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Parts – The Clonus Horror (1979): The Island prima di Michael Bay

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Era il 1979 quando venne dato alle sale The Clonus Horror, quel piccolo sconosciuto film dal quale venne appunto clonato il ben più famoso “The Island”.

The Boss

Era il 1979 quando venne dato alle sale The Clonus Horror, quel piccolo sconosciuto film dal quale venne appunto clonato il ben più famoso “The Island”.

Niente di particolarmente eclatante, un film distopico certamente più drammatico e meno hollywoodiano del suo “clone”, come era nello stile dei tempi insomma.

Ma il messaggio c’è ed è duro e diretto in faccia: i ricchi si procurano pezzi di ricambio per le loro “carcasse” umane.

Locandina del film

Inizio SPOILER:

Il film si svolge in un isolato complesso desertico chiamato Clonus, dove vengono allevati cloni per essere usati come pezzi di ricambio per l’élite, incluso il presidente eletto Jeffrey Knight (Peter Graves).

I cloni vengono tenuti isolati dal mondo reale dai lavoratori della colonia, ma viene promesso che verranno “accettati” per trasferirsi in “America” ​​dopo aver completato un certo tipo di preparazione fisica.

Dopo che un gruppo di cloni viene scelto per andare in “America”, viene organizzata una festa d’addio con tutti i loro compagni cloni. I cloni scelti vengono quindi portati in un laboratorio dove vengono sedati, infilati in un sacco di plastica ermetico e congelati per preservare i loro organi fino al momento della “donazione”.

Ai posti di comando del Clonus troviamo Dick Sargent, il Darrin della celebre serie TV “Vita da Strega”

La storia ha come protagonista il clone Richard (Tim Donnelly) che inizia ad avere dubbi e fare domande sulla sua esistenza e alla fine fugge dalla colonia. Inseguito dalle guardie di vigilanza del Clonus, Richard scappa in una città vicina.

Il clone viene trovato da un giornalista in pensione, Jake Noble (Keenan Wynn) che lo porta dal suo capo, Richard Knight, che sembra essere il fratello di Jeffrey Knight. I due Knight discutono su cosa fare con il clone (che si rivela essere stato segretamente commissionato da Jeffrey per se stesso).

Richard e Lena

Dopo una lite, il clone di Richard torna nella colonia per ricongiungersi con la sua innamorata, Lena (Paulette Breen). Con orrore il clone scopre che la ragazza è stata lobotomizzata dai gestori del Clonus. L’avevano usata come esca per intrappolarlo. Una volta catturato il clone, lo uccidono e lo congelano.

Nel frattempo il Clonus invia dei killer a uccidere Richard Knight, suo figlio e i Noble. Jeffrey Knight viene pugnalato al petto nella colluttazione col fratello, ma il giorno successivo, come se nulla fosse, partecipa ad una conferenza stampa, dove rimarrà gelato nello scoprire che Noble, prima della sua morte, era riuscito a diffondere un nastro segreto ai media, esponendo il progetto Clonus.

L’ultima inquadratura mostra il cadavere congelato di Richard con il petto squarciato e una lacrima di ghiaccio che gli scende dall’occhio.

Richard crionizzato

Chi ha avuto modo di guardare The Island noterà che si tratta dello stesso film con un finale diverso e molti meno denari a disposizione per la realizzazione.

Abbastanza triste che il tanto ammirato Michael Bay non abbia mai dichiarato a cosa si fosse “ispirato” per realizzare il “suo” film ma al di là di questo la cosa assai preoccupante è la assoluta credibilità di Clonus rispetto alla fantasiosa e buonista versione hollywoodiana di Bay, nella quale si è perso tutto il tipico realismo amaro dei classici della distopia degli anni 70.

Locandina di “The Island”

Film come questo e il precedente “Coma Profondo”, realizzato da Michael Chricton solo l’anno prima, mettono bene in evidenza il pericolo di predazione di organi in seguito ad incidenti che troppo spesso e con troppa fretta vengono dichiarati “mortali”.

