

Articolo di Daniele Pieraccini

(contiene spoiler)

Con la descrizione di questa industria della malattia, ho voluto rendere la degenerazione che porta la società dei consumi anche nella scienza, cioè in quella parte della società che dovrebbe invece conservare l’uomo, la sua integrità fisica e psicologica

(Ugo Tognazzi, dal libro a lui dedicato nel 1981 da Claudio G. Fava e Aldo Bernardini).

Tognazzi con il suo cast

La pellicola è gustosamente vintage (presenti complementi d’arredo tipicamente Space Age come i televisori Brionvega e le lampade Artemide), ma la vicenda narrata, distopica e kafkiana, non potrebbe essere più attuale.

Tognazzi, alla sua seconda opera come regista, elabora una critica netta di un mondo ormai perso, senza ideali né morale, in cui ciò che conta è produrre e consumare per poi essere spietatamente consegnati alla morte, dopo una vita priva di qualsiasi senso autentico.
Concetti che ribadirà nel “loganiano” I viaggiatori della sera (1979), ultimo suo film distopico (che avrebbe potuto trovare anche in Elio Petri un valido cantore) tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Simonetta.

Il fischio al naso è ispirato invece da un racconto breve di Dino Buzzati, Sette piani, pubblicato per la prima volta nel 1937 poi revisionato ed incluso, dopo varie rielaborazioni, in almeno tre raccolte.
Buzzati ne elaborò anche una trasposizione teatrale, Un caso clinico, nel 1953 (in calce all’articolo potete trovare l’audioracconto di Sette piani).

Se ne deduce che certe tematiche (il sano, ovvero l’odierno asintomatico che diventa schiavo e poi vittima della sanità) abbiano ispirato certi autori particolarmente attenti e consapevoli già nel secolo scorso, fino alla realtà odierna fatta non più di centri di cura e assistenza ma di vere e proprie aziende sanitarie. Si pensi anche a Knock ou Le triomphe de la médecine (Knock o il trionfo della medicina), opera teatrale di Jules Romains del 1923, trasmesso in versione televisiva sulla RAI nello stesso anno del film di Tognazzi.

Copertina di una edizione illustrata del racconto “I sette piani” di Dino Buzzati

«Mi dica, dottore, come va il processo distruttivo delle mie cellule?»

Nel racconto di Buzzati un avvocato di nome Giuseppe Corte (vi ricorda qualcosa?) disturbato da un malessere leggerissimo non meglio specificato, si fa ricoverare in una moderna clinica specializzata proprio nella cura del raro morbo che lo affligge.
Il sanatorio è suddiviso in sette diversi piani: i pazienti con forme più leggere vengono ricoverati in quello più alto; con l’aumentare della gravità del caso si scende gradualmente di piano, fino al primo che ospita ricoverati senza più speranza.

Quello che sembra un ricovero di breve durata in un ambiente confortevole e rassicurante, con il rientro a casa programmato al termine di una serie di esami, si rivela invece una vera e propria discesa negli inferi.

Mentre la salute di Giuseppe Corte peggiora anziché migliorare, una catena di inconvenienti (sviste amministrative, ferie dei dipendenti, pignoleria di un dottore) fa sì che venga trattenuto e via via trasferito ai piani inferiori, nonostante le sue proteste comunque bloccate dalle continue rassicurazioni dei medici sulla non gravità del suo caso. In un crescendo di impotenza, tristezza e rassegnazione, l’avvocato troverà mestamente la fine dei suoi giorni internato nel primo piano.

Dino Buzzati

Nel film Tognazzi, coadiuvato nella sceneggiatura dal fidato duo Scarnicci-Tarabusa, da Rafael Azcona, romanziere e stretto collaboratore di Marco Ferreri e dal noto telecronista sportivo Alfredo Pigna, imbastisce un’operazione ancor più diretta al bersaglio e lontana da ogni spirito metaforico.

“produrre, consumare, gettare via!”

Il fastidioso fischietto che affligge la vita dell’industriale perfetto

Il protagonista, interpretato magistralmente dallo stesso Tognazzi, si chiama Giuseppe Inzerna ed è un imprenditore di successo nell’industria della carta.
Il suo motto è, come ripete più volte, “consumare e distruggere”. Già il tema musicale ricorrente, ‘La conta‘, un pezzo beat de Le Pecore Nere, ricorda ossessivamente per tutta la durata della pellicola che “oggi tocca a me, domani tocca a te”, a sottolineare una visione da catena produttiva anche del ciclo vita/morte.

Un molesto fischio prodotto dal suo naso, che gli causa imbarazzo in ambiti lavorativi e sociali, lo spinge ad accettare controvoglia dei controlli di routine presso la clinica di lusso “Salus Bank”: un nome, un programma…

“non si muore che in un momento di distrazione”

Viene ricoverato al primo piano della struttura, in attesa di tornare a casa ed alle sue attività in tempi brevissimi. Come nel racconto a cui si ispira il film, in realtà la sua permanenza non solo si prolunga come in un incubo, ma per motivi di vario genere Inzerna sarà gradualmente trasferito di piano: a differerenza dell’opera di Buzzati si tratta di una ascesa, invece di una discesa, dal primo al settimo piano.

La scalata diventa lentamente una prigionia soffocante, e da un’irrilevante fastidio come il fischio al naso spuntano fuori problemi inesistenti che alla fine lo fanno davvero ammalare. In questa “banca della salute” la salute si finisce per perderla del tutto. Non rigenerazione, ma annientamento.

Nella clinica modernissima vediamo all’opera fra l’altro la tecnologia applicata alla sanità per la quale gli uomini non sono altro che dei numeri (il 515 appeso al collo di Inzerna in qualsiasi piano si trovi). I medici agiscono come investigatori cibernetici: a forza di indagare trovano sempre e comunque qualcosa che non va.

La nota attitudine carnale di Tognazzi si manifesta negli approcci al personale medico e infermieristico femminile (attraenti come modelle ai primi piani per poi lasciare il posto a figure molto meno piacevoli via via che si sale di piano) e nel riuscire a far ricoverare anche la sua amante per averla vicino, salvo poi ritrarsi dall’intimità come svirilizzato dalle magagne fisiche che aumentano con il prolungarsi del soggiorno. Il fischio al naso infatti scompare velocemente, ma solo per lasciare posto a febbre, problemi ai reni, extrasistole, eczemi, debolezza e quant’altro.

“l’ammalato può essere una grande industria, lo so”

Durante il suo soggiorno nella clinica (riprese effettuate a villa Miani e villa Parisi, sui colli romani) facciamo la conoscenza di una serie di personaggi emblematici: tra tutti spiccano il Dottor Claretta interpretato dal noto caratterista Gigi Ballista, l’affascinante Tina Louise nei panni della Dottoressa Immer Mehr (in tedesco: sempre più…), il Dottor Salamoia, interpretato da Marco Ferreri.

Notevole lo sforzo interpretativo di Tognazzi, che riesce a calibrare le sue esuberanze e a dirigere se stesso assecondando la progressione di Inzerna dall’esuberanza imprenditoriale iniziale, alla sfiducia pragmatica nella medicina, al passare da rabbia e ribellione per il susseguirsi delle disavventure all’entrare nel meccanismo ipocondriaco fino ad uno stato di ansia e sfinimento che sfocia nella rassegnazione finale.

“curare il corpo, salvare l’anima”

Tognazzi e la Louise

Ma nell’opera si toccano anche altri temi.

A partire dalla connivenza, celata da una falsa contrapposizione, tra Chiesa e scienza, tra spiritualità di facciata e tecnologia: oltre alla tetra presenza di suore e frati, all’entrata della cappella ospedaliera è affissa la scritta curare il corpo e salvare l’anima; sopra il letto di Inzerna c’è un alloggio per immagini sacre intercambiabili con un tasto, crocefisso, Budda o altro a richiesta.

I medici ricevono i pazienti singolarmente in una grande sala della villa, in una sorta di anamnesi/confessione al termine della quale rilasciano l’assoluzione sotto forma di medicine da assumere…per arrivare alla scena nella sala in cui si sperimenta l’ibernazione e in cui si proclama che si può puntare alla ricerca dell’immortalità perché la Chiesa non si oppone alla medicina.

Si critica soprattutto, e la presenza di Ferreri e del suo sceneggiatore influisce, la borghesia incapace di avere un volto umano dedita com’è alla ricerca dell’accumulo di capitali.

Colpisce infatti l’atteggiamento dei familiari del protagonista: privi di emotività e incapaci di provare affetti veri, vivono il declino di Inzerna con estrema indifferenza.

Da rimarcare l’evoluzione del personaggio del padre di Giuseppe, che, dopo essersi tinto i capelli, prende in mano le redini della fabbrica del figlio e la converte alla produzione di santini e gadget religiosi, proclamando: “la Chiesa si prepara a vivere un’altra età d’oro”.

Una sequenza molto particolare e densa di simbolismi è quella della tentata fuga di Inzerna dalla clinica: dopo una corsa tra file di pini e olivi, in un crescendo onirico, si trova davanti un altissimo muro di pietra che lo blocca. Poi, sedotto da una nudità femminile intravista tra gli alberi, si distrae e viene catturato da due infermieri. Come dire che dal mondo del capitale e dal suo linguaggio non si scappa, si può solo essere sedotti o entrare in conflitto e finire internati.

“chi l’avrebbe detto… per un fischio al naso!”

Sono le ultime parole di Giuseppe Inzerna, ormai rassegnato e quasi assente ma con i capelli tinti in un ringiovanimento apparente e, date le circostanze, beffardo. E l’elicottero che sorvola la clinica negli ultimi istanti di vita del protagonista, come un avvoltoio tecnologico, è forse in attesa di organi freschi da trasportare? Si noti come la legislatura italiana abbia dato il via libera ad espianti e trapianti l’anno prima dell’uscita del film…

In questa vicenda e nella sua amara conclusione si palesa la trappola dell’ipocondria mascherata da moderno salutismo: vivere da malati per sperare di morire sani.

Come non vedere in questo, di nuovo, apparire la sinistra e disperata invocazione “Guariscimi, rendimi completo“?

Infermiere o incentivi?

IL TRAILER DEL FILM “IL FISCHIO AL NASO” DI UGO TOGNAZZI

Il fischio al naso (1967) di Ugo Tognazzi

Interpreti e personaggi: Ugo Tognazzi (Giuseppe Inzerna), Olga Villi (Anita, sua moglie), Alicia Brandet (Gloria, sua figlia), Franca Bettoja (Giovanna, amante di Giuseppe), Tina Louise (dott. Immer Meher), Gigi Ballista (il dott. Claretta), Marco Ferreri (il dott. Salamoia), Riccardo Garrone (il barbiere), Alessandro Quasimodo (Roberto Forges), Gildo Tognazzi (Gerolamo Inzerna, padre di Giuseppe).

Sceneggiatura: Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Alfredo Pigna, Ugo Tognazzi, Rafael Azcona

Fotografia (Panoramico, Eastmancolor): Enzo Serafin

Scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni

Musica: Teo Usuelli

Montaggio: Eraldo Da Roma

Produzione: Alfonso Sansone, Enrico Chroscicki per Sancro International (Roma)

Distribuzione: Cineriz

AUDIORACCONTO DE “I SETTE PIANI” DI DINO BUZZATI – NARRAZIONE DI ROSANNA LIA

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Serge Brussolo – I Seminatori di abissi (1983)

By Narrativa e saggisticaNo Comments

Nuovo giro, nuova corsa, nuova sezione del sito: Narrativa e saggistica.
Prendiamo in esame “I Seminatori di abissi”, un vecchio racconto di Serge Brussolo, fantasioso e prolifico narratore francese, molto attivo soprattutto nei decenni 80 e 90.

Lorenzo

La copertina dell’edizione originale Italiana Urania

Lo stile di Brussolo è estremamente efficace, nero e nervoso: una fervida immaginazione costantemente ammantata di oscurità. Con un costante pessimismo, che gli riesce talmente naturale da essere estremamente convincente, non è che Brussolo non ammetta alternative…non ne vede proprio, tanto da non considerarne nemmeno l’eventualità.

Questo suo stile supremamente angosciante si rivela perfetto per un genere fantascientifico particolarmente oscuro, fortemente contaminato da fortissimi ed efficaci elementi horror-gore innovativi e fantasy, un Cyberpunk molto personale. Per certi versi lo si potrebbe accostare ad un Ballard con una folle fantasia, completamente disilluso e del tutto privo di empatia verso qualsivoglia essere vivente.

Il pensiero che un tale personaggio si possa cimentare anche nella scrittura per bambini fa sinceramente rabbrividire, eppure in un mondo come questo potrebbe succedere anche questo.

Ed infatti è successo.

Serge Brussolo

Comunque noi ci occuperemo di questo splendido lavoro “visionario” che è ‘Les Semeurs d’abîmes’, romanzo del 1983.

“Les Semeurs d’abîmes” edizione francese

La sinossi della storia:

In un futuro piuttosto vicino, esperimenti genetici hanno portato alla creazione di una nuova razza di umani, gli “Arlecchini”, con caratteristiche morfologiche e pigmentazione provenienti dalle varie etnie.