Inoltre sono ben noti i casi di furti di organi venduti al mercato nero e delle razzie di bambini messe in atto da criminali internazionali in mezzo a popolazioni povere e facilmente dimenticabili.

Ovviamente il primo vero responsabile è chi questi furti li commissiona, esseri da perseguire e punire senza la minima pietà.

Una celebre scena tratta dal film Coma Profondo di Michael Crichton

La VHS del film

IL FILM THE CLONUS HORROR

“Parts: The Clonus Horror” (Usa 1979) di Robert S. Fiveson

Regia Robert S. Fiveson
Soggetto e sceneggiatura Bob Sullivan (story)
Bob Sullivan and
Ron Smith (screenplay)
Myrl A. Schreibman and
Robert S. Fiveson (adaptation)
Produzione Robert S. Fiveson
Myrl A. Schreibman
Interpreti Tim Donnelly
Paulette Breen
Dick Sargent
Peter Graves
Keenan Wynn
Frank Ashmore
Fotografia Max Beaufort
Montaggio Robert Gordon
Musiche Hod David Schudson
Distribuzione Group 1 International Distribution Organization Ltd.
Data di uscita

August 1979 (U.S.)

Durata
90 minuti

 

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Westone Spectrum LX Bass: Creature of the Night!

By Bassi vintage JapanNo Comments

Quando si parla di Matsumoku scatta subito "l'effetto Nostalgia" e Westone era il top brand di questa mitica fabbrica situata nella città giapponese di Matsumoto. Oggi Daniele ci parla del suo splendido basso Spectrum LX.

Lorenzo

Articolo di Daniele Pieraccini

La marca di chitarre Westone fu prodotta originariamente dalla fabbrica Matsumoku in Giappone (dal 1981 al 1987/88) e successivamente dalla SLM (fino al 1991).

Questo basso, che ricordo benissimo di aver visto negli anni ’80 in mano ad un “collega” bassista di Firenze, ha una caratteristica che trovo geniale: è dotato di due manici (uno fretted ed uno fretless) intercambiabili con pochi colpi di brugola e dieci minuti di tempo.

Lo Spctrum LX venne prodotto dal 1985 al 1897 e, stando al numero di matricola, questo esemplare risale al luglio 1986.

L’ho recuperato un anno e mezzo fa circa sul mercatino ad un prezzo ragionevole, vista la qualità e la particolarità dello strumento. La parte più “vissuta” e consumata è il retro del corpo, per il resto le condizioni sono accettabili, per un basso di 35 anni.

Il manico fretless ha dei dot segnatasti sul profilo, bianchi nelle posizioni normali (3,5,7,12…) e rossi per le altre.
Il corpo è in acero, il manico in acero duro canadese, la tastiera in palissandro ed il capotasto in grafite.

Esteticamente lo strumento è, parere personale, molto bello: aggressivo ma con una certa eleganza.
Nonostante l’impatto rock o addirittura metal dato dal look, può non sfigurare in contesti diversi.
La forma del body richiama un po’ le curve Fender nel fondo e le “corna” Gibson nelle spalle.
Un’immagine comunque molto moderna e classica al tempo stesso.

Suono aggressivo e moderno

Matsumoku, con il marchio Westone, produceva non solo i pickup ma tutta la parte elettronica degli strumenti.
I pickup sono a bobina sbilanciati; il volume, pur cambiando configurazione, rimane sempre consistente e soprattutto bello potente.

Al manico troviamo un Magnabass II (modello P) mentre al ponte un Magnabass IV.
Questa tipologia di pickup era in dotazione anche a molti bassi Aria (made by Matsumoku, ovviamente).

Poi abbiamo: controlli di tono attivi, coil tap e switch di fase.
L’elettronica è attiva con doppia batteria, due da 9V, e “spara” da paura…

Qualità e quantità

I pickup in questione, pur sfoggiando una gamma di possibilità timbriche non indifferente, non somigliano a nessun altro in particolare: Fender, Gibson, Seymour Duncan, EMG, Di Marzio…e questo a mio parere è un grosso punto a favore. Raro riscontrare così tanti suoni utili e personali in un unico strumento.