Questa nuova razza dall’epidermide multicolore e cangiante, le cui mortali secrezioni corporee possono perforare roccia e acciaio, vengono imprigionati in una riserva nel territorio di Shaka-Kandarec (molto ricorrente nella narrativa di Brussolo) e come custodi gli vengono assegnati uno zoologo, David Sarella (altro nome che è una costante nella produzione brussoliana), il violento poliziotto Cazhel.

Gli fa compagnia l’anziano Barney, un losco figuro che si trova là grazie a forti contatti governativi, ha anche aperto in tutto il paese decine di laboratori che eseguono degli innovativi e misteriosi tatuaggi mobili.

In uno di questi lavora la giovane tatuatrice Lise che, quando i suoi clienti iniziano a morire, orribilmente corrosi dall’inchiostro utilizzato, cerca di rintracciare Barney scoprendo, dietro l’apparente imprevedibile tragedia, una precisa finalità governativa di riduzione della popolazione giovanile, fascia questa maggiormente attratta dalla nuova moda.

Parlando con Barney, Lise realizza che il rivoluzionario inchiostro non è altro che la secrezione degli Arlecchini abbinato a un anticoagulante che rende mobile il disegno tra gli strati di pelle del tatuato; a distanza di tempo però l’anticoagulante perde efficacia e l’acido inizia l’opera di corrosione.

Lise, avendo anch’ella un tatuaggio e spinta dai sensi di colpa, si reca a Shaka-Kandarec per cercare un antidoto che neutralizzi l’inchiostro mortale e fermi la strage.
Quando La ragazza arriva, gli Arlecchini, assaliti da una malattia, la “febbre migratoria” (chiara citazione de “La vita futura” di H.G. Wells), sono già fuggiti per iniziare un lungo viaggio. La ragazza si unisce a David e Cazhel e si mette all’inseguimento dei fuggitivi in un’odissea per la regione di Shaka-Kandarec, la patria dei reietti di un mondo intero.

La vita delle popolazioni di questa regione, ciascuna con caratteristiche peculiari, si svolge su ponti sospesi al di sopra di un mare di fango velenoso, ponti che le secrezioni acide dei fuggitivi stanno mettendo in pericolo, tanto da far guadagnare agli Arlecchini il soprannome di “seminatori di abissi”. Ovviamente, se gli Arlecchini non verranno fermati, bucheranno l’intero mondo, rischiando la probabile estinzione di ogni forma di vita terrestre.

Altro pericolo incombente sulle popolazioni stanziali è la rapida diffusione del morbo portato dagli Arlecchini, inutilmente ostacolato dall’inoculazione di un virus antagonista scoperto da Rilk, uno scienziato appartenente alla popolazione dei Morhad.

Da qua in avanti sarà tutto un susseguirsi di follia, nel tipico stile brussoliano, ma non vi rovineremo la sorpresa con inutili spoiler.

AUDIOINTERVISTA IN FRANCESE A SERGE BRUSSOLO

CONSIDERAZIONI FINALI

E’ abbastanza curioso come praticamente ogni racconto o film distopico uscito finora, tratti, oltre a mutazioni genetiche e clonazione, di una pandemia e un piano per una drastica riduzione della popolazione, che sia essa attraverso contagi, appunto, avvelenamenti o menzogne di vario genere, come “catastrofi” climatiche e insufficienza di risorse.

Qua abbiamo in più una parte quantomai attuale e, per questo, assai inquietante: quella dei tatuaggi, moda estremamente “espansa” oggi e che fa molto pensare.

Stiamo parlando di romanzi o di anticipazioni storiche? Inoltre, è possibile che ogni scrittore di fantascienza distopica sia anche un veggente?

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Wounds (2019)

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

C'è un film assai diverso, che gravita nel circuito della celebre Netflix: onore e merito alla stessa per averlo inserito in palinsesto. E' "Wounds", di Babak Anvari.

Lorenzo - Daniele Pieraccini

Wounds del regista iraniano Babak Anvari è un curioso esperimento che analizza il mondo esoterico in chiave essoterica, usando cioè una visione materiale per spiegare ciò che è intangibile.

Dopo l’ennesima visione di questo film, che ci piace davvero tanto, ci siamo confrontati e sbizzarriti con amici sulle varie interpretazioni dei messaggi che questa pellicola suggerisce.

E’ necessaria la visione del film prima di procedere nella lettura. Questo sia per capire di cosa si sta parlando, sia perchè nell’articolo saranno presenti spoiler continui.

Wounds: La trama

Will è barista in un locale di New Orleans. Una sera, durante il suo orario di lavoro, scoppia una rissa tra Eric – cliente abituale del locale – e altri avventori. Il caos creatosi e l’aver chiamato la polizia provoca il rapido dileguarsi di tutti i presenti. Tra questi ultimi c’è anche un gruppo di giovanissimi che, dopo aver ripreso la rissa, si dà alla fuga dimenticando un cellulare.

Will, senza pensarci troppo, porta a casa il cellulare deciso a contattare ai ragazzi per restituirlo, trovando in esso un video sconvolgente. Questo provocherà l’inizio di strani avvenimenti che coincideranno con la fine di ogni razionalità nella vita di Will.

nell’articolo proporremo diversi livelli di lettura del film.

Locandina del film Wounds

Cuore Di Tenebra

L’opera inizia citando “Cuore di tenebra” di Conrad, un romanzo che raffigura il male come inconsapevole di sé, in questo indicando il protagonista con la sua vacuità confusa dall’assedio di assurdo e ignoto che non comprende se abbia un’origine esterna o provenga dal suo interno.

…Gli aveva sussurrato cose su di lui che egli stesso ignorava, cose che neppure sospettava… e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. Echeggiava forte dentro di lui poiché egli dentro era vuoto.

Joseph Conrad – Cuore di Tenebra (incipit del film Wounds)

Copertina di Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Ferite (Wounds)

introduciamo il significato di “ferita”, wound appunto: un termine che in lingua inglese è il più generico per definire il concetto. Wound può essere una ferita inflitta ad un tessuto vivente, ma può avere anche una connotazione morale. Può indicare un problema, una grande infelicità, uno stress causato da qualcun altro o da qualcosa.

Uno stato emotivo o psicologico, insomma, e il regista si muove tra tutti i possibili significati, toccandoli e collegandoli tra loro ed elaborando un horror fortemente mentale e metafisico.

«Sai cosa vuoi veramente? Niente. Perché non c’è niente che ti possa soddisfare. Tu sei una brutta persona, sei solo un corpo.»

Carrie, la compagna di Will, dopo la separazione

Scena di Wounds in cui si parla del rituale segreto gnostico della “Traslazione delle ferite”

Scarafaggi

Cosa rappresentano le blatte che infestano gli ambienti in cui si svolge la vicenda e che sono sempre più numerose ed invadenti man mano che cresce l’orrore? Sono raffigurazioni dell’impuro, della persistenza del male, sono simboli del disagio psicologico e relazionale (come in Kafka) o sono araldi del soprannaturale? Sono in qualche modo legati alle abitudini alcoliche del protagonista?

«Oggi sembrano esserci più scarafaggi che clienti»

Will, parallelismo tra persone e scarafaggi

Il simbolismo degli scarafaggi che si ripete continuamente in Wounds

Stress post-traumatico e allucinazioni

Le immagini violente e da incubo che si sovrappongono alla realtà sono dovute appunto all’alcolismo di Will o da qualche disturbo psicologico conseguente a traumi? Come gli scarafaggi (protagonisti infatti di molte delle allucinazioni del personaggio) crescono con l’aumentare dell’orrore, così si sviluppano paranoie soffocanti e manie di persecuzione al pari delle visioni terrificanti.

Allucinazione con scarafaggi simile al delirium tremens

Gnosticismo

Il film non tratta di un soprannaturale generico, infatti Anvari va a pescare nella tradizione gnostica, affiancando misticismo e rituali violenti e orripilanti e collocando efficacemente questo elemento in un contesto urbano e contemporaneo.

E’ importante capire cosa sia lo gnosticismo: di chiara derivazione dalla Dottrina Segreta teosofica (della quale è una rielaborazione distorta), questa corrente di pensiero, a grandi linee, definisce il mondo in cui viviamo come come frutto di un errore di un eone (esseri superiori emanati dal Divino, che formano tutti assieme, divisi in coppie maschile/femminile, il Pleroma).

L’errore in questione condusse alla creazione del Demiurgo, ovvero un falso Dio o divinità malvagia, creatore a sua volta della realtà materiale e “grande ingannatore”. Di conseguenza, per uno gnostico l’illuminazione (o scoperta del divino autentico) si ottiene attraverso l’apprendimento dell’esoterismo o realtà nascosta del mondo.

Alcune correnti gnostiche pensano che tutti gli esseri umani portino dentro sé la scintilla divina, altre sostengono che sia invece appannaggio solo di alcuni di noi e dividono gli uomini in tre tipologie: ilici, psichici e pneumatici.

Gli ilici, o terreni, sono quelli che sono legati esclusivamente al mondo materiale e destinati a scomparire con la carne, gli psichici sono quelli che sono dotati di anima e libero arbitrio e hanno possibilità di redenzione incompleta e di ascendere, un giorno, al divino assieme al demiurgo oppure dissolversi come gli psichici; i pneumatici sono uomini nei quali è stata nascosta, ad insaputa del Demiurgo, la scintilla divina (pneuma) e sono destinati a ricongiungersi, appunto, con il divino.

Il Demiurgo crea l’uomo come “tunica di pelle vuota“, inconsapevole di trasmettere ad alcuni di loro la propria natura psichica e che alcuni celino addirittura il pneuma.

Ricerca delle informazioni sulle conseguenze del rituale gnostico della “Traslazione delle ferite”

Will come personificazione dell’uomo psichico

Will è chiaramente un uomo psichico che reca con sè la spinta, l’urgenza, il “morso” ad evolvere: galleggiando nel materialismo ilico cerca qualcosa di più e affoga la sua insoddisfazione nella ricerca della facile gratificazione terrena. Ma la spinta interiore non gli dà pace, cominciando a mandare in pezzi la sua vita di comodo.

E dopo l’ennesimo confronto con la compagna Carrie, che lo accusa di essere appunto solo un corpo vuoto, sente lo strappo rabbioso di uscire da questa sua situazione di stallo ilico. Carrie dimostrerà poi di essere lei stessa una psichica arresa che finirà il suo cammino nella dissoluzione ilica, finendo totalmente preda dell’abisso che la prosciugherà della scintilla vitale.

Ma è la spinta che sta facendo a pezzi la vita di Will, oppure è lui che, in preda alla sofferenza, sta scegliendo la strada più facile (come il Cypher di Matrix), scegliendo di tornare guscio vuoto e quindi un alloggio perfetto per un’entità malvagia, che sta soltanto accelerando gli eventi e la “trasformazione”?

Il “demiurgo” Will, avvolto (un altro dei possibili significati di wound) nel suo isolamento e “ferito” nell’anima dalle conseguenze della sua incapacità di avere relazioni amicali e sentimentali funzionali e genuine, trova infine la scintilla divina che lo guarirà e lo completerà. La troverà avvolta (di nuovo) dal corpo del ferito, fisicamente e non solo, Eric, in un tripudio di scarafaggi e con la supervisione dell’occhio-simbolo.

Eric, personaggio chiave di Wounds

Will ha quindi compiuto i passi necessari per l’ottenimento della conoscenza divina tramite il “sacrificio di sangue” di Eric (vedasi anche il film “Branded” con il sacrificio del manzo rosso con lo scopo del raggiungimento della chiaroveggenza). Questa offerta lo porta a passare da “corpo vuoto” a portatore di “scintilla divina” («Guariscimi e rendimi completo!») ed è adesso il portatore del demiurgo.

L’occhio, simbolo che appare sempre più insistentemente in Wounds, in questo caso manifestazione del falso “Dio”

Nella sua opera Babak Anvari unisce tutti questi livelli mantenendo un notevole equilibrio, consentendo allo spettatore di interpretare la vicenda privilegiando questo o quell’elemento, a seconda della sua sensibilità e degli strumenti di lettura che possiede.

Altri elementi importanti sono L’abisso Nietzscheiano, i rimandi a Lovecraft e le citazioni a registi come il Carpenter de “Il seme della follia”, la critica alla religione dominante, sempre pronta a correre “in aiuto” per colmare vuoti interiori (con scarafaggi?).

Un livello di lettura più “pragmatico” evidenzia altre tematiche di base:

L’infelicità può portare le persone a decisioni terribili.

In assenza di significati, le persone possono scegliere qualunque cosa che abbia un richiamo “forte”.

Le ferite, che siano fisiche o non fisiche, hanno il potenziale per trasformarci.

Sei tu che scruti nell’abisso…o è l’abisso che scruta in te?

Conclusioni

Abbiamo quindi una perfetta analisi della vuotezza dell’umanità attuale che, con qualcosa, deve riempire le proprie ferite interiori, il proprio corpo reso vuoto dai traumi e dalla mancanza degli stimoli della vita reale, persa com’è dietro ad una tecnologia quotidiana che l’abbrutisce, privandola, appunto, di ogni realtà e della volontà di “costruire” un’anima.

 

“Guariscimi, rendimi completo!”

invocazione di Will al Demiurgo

“Guariscimi, rendimi completo!”: è necessario fermarsi a capire da dove questa frase arriva e il contesto nel quale è inserita. Un esempio:

Invocazione allo Spirito
Vieni, Spirito eterno di Dio Illuminami, Spirito eterno di Dio vieni, luce di splendore,
da’ un senso nuovo alla mia vita, mostrami ciò che è buono e giusto.