La qualità di costruzione e la quantità di timbriche a disposizione fanno di questo strumento un’occasione da non farsi sfuggire!

Ascoltando il demo potrete farvi un’idea delle possibilità timbriche di questo gioiellino nipponico:
caldi miagolii fretless, suoni slap potenti e definiti, punch sia con plettro che con le dita… Un divertimento!

…ma come suona?

Clicca il pulsante e guarda una minidemo esclusiva di questo splendido Westone Spectrum!

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HS Anderson “Global Sound” by Morris

By Chitarre Vintage JapanNo Comments

Morris, marchio della ditta giapponese Moridaira e noto per gli splendidi strumenti acustici, ha prodotto anche chitarre e bassi elettrici con altri marchi, dei quali il più noto era HS Anderson, celebre per la Madcat di Prince.

Lorenzo

L’azienda Moridaira Guitar costruisce da molto tempo strumenti artigianali di qualità a Matsumoto, Nagano. Prende il nome dal suo fondatore, il signor Toshio Moridaira, che fondò la ditta nel 1961 e divenne il primo importatore di Gibson e Fender per il Giappone.

Nel 1964, grazie al suo rapporto di lavoro con Gibson, Toshio si recò in visita alla fabbrica di Kalamazoo, nel Michigan e un dipendente della Gibson lo soprannominò “Mori”.

Di conseguenza Mori-san nel 1967 fondò la compagnia Morris Guitars, ispirato da questo soprannome.

La Morris ha prodotto copie di alta qualità di dreadnought e jumbo basate su Martin e Gibson.

La fabbrica produceva anche conto terzi, comprese le chitarre con marchio Morris che furono importate in Inghilterra dalla Rose Morris. Moridaira ha anche prodotto chitarre per Hohner (la Madcat resa famosa da Prince usci sia a marchio HS Anderson che Hohner) e altri marchi minori.

Morris cominciò a produrre modelli a design proprietario negli anni 70 e tra questi anche la linea Global Sound, della quale qua abbiamo uno dei modelli disegnati da Patrick Vrolant per HS Anderson, appunto.

Vrolant è un musicista francese che ha fatto carriera come chitarrista-cantante specializzato in Country col nome d’arte di Pat Winther. Negli anni ’70 fu venditore per la Gamme (l’azienda che fece produrre a Matsumoku la Country SV 300 per il mercato francese).

Oggi Morris produce esclusivamente strumenti acustici, in gran parte in Korea pur conservando ancora la propria base a Matsumoto dove produce la propria linea di strumenti artigianali di altissima qualità.

Tornando a questa bella Global Sound by Vrolant e di proprietà dell’amico Gordy, si tratta di una neck-thru in acero e mogano, con hardware in acciaio e ottone e che pare indossare una bella coppia di Di Marzio splittabili e regolabili da due coppie di potenziomentri arricchiti da manopole in mogano.
Ma andiamo direttamente a gustarci le immagini.

Clicca il pulsante e guarda i video esclusivi di questa incredibile Morris Global Sound!

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Omicron (1963)

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Nel 1963 Ugo Gregoretti filma quello che probabilmente è il suo lavoro più denso e significativo.
Muovendosi tra fantascienza ironica, commedia, surrealismo, inchiesta televisiva e giornalismo alla Malaparte, ispirato sicuramente dal maestro René Clair nell'incrociare il fantastico con il quotidiano, il regista romano mette in scena quello che si potrebbe definire il prequel del carpenteriano “Essi vivono”.

Daniele Pieraccini

«Omicron era un film sulla fabbrica, o meglio, sulla Fiat, tant’è vero che la sua base documentaria è l’inchiesta sulla Fiat fatta da Giovanni Carocci e comparsa sulla rivista “Nuovi Argomenti”, diretta da Alberto Moravia, che analizzava le difficili questioni sindacali all’interno degli stabilimenti Fiat dopo la creazione di una polizia segreta che vigilava sul lavoro nelle fabbriche.
Alcune cose vennero da un incontro a Torino con dei giovani dei “Quaderni Rossi”, Fofi e Soave.