Vieni, Spirito di Dio e consola nel profondo la mia anima che non trova riposo.
Dammi la fede in Gesù, guariscimi e rendimi completo.

Spirito di Dio, dammi il coraggio, scaccia in me dubbi e paure.
Vieni, eterno Spirito di Dio, insegnami a riflettere e pregare, a chiedere perdono per i miei peccati.

Mostrami la mia vocazione nei giorni e negli anni della mia vita.
Spirito di Dio, luce ineffabile, apri i miei occhi per accorgermi di coloro che hanno bisogno
della mia amicizia e fraternità.

Con la tua grazia restami vicino e guidami in tutte le mie vie.
(Chiesa evangelica luterana finlandese)

 

IL TRAILER DEL FILM “WOUNDS” DI BABAK ANVARI

Wounds (2019)

 

Credits/Cast

Director: Babak Anvari

Producers: Babak Anvari, Megan Ellison

Writers: Babak Anvari & Nathan Ballingrud (from his novel ‘The Visible Filth’)

Release date: October 18, 2019

Cast:
Armie Hammer as Will
Dakota Johnson as Carrie
Zazie Beetz as Alicia
Brad William Henke as Eric
Karl Glusman as Jeffrey

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Mellotron Tales – MKIIfx: la storia di Hessel

By MellotronNo Comments

Una nuova mini rubrica vede la luce oggi ed è dedicata ad uno strumento del quale tutti conoscono il suono ma pochi sanno cosa sia davvero e come sia fatto... il Mellotron.

Lorenzo
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Il mellotron è uno strumento musicale a tastiera che si è affermato tra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta. Non ha un suono proprio, ma può invece essere considerato il primo lettore di campioni della storia, essendo pensato e realizzato per riprodurre il suono di strumenti acustici sinfonici o voci umane.

I suoni sono registrati su nastri contenuti in speciali cartucce e vengono letti e suonati da testine attivate alla pressione di una tastiera da piano, dove alla pressione di un tasto il nastro viene attivato e fatto scorrere sotto la testina di lettura.

Un esempio dei suoni selezionabili si può ascoltare all’inzio di Strawberry Fields Forever, dove lo strumento, allora quasi sconosciuto, è suonato da Paul McCartney.

Lo strumento è diventato negli anni settanta uno dei pilastri del rock progressivo, probabilmente a causa del debutto dei King Crimson, dove il Mellotron è stato usato decisamente in maniera magistrale, divenendo il marchio di fabbrica di molte loro produzioni, ma ottimi ed affascinanti esempi dell’uso del Mellotron si possono trovare anche nei primi dischi della PFM.

Fu utilizzato per la prima volta da Graham Bond nell’album The Sound of ’65. Successivamente è stato usato anche da molti altri, tra cui Moody Blues, Robert Wyatt, Genesis, Rick Wakeman, Yes, Jethro Tull, Barclay James Harvest, Deep Purple, Pink Floyd, Led Zeppelin, Rolling Stones, Motorpsycho, Herbie Hancock.

Mellotron M400

In questo articolo abbiamo come ospite Hessel Herder, un grande appassionato e profondo conoscitore dello strumento. Ci parlerà della sua storia e di come questo magico apparecchio sia entrato nella sua vita per rimanerci per sempre. Chi conosce il Mellotron può capire bene come questo strumento possa avere questo potere perchè, per certi versi, il Mellotron è vivo!

Album di librerie sonore del Mellotron

Hessel è un compositore, produttore e ingegnere di studio e ha iniziato la sua carriera negli studi più prestigiosi d’Olanda, Wisseloord Studios,

dove ha lavorato con un’ampia varietà di artisti e band acclamati come Bon Jovi, Chrissie Hynde, Cranberries, Stereophonics ecc.

Dal 2002 produce e compone musica anche per numerose campagne pubblicitarie e programmi TV nazionali e internazionali (Reebok, BMW, Braun,Sky Italia etc).

 

«Il mio amore per il Mellotron è iniziato durante la mia adolescenza, quando scoprii che ciò che produceva quei suoni così impressionanti, unicie avvincenti ascoltati sui dischi di Moody Blues, Beatles, Genesis e molte altre produzioni successive al 1967 era uno strumento chiamato, appunto, Mellotron.

A quel tempo c’era ben poca letteratura in giro, a parte alcuni riferimenti nei libri sui Beatles, soprattutto in “The Beatles Recording Sessions” di Mark Lewisohn. Durante i miei giorni alla scuola di musica fui in grado di mettere le mani sul CDRom rilasciato dalla Mellotron Archives, contenente campioni in alta qualità e ben dettagliati di tutti i suoni più rilevanti della macchina, e quindi fui finalmente in grado di usare questi suoni nelle mie produzioni.

Fino ad allora avevo utilizzato un modulo MIDI Classic Keys della EMU, ma i suoni di questa unità non erano molto buoni. Un po’ di tempo dopo trovai posto come ingegnere in uno dei più grandi studio di registrazione dell’Olanda ed… ecco qua! Nel seminterrato dello studio c’era una piccola tastiera bianca tutta sola, un M400 color della neve. Questa fu la mia prima esperienza diretta con lo strumento, sebbene quel particolare esemplare non fosse in ottime condizioni.

Mellotron M300

Circa 7 anni dopo mi imbattei in un annuncio su ebay: in una città vicina c’era un Mellotron offerto ad un prezzo ragionevole. Sebbene questa macchina necessitasse di molto lavoro, sia meccanicamente che esteticamente, pensai che fosse un’occasione unica nella vita di possedere effettivamente lo strumento che io amavo così tanto. Così lo presi e lo portai a casa.

Venne fuori che era una primissima versione dell’M400 (numero di serie #126, quindi la venticinquesima unità uscita dalla fabbrica). Tipici delle prime unità erano il meccanismo di trascinamento del nastro in ottone e le schede di controllo del motore diverse: le CMC4 al posto delle CMC10 trovate nelle unità successive; la cosa interessante è che le CMC4 funzionavano meglio delle CMC10 e venivano montate anche su alcune unità MKII e M300.

A quei tempi iniziai a entrare in contatto con altri affezionati del Mellotron di tutto il mondo, la maggior parte dei quali erano collegati tramite il gruppo di mailing di Yahoo, e in quel modo ottenni importanti informazioni e approfondimenti sul funzionamento del Mellotron. In particolare ebbi modo di conoscere Martin Smith e John Bradley della Streetly Electronics e il loro affiliato tedesco, Klaus Hoffman. E grazie a Martin che inviò le parti mancanti e nuovi nastri e telai per i nastri, Klaus fu in grado di restaurare la macchina, dentro e fuori.