Dopo i miei primi lavori e dopo il successo del film Ro.Go.Pa.G. Cristaldi mi propose nel 1963 di girare un film di soggetto fantascientifico, che dapprima pensai di girare direttamente a Torino. Omicron era un curioso esempio di satira sul lavoro operaio in una grande fabbrica, con un alieno che si incarnava in un operaio.

Andai in Fiat, un po’ ingenuamente, per chiedere l’uso di un grande stabilimento dove poter girare, ma ovviamente la Fiat non ci diede il permesso.
Andai allora all’Eni che, spinta dal desiderio di dimostrare come gli enti pubblici fossero più aperti dei privati, ci mise a disposizione immediatamente uno stabilimento di Firenze, il Nuovo Pignone, specializzato nella costruzione delle bombole a gas per le cucine

Restammo lì quasi un mese, a Torino girammo solo alcuni esterni in Piazza San Carlo e in periferia» (U. Gregoretti, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).

Ugo Gregoretti

“Un giorno non saremo più noi stessi, ma degli altri che stanno dentro di noi”

Nel 1963 Ugo Gregoretti filma quello che probabilmente è il suo lavoro più denso e significativo.
Muovendosi tra fantascienza ironica, commedia, surrealismo, inchiesta televisiva e giornalismo alla Malaparte, ispirato sicuramente dal maestro René Clair nell’incrociare il fantastico con il quotidiano, il regista romano mette in scena quello che si potrebbe definire il prequel del carpenteriano “Essi vivono”.

Il titolo, “grazie” all’arrivo della omonima “variante pandemica” e alla conseguente isteria collettiva come sempre fomentata dai media, ha recentemente riportato all’attenzione questo gioiello del nostro cinema, che merita invece ben altra considerazione.

Una delle false locandine, basata su quella del film “Fase 4 – Distruzione Terra”

In quegli anni la fantascienza sembrava aver trovato un proprio spazio all’interno del cinema italiano: nel 1958 Paolo Heusch dirige “La morte viene dallo spazio”, prima pellicola del genere prodotta nel nostro Paese con la quale anticipa il genere catastrofico; Antonio Margheriti cala il poker del ciclo Gamma Uno (ben quattro film ambientati nella omonima stazione spaziale); il maestro Mario Bava realizza “Terrore nello spazio” che ispirerà l’Alien di Ridley Scott; Bruno Gaburro gira il post-apocalittico “Ecce Homo: i sopravvissuti” e Luigi Cozzi esordisce con la satira sperimentale “Il tunnel sotto il mondo”, tratta dall’omonimo raccnto di Frederik Pohl.

Gregoretti lega l’ispirazione sci-fi alla satira di costume, usando tocchi che anticipano il mockumentary (quante idee all’avanguardia nel cinema italiano degli anni sessanta, fonte inesauribile per gli sceneggiatori di Hollywood anche a decenni di distanza…) per riflettere, con la stessa lucidità e lo stesso disincanto di Salce nel suo “Colpo di stato”, di pochi anni dopo, su una società già avviata verso la dissoluzione.

Renato Salvatori interpreta Angelo Trabucco/Omicron

Creature di prima e seconda scelta

Omicron ci narra una invasione aliena, sulla falsariga de “L’invasione degli ultracorpi”: esseri di una altro pianeta vogliono conquistare la Terra possedendone gli abitanti. Per infiltrarsi tra di noi sfruttano il conformismo delle persone, già “possedute” dalle dinamiche sociali (su tutte quella servo-padrone) che ne guidano l’esistenza.

E’ qui che la visione di Gregoretti ci rimanda a quella di Carpenter. In piena era reaganiana quella del regista statunitense è una presa di coscienza di un’invasione ormai consolidata; il film italiano ci mostra invece gli albori dell’invasione stessa. Il parassita capitalista è il risultato della fusione tra gli esseri alieni e il progressismo conformista dei nostri tempi.

Calandroni giroscopici

Angelo Trabucco (interpretato da Renato Salvatori) è un umile operaio, un ultimo della classe, che viene rinvenuto cadavere all’interno di un tubo di cemento, in una sequenza di apertura che da sola vale il film e che ci mostra già la padronanza di Gregoretti nel gestire espressività visiva e concettuale. Il fatto però è che Trabucco non è morto, ma posseduto da una entità aliena, che gradualmente riporta il corpo in vita ed impara a conoscerlo e controllarlo.

A questo processo di apprendimento finalizzato al controllo parassitario si devono le gag più comiche del film, ma anche alcune trovate immaginifiche sorprendenti: su tutte la lettura a velocità incredibile di una mole di libri, al fine di imparare tutto degli umani nel minor tempo possibile.

“La catalessi ha fatto di lui un uomo inesistente ed un operaio modello”

Maldestro, catastrofico e violento nelle interazioni sociali, Trabucco/alieno ha forza e resistenza non comuni e soprattutto è produttivo in maniera sovrumana nel suo lavoro in fabbrica, mettendo in crisi gli altri lavoratori anche perché non avanza pretesa alcuna ed obbedisce ad ogni richiesta.

Dopo molte peripezie e vicende che portano il protagonista inevitabilmente al centro dell’attenzione da parte di colleghi e superiori, l’ostacolo principale all’invasione aliena è infine individuato dai nostri nemici venuti dallo Spazio: la coscienza umana.
Questa luce scomoda, che riemerge in Trabucco grazie all’amore, è però già sotto scacco da parte di forze terrestri, delle leggi del mercato e della società piegata ad esso. Ciò che mette in difficoltà esseri superiori di altri mondi è comunque soffocato dal conformismo della nostra epoca.

Angelo lotterà in un sussulto di ribellione, tentando di avvisare i suoi simili, ma finirà per soccombere nell’indifferenza generale. Intanto gli alieni, che hanno capito quali corpi devono occupare (quelli dell’élite), stanno pianificando gli anni a venire. Anni di prosperità per loro e di schiavitù per la maggioranza dell’umanità.

Rosemarie Dexter interpreta Lucia, la ragazza della quale si innamora Trabucco/Omicron

Rivedere la storia (del cinema italiano)

Davanti a lavori come Omicron, come Colpo di stato e molti, troppi altri, così ricchi sotto tanti punti di vista (creativo, testuale, immaginifico, recitativo…) ci porta a riflettere sulla necessità di liberarsi della visione imposta istituzionalmente della storia del nostro cinema. Non è possibile che vi siano tante opere di spessore dimenticate o ignorate dallo sguardo di prammatica della critica “ufficiale”.

Ma non c’è da stupirsi: è chiara la volontà di spingere certi autori a scapito di altre opere “scomode”, per promuovere proprio la visione progressista, conformista, ipocrita e decadente osservata e criticata in maniera lucida da autori come Gregoretti, Salce, Petri, Tognazzi, Ferreri.

Salvatori l’istrione

“Sto perdendo sugo”

Un ultimo, doveroso omaggio a Renato Salvatori, protagonista azzeccatissimo scelto da Gregoretti.

Un attore eclettico e originale, che in Omicron conferma la sua classe e la sua versatilità, già messe in mostra prima (con Risi, Monicelli, Castellani, Visconti…) e successivamente (con Ferreri, Petri, Costa-Gavras…).

Nel 1963 la sua carriera è già in fase discendente; il suo addio al cinema a neanche cinquant’anni (e la morte da dimenticato pochi anni dopo) è un altra dolorosa vergogna del nostro cinema.