Il Mellotron M400 #126 di Hessel

Ad un certo punto cambiai lavoro, spinto dalla mia ambizione di comporre, arrangiare e produrre musica per i media, in particolare per la pubblicità, e fui ben felice di usare il mio M400#126 in alcune produzioni. A quel tempo tenevo montati sui telai i suoni più tipici del Mellotron: i 3 violini (IL suono di archi del rock progressivo), il flauto, gli ottoni, il coro a 8 voci ecc.

Una nota interessante: il suono dei 3 violini è nato come un suono del Chamberlin, il precursore (americano) dei Mellotron. È l’unico suono condiviso dai due strumenti. Se confrontato, lo stesso suono ha caratteristiche molto diverse, il Chamberlin suona molto più pulito e hi-fi rispetto al Mellotron. Questo anche perché i suoni del Mellotron sono di circa quattro generazioni sonore successive rispetto al mastertape (praticamente i riversaggi non venivano fatti dal master originale ma a cascata dalle varie copie che poi venivano vendute con le macchine o come ricambi).

Quello che ho imparato è che un Mellotron ha bisogno di una manutenzione regolare; pulizia di testine e nastri, regolazione dei rulli/pressori della tastiera, ecc. Non c’è mai un momento di noia con un Mellotron!

Chamberlin Music Master 600, lo strumento da cui deriva il Mellotron

 

Il Mellotron MKII

 

E finalmente andai al workshop della Streetly nel Regno Unito, per incontrare Martin Smith e John Bradley e per provare il loro nuovo strumento, l’M4000. Per mia fortuna avevano ancora un esmplare di MKII in deposito, che necessitava di ripristino.
È importante capire che c’è una grande differenza tra M400 e MKII.

Il Mellotron MKIIfx di Hessel

Il Mellotron MKIIfx di Hessel

Il MKII ha due tastiere, che a loro volta danno accesso a 6 “stazioni” / diverse posizioni longitudinali sui nastri. I nastri stessi offrono tre tracce. Quindi, in totale, un MKII ha 36
suoni (18 per tastiera), mentre l’M400 standard ne ha solo 3. In quest’ultimo si possono
cambiare i tapeframe abbastanza facilmente. La modifica dei suoni sul MKII invece comporta il
spostamento del ciclaggio dei nastri in una nuova posizione. Tutto questo viene fatto in modo analogico: con un nastro di sincronizzazione, un cursore di posizione e un aggeggio chiamato SSCU. Funziona sorprendentemente bene!

Il Mellotron MKIIfx di Hessel

Il Mellotron MKIIfx di Hessel

Si potrebbe però immaginare che questo delicato sistema non sia pensato per essere utilizzato in tour.

I Moody Blues hanno fatto un lungo tour con un MKII, e apparentemente non hanno avuto problemi con il meccanismo del ciclaggio. Il fatto, però, che il tastierista dei Moodies lavorasse alla Streetly facendo i test drive dei Mellotron, sicuramente deve aver aiutato!

Il Mellotron MKIIfx di Hessel

Il Mellotron MKIIfx di Hessel

Il MKII che possiedo è ufficialmente conosciuto come MKIIfx, il che significa che è stato modificato per essere utilizzato in studi di trasmissione per riprodurre SFX (Special Effects o Effetti Speciali). Le modifiche includevano un miglioramento del segnale rispetto alla ratio del rumore, in quanto era mirato specificamente per essere utilizzato per la registrazione.
Molti strumenti MKIIfx erano dotati di nastri musicali. Il Mellotron degli Abbey Road, adesso di proprietà di Paul McCartney, è una di queste macchine MKIIfx convertite.

…ma come suona?

Clicca il pulsante e ascolta il suono del Mellotron MKII di Hessel

In seguito ho anche posseduto, suonato e manutenuto un M300, un MKV e altri due M400.
L’M300 è il successore del MKII, e sfoggia anche questo un meccanismo di ciclaggio, ma utilizza nastri da ¼ di pollice invece del normale da ⅜ di pollice. La misura più stretta del nastro rende questo modello un po’ più delicato, o meglio, meno robusto degli altri, ma resta comunque una macchina fantastica.

Originariamente l’M300 era dotato di tutte le nuove registrazioni! I violini M300 sono ben famosi (Barclay James Harvest).

Uno degli M400 che ho avuto era un’unità relativamente giovane, essendo uscito di fabbrica all’inizio degli anni ’80, e fu rimarchiato con il nome Novatron perchè alla fine degli anni ’70 la Streetly Electronics perse i diritti sul marchio Mellotron. Produceva ancora Mellotron, ma
li vendeva e li commercializzava con il marchio Novatron.
Questo particolare M400 era molto robusto e stabile ed era contenuto in un cabinet nero maculato.

Lo stesso vale per il MKV, che sono fondamentalmente due M400 affiancati.

Quindi l’MKV offre 6 suoni, un bellissimo design del cabinet completamente diverso dall’M400,
ha un riverbero interno e, stranamente, ha le manopole dei controlli davanti alla tastiera!

Mellotron MKV

Mellotron MKV

Il modello migliore, per me, è sempre il MKII, che ancora possiedo e suono regolarmente.
L’enorme quantità di suoni, la sensazione della tastiera, l’odore, le vibrazioni.
Con tutti questi strumenti ho avuto molti momenti di gioia e di flusso creativo.

Naturalmente ci sono stati problemi tecnici, ma niente che non potesse essere risolto.
Come Mellotronista è meglio imparare a fare manutenzione e riparare lo strumento,
poiché ci sono pochissime persone là fuori che possono riparartelo e dimensioni e peso
non aiutano di certo. C’è una certa bellezza in questo… il bisogno di prendersi cura del proprio strumento.

Tom Waits l’ha descritto magnificamente una volta… “ogni volta che suoni il Mellotron, muore un po’”.
Davvero molto umana, per essere una macchina!»

Pubblicità Mellotron M400 del 1972

Salutiamo e ringraziamo l’amico Hessel per la sua grande gentilezza e la massima disponibilità, è stato un grande piacere collaborare con lui!

Per contattare Hessel Herder.

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Etna – Etna (1975)

By MusicaNo Comments

C’erano una volta tre ragazzi siciliani, due fratelli e un cugino, già preparati musicalmente e con la testa nel futuro. I tre ragazzi avevano un progetto e per realizzarlo chiamarono un amico al basso. Nacque “Flea on the Honey”, la pulce sul miele.
Una pulce che diventerà Etna.

Lorenzo

La copertina dell’album Flea On The Honey

Era il 1971, gli inizi del rock progressivo in Italia, ed era sempre ben presente una grande vena psichedelica e, purtroppo, una netta moda esterofila, che portò i nostri a scegliere di usare la lingua inglese per il nome del progetto, i testi dei brani, le note di copertina e persino i loro stessi nomi.