CLICCA E SBLOCCA UNA CLIP NELLA QUALE UGO GREGORETTI RACCONTA IL SUO “OMICRON”

“Omicron” (IT 1963) di Ugo Gregoretti

Regia: Ugo Gregoretti
Soggetto: Ugo Gregoretti
Sceneggiatura: Ugo Gregoretti
Produttore: Franco Cristaldi
Casa di produzione: Lux Film, Ultra Film, Vides Cinematografica
Distribuzione in italiano: Paramount
Fotografia: Carlo Di Palma
Musiche: Piero Umiliani
Scenografia: Carlo Gentili

Personaggi e interpreti

Renato Salvatori: Angelo Trabucco / Omicron
Rosemarie Dexter: Lucia
Gaetano Quartararo: Midollo
Mara Carisi: moglie di Midollo
Ida Serasini: vedova Piattino
Calisto Calisti: Torchio
Dante Di Pinto: commissario
Vittorio Calef: presidente della S.M.S.
Maria Grazia Grassini: signorina Mari, l’infermiera
Ugo Gregoretti: giornalista

 

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La Giulietta e l’Italia del Boom

By Automobilismo, Giuseppe Luraghi, Personaggi StoriciNo Comments

Era il 1955 quando Giuseppe Luraghi, amministratore delegato di Alfa Romeo, mise in atto il piano industriale per la produzione della Giulietta, auto che vedrà l’ascesa del marchio Alfa Romeo nel dopoguerra.

Testi Alessandro Spagnol / Ricerche ed editing Lorenzo

Gli storici stabilimenti Alfa Romeo del Portello a Milano

Con la nuova sezione dedicata all’automobilismo classico e vintage, salutiamo l’ingresso del nostro nuovo collaboratore, Alessandro.

La Giulietta e l’Italia del Boom

Di Alessandro Spagnol

Era il 1955 quando Giuseppe Luraghi, amministratore delegato di Alfa Romeo, mise in atto il piano industriale per la produzione della Giulietta, auto che vedrà l’ascesa del marchio Alfa Romeo nel dopoguerra.

In quegli anni l’Italia stava riponendo nuova fiducia all’economia e di conseguenza le aziende pìù importanti sulla scena mondiale, Alfa era una di queste, si diedero da fare per creare nuovi posti di lavoro e nuove opportunità per dare lustro all’Italia nel mondo e a aumentare le entrate.

Il Periodo storico in cui un’auto non era solo un’auto, era un mezzo di locomozione che la famiglia sceglieva per muoversi per decenni, dunque doveva essere per forza affidabile.

Giulietta Berlina

Oltre all’efficienza, su auto come le Alfa si potevano sempre trovare stile, fascino e prestazioni. La Giulietta come auto diventò una sorta di condensato di tutto ciò, diventando “la fidanzata degli italiani” come venne definita in una delle tante campagne pubblicitarie dell’epoca.

Da notare che venne prima lanciata la versione coupè solo perchè alcuni collaudi sulla berlina non erano stati ultimati e paradossalmente questo creò grande curiosità e le prenotazioni, sopratutto da Stati Uniti e altri paesi all’estero, diedero ulteriore conferma sulle linee della carrozzeria disegnate dal Centro Stile guidato da Giuseppe Scarnati.

Giulietta Sprint

132000 furono i modelli totali prodotti, numeri che per l’epoca erano notevoli. All’epoca le linee e la moda erano ben diversi dallo stile di oggi, basti pensare che un modello come la 2000 sprint, uscita solo due anni più tardi nel 1957, aveva già linee più tese, essendo una sportiva di punta.

Una Giulietta all’epoca la si poteva acquistare per circa 1.500.000 Lire (sarebbero circa 20.000 Euro odierni, ma per l’epoca erano davvero molti soldi considerando gli stipendi medi di circa 43.000 Lire), mentre una 500 Fiat la si poteva acquistare per poco più di 500.000 Lire (Quando si parla di auto d’epoca mi piace sempre contestualizzare per rendere l’idea di come alcune cose fossero inarrivabili per molti, anche in pieno boom economico).