La copertina interna dell’album

Al di là di questo, il disco omonimo era veramente notevole, sia dal punto di vista compositivo che esecutivo strumentale e vocale. Il disco, uscito per la microscopica etichetta Delta, passerà purtroppo praticamente inosservato ma porterà i tre ragazzi a Roma, dove incontreranno il loro bassista definitivo e questo incontro getterà le basi per il successivo “Topi o uomini” (1972) a nome Flea.

La copertina di Topi o Uomini

Il titolo del disco dà nome ad una epica cavalcata jazz rock psichedelica di 20 minuti (l’intera prima facciata del’album) con notevoli parti chitarristiche in rilievo che intessono melodie assolutamente nuove su una base compattissima di grandi basso e batteria, sottolineando abilmente le linee vocali.

Il secondo lato, di questo lavoro decisamente più maturo, comprende tre brani che metteranno in luce tutte le doti strumentali e le ispirazioni dei quattro ragazzi, che, ad un solo anno di distanza hanno dato alla luce un disco estremamente complesso con jazz, rock, psichedelia e sperimentazione al suo interno. I testi sono questa volta in Italiano e scopriamo finalmente i loro veri nomi.

La copertina interna dell’album Topi o Uomini

I quattro ragazzi sono Antonio (tastiere, fiati e voce) e Agostino Marangolo (batterie e percussioni), Carlo Pennisi (chitarre e strumenti a corda) e Elio Volpini (basso).

I due fratelli Marangolo sono noti per le collaborazioni con Goblin (fin dai tempi di Profondo Rosso, del quale si dichiarano compositori del brano Death Dies), Napoli Centrale, Guccini, Paolo Conte, Pino Daniele, Ornella Vanoni ed altri.

Il cugino Carlo Pennisi, chitarrista di grande levatura, ha lavorato come turnista in molti dischi, sia di gruppi prog che commerciali italiani.

Ha un curriculum sterminato che comprende Libra, Goblin, New Perigeo, Enzo Carella, Nada, Cocciante, Ivan Cattaneo, Alberto Radius, Ivano Fossati, Morandi, Mike Francis, Renzo Arbore, Enrico Ruggeri, Rettore, Renato Zero, De Crescenzo, Paola Turci e persino l’ultima parte della carriera di Rino Gaetano, prima di dirigersi negli USA dove vive, suona e produce da oltre trenta anni.

Elio Volpini entrerà dapprima nell’Uovo di Colombo con Tony Gionta, ex Goblin e Cherry Five. E suonerà con Claudio Lolli e con decine di altre formazioni, portando avanti un suo progetto su Jimi Hendrix che lo vedrà questa volta e a seguire, alla chitarra.

Ma è con il terzo lavoro che i nostri verranno finalmente alla luce per quei musicisti preparatissimi che sono e che affronteranno da lì in avanti carriere da turnisti per i grandi professionisti italiani e non solo.

Il disco venne registrato allo studio Catoca di Roma in una settimana, a nome Etna, e contiene alcune perle assolute di Jazz Rock, ispirato forse a Weather Report e Return To Forever come partenza, ma con sapori e musicalità completamente personali e assolutamente mediterranee.

La copertina di Etna

I sette brani strumentali che lo compongono sono di levatura altissima, con almeno cinque possibili hit nell’ambito del jazz rock.

In questo album si può trovare la più alta sintesi di fusion tra rock, jazz, progressive, sperimentazioni, mischiando abilmente strumenti moderni, classici e della tradizione mediterranea a vocalizzi e assonanze e dissonanze della nostra area culturale di appartenenza.

Il suono è perfetto, nitido, caldissimo, levigato ma anche aggressivo dove deve esserlo. L’esecuzione è perfetta, l’uso dell’effettistica è di classe assoluta, mai preponderante, così come i solismi, che sono esclusivamente funzionali al progetto di insieme e mai egotici.

A mio parere, in questo disco si possono assaporare alcuni dei più bei passaggi e suoni di Stratocaster, la classe di Pennisi è indubbia ma tutto l’ensemble è davvero degno di nota e si fa fatica a credere che si tratti ancora di giovani, tanto la composizioni e le esecuzioni sono mirabili che si è convinti di trovarsi davanti a professionisti ormai navigati.

I pezzi si susseguono incessantemente, ricchi di atmosfere descrittive che percorrono quadri emotivi di ogni tipo, dalla drammaticità di “Beneath the Geyser” al romanticismo della splendida “Barbarian Serenade”, che chiude in bellezza con il suo finale epico guidato dal mandolino di Pennisi.

Il retro copertina di Etna

Il drumming di Marangolo è un motore perfetto, potente e ricco di sfumature. Il basso di Volpini è roboante, preciso e scolpito. Le tastiere e i fiati di Antonio Marangolo sono sempre perfettamente descrittivi e cesellati. Le chitarre di Pennisi mordono e accarezzano allo stesso tempo, mai sovrabbondanti, inseguendo fraseggi fantasiosi e intessendo atmosfere perfette.

Non si può che consigliare l’ascolto di questo capolavoro, una delle rare volte che questa definizione può essere usata con la massima tranquillità, senza timore di esagerazione alcuna.

Ascolta l’album completo “Etna”

Lato A

1. Beneath the Geyser – 3:56 (Marangolo, Pennisi)
2. South East Wind – 6:10 (Marangolo, Pennisi, Volpini)
3. Across the Indian Ocean – 5:36 (Pennisi, Volpini)
4. French Picadores – 4:26 (Pennisi)

Durata totale: 20:08

Lato B

1. Golden Idol – 8:59 (Marangolo, Pennisi)
2. Sentimental Lewdness – 6:42 (Pennisi)
3. Barbarian Serenade – 5:14 (Marangolo)

Durata totale: 20:55

Producer – Mario & Giosy Capuano

Carlo Pennisi ai tempi di Rino Gaetano

Carlo Pennisi in tempi recenti

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Limitless (2011) – Il Pensiero Laterale

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

«Hai sentito la storia del fatto che usiamo solo il 20% del cervello? Questa cosina qui, ti da accesso a tutto quello che non usi...»

Lorenzo

Quando sei vicino ai quaranta, in crisi profonda perchè non riesci a scuoterti da una situazione cortocircuitale nella quale non hai un lavoro, sei stato lasciato da entrambe le donne della tua vita, hai un progetto da anni ma l’insicurezza ti ha creato un blocco della creatività invalicabile… in pratica stai cercando le briciole di te stesso sotto al tavolo.

Cosa succede se arriva la soluzione a tutto questo sotto forma di pillola?

Di tutto.

Questo, in poche parole è Limitless. un film complesso e velocissimo, che affronta interessanti argomenti collaterali come il “Pensiero Laterale” dello psicologo e scrittore maltese Edward De Bono.

De Bono afferma che, se si affronta un problema con il metodo razionale del pensiero, si ottengono risultati corretti, ma limitati dalla rigidità dei modelli logici tradizionali. Quando si richiede invece una soluzione veramente diversa e innovativa, che contribuisca cioè ad un reale passo evolutivo rispetto alle condizioni preesistenti, si deve stravolgere il ragionamento, partire dal punto più lontano possibile, ribaltare i dati, mescolare le ipotesi, negare certe sicurezze e addirittura affidarsi ad associazioni di idee del tutto casuali.

Si deve perciò abbandonare il pensiero verticale, cioè quello basato sulle deduzioni logiche, per entrare nella lateralità del pensiero creativo.

Dal Pensiero Laterale si sono poi sviluppate le carte delle “Strategie Oblique”, realizzate da Brian Eno e Peter Schmidt ed edite a partire dal 1975. Queste carte, contenenti delle particolari frasi guida, sono state usate da Brian Eno in molte delle sue produzioni musicali per altri artisti (Talking Heads, David Bowie, Devo).

Limitless è un film ben girato, ben diretto, con un uso efficace ed intelligente degli effetti speciali e un montaggio molto serrato, che ben si addicono alla velocità che la storia richiede. Pur essendo una pellicola a basso budget, ogni compito è stato svolto molto bene, fino ad ottenere un prodotto con uno stile personale e ben riconoscibile, lo si può già definire un film di culto.

E’ tratto dal romanzo “I territori oscuri” di Alan Glynn ma ne segue lo svolgimento solo in parte e i finali si sviluppano in modo diametralmente opposto, tanto che il film tende ad invogliare lo spettatore all’uso delle sostanze Nootrope, oggi comunemente definite Smart Drugs, senza troppe preoccupazioni circa la loro provenienza ed i possibili effetti collaterali.

UNA SCENA DEL FILM LIMITLESS CON L’APPLICAZIONE IMMEDIATA DEL PENSIERO LATERALE

Al contrario, il racconto di Glynn, calca la mano poderosamente proprio sulla provenienza e le motivazioni della creazione di questo preparato MDT-48 (nel film ribattezzato NZT-48), cosa che verrà ulteriormente sviluppata nel seguito del romanzo, “Under the Night”.

La pillola, quindi, diventa il solito rimedio veloce ma rischioso che l’era moderna pretende dall’uomo moderno, senza curarsi del percorso necessario alla crescita interiore: una scuola che può durare anche tutta la vita.

Molto più utile in questo senso sono stati gli studi di De Bono, che si riallacciano a quelli della Quarta Via di Gurdjieffiana memoria:

Gurdjieff e Quarta Via: la casa senza padrone

«Immaginiamo una grande casa dove il padrone non è presente. All’interno si trovano molti servi, il cui lavoro però non viene coordinato da nessuno. E’ una casa dove la servitù fa quello che vuole. Arriva il panettiere a consegnare la fornitura di pane, ma apre la porta lo stalliere che fa mettere il pane nella stalla. Arriva l’idraulico che deve riparare le tubature del bagno, ma apre la porta il cuoco che lo fa accomodare in cucina.

La mancanza di coordinamento fa sì che a determinati stimoli esterni non risponda mai chi di dovere. Accade la stessa cosa nell’essere umano. Ci presentiamo a un esame universitario, ma invece che entrare in azione solo il centro intellettuale, si intromette anche quello emotivo con il suo carico di ansia, paura e imbarazzo, il che rende molto più difficile, se non impossibile, il superamento della prova.

A un incontro galante con una bella donna o un bell’uomo, entra in azione il centro intellettuale anziché il Cuore, il che ci rende logorroici e poco attraenti. Nel bel mezzo di un rapporto sessuale a un dato momento il centro intellettuale prende il sopravvento con i suoi dubbi e le sue aspettative…secondo voi quale può essere la conseguenza?

Le cose all’interno dell’abitazione vanno così male che alcuni servitori un bel giorno decidono di eleggere un maggiordomo. Questi servitori sono gli io del Lavoro, cioè quegli io – quelle parti di noi – che a un certo punto sentono il bisogno di cambiare la situazione e ci costringono a intraprendere un Lavoro su noi stessi (…) Il maggiordomo inizia a osservare, a seguire passo, passo i vari servi per capire cosa effettivamente sta succedendo nella casa.

Egli deve imparare a conoscere la casa. Il solo fatto che un maggiordomo li osservi, va già a modificare il comportamento dei servitori. L’osservatore modifica l’oggetto osservato. Non giudica, non parla, non interferisce in alcun modo, ma la presenza costante di questo silenzioso testimone, giorno dopo giorno, quasi magicamente comincia a mettere a posto le cose e prepara l’arrivo del padrone di casa: l’anima.

L’Io osservatore, il “testimone” non è morale e non giudica in alcun modo gli atti dei vari io. Se stiamo giudicando è perché non stiamo guardando con il “testimone” ma con uno degli io, cioè con una parte della nostra personalità e questo può condurre a una pericolosa scissione interna della mente…. Il testimone è pura presenza, distaccata, priva di opinioni personali riguardo a ciò che fa la macchina e a ciò che fa il mondo intorno a lei.

L’Io osservatore non fa nulla per cambiare la situazione, ma si limita a osservare con distacco – senza farsi coinvolgere – ciò che accade nell’apparato psicofisico.

Osserva la rabbia, la felicità, il disappunto, la frustrazione… sperimentate di volta in volta dalla macchina biologica, con la medesima imperturbabile obiettività. Se di fronte a una rissa la personalità vuole intervenire il “testimone” non glielo impedisce, se la personalità vuole restare passiva il “testimone” non glielo impedisce. Guarda e basta.

Perchè “costruire” l’osservatore? Siamo contenti di come ci comportiamo? Oppure abbiamo capito che la nostra Vita può essere altro che le solite reazioni agli eventi?»

Fonte

Una drammatica applicazione del Pensiero Laterale tratta dal film Limitless

Limitless

Directed by Neil Burger
Screenplay by Leslie Dixon
Based on The Dark Fields
by Alan Glynn
Produced by

Leslie Dixon
Scott Kroopf
Ryan Kavanaugh

Starring

Bradley Cooper
Abbie Cornish
Robert De Niro
Andrew Howard
Anna Friel

Cinematography Jo Willems
Edited by

Naomi Geraghty
Tracy Adams

Music by Paul Leonard-Morgan
Production
companies

Virgin Produced
Rogue
Many Rivers Productions
Boy of the Year
Intermedia Film

Distributed by Relativity Media
Release date

March 8, 2011 (New York City)
March 18, 2011 (United States)

Running time
105 minutes
Country United States