Fiat 500 porte controvento

Oggi di questi esemplari se ne contano molto pochi e sono gelosamente custoditi per poterne preservare la funzionalità e il prestigio di un periodo che difficilmente tornerà a breve nel nostro Paese, ma una cosa ci ha insegnato quel periodo: la capacità di osare, di provare a esplorare, così fertile in ogni settore, dal settore della moda e dello stile, perchè le auto del biscione erano anche stile, fino alla musica e all’arte.

Giulietta Spider

Tre settori in particolare sono e resteranno sempre interconnessi: Musica, Cinema e Motori. Quando uno solo di questi pilastri scricchiola, inizia a produrre qualcosa di mediocre, tutto il resto cede e si crea la noia. Sempre contestualizzando il periodo storico, va pur sempre ricordato che sul finire degli anni ’50 oltreoceano imperversava una nuova ondata di energia caratterizzata da brillantina, auto immense dalle linee sinuose e Rock ‘n’ Roll.

Macchinoni, brillantina e Rock ‘N’ Roll

CLICCA PLAY PER GUARDARE LA CLIP CON IL FILMATO DELLA PRESENTAZIONE DELLA GIULIETTA

Giuseppe Luraghi e la sua Portello

Luraghi, l’uomo della provvidenza dell’Alfa Romeo nel dopoguerra, è stato uno dei più grandi dirigenti d’industria: tenace, creativo, lungimirante e visionario, è riuscito a tener duro anche nei momenti più bui dell’azienda, quando la lunga mano corrotta della politica è arrivata a portare danno nella macchina perfettamente oliata e marciante che l’Alfa era diventata ai tempi.

Resterà nella storia come il responsabile della rinascita del Mito Alfa Romeo.

Giuseppe Luraghi

Piccolo tour degli stabilimenti del Portello negli anni ’50

Le Giulietta

Ringraziamenti

Si ringrazia il sito portellofactory.com per alcune immagini presenti nell’articolo.

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Alastair Riddell & Space Waltz (1975)

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Alastair Riddell è un personaggio mitico in Nuova Zelanda, un folletto magico che ha iniziato a suonare in gruppi all'età di quattordici anni e per tutta la vita ha continuato a scrivere musica e ad esibirsi in pubblico, in una carriera che attraversa un arco di oltre 50 anni.

Lorenzo

Alastair Riddell giovanissimo

Alastair Riddell iniziò come membro degli Original Sun con suo fratello Ron alla fine degli anni sessanta, con i quali passò dal blues alla John Mayall a quello più psichedelico sull’onda dei Cream e Hendrix.
Nel 1971, ai tempi in cui studiava antropologia all’Università di Auckland, incontrò il tastierista Tony Rayner e il batterista Paul Crowther (proprio il creatore del mitico overdrive Hot Cake). Con l’aggiunta del chitarrista Paul Wilkinson e del bassista Peter Kershaw (anch’ègli ex Original Sun), formarono un gruppo chiamato Orb.

Alastair Riddell con The Original Sun

Riddell con gli Orb

Gli Orb erano una band universitaria che proponeva repertorio di Genesis, King Crimson, Yes e David Bowie, con l’aggiunta di alcuni brani originali. Erano della scuola post-hippy, artisti determinati ad aderire ai valori della Love Generation ma estremamente preoccupati di non commettere gli stessi errori. Ragazzi molto seri e scrupolosi, del tutto scevri dall’edonismo.

Il progetto Orb era al passo coi tempi e gli studenti di Auckland li seguivano ma non erano in numero sufficiente a poter sostenere il gruppo. Resistettero fino al 1973, una delle poche synth band zelandesi, con Riddell che suonava un sintetizzatore costruito dal già mago dell’elettronica Paul Crowther.

Sia Rayner che Riddell erano fiduciosi delle capacità del gruppo e volevano portarlo in Gran Bretagna ma gli altri ragazzi non erano preparati a correre il rischio di fallire, quindi dopo la loro esibizione al Ngaruawahia Music Festival del 1973, gli Orb si sciolsero.

E mentre Alastair Riddell in seguito raggiunse la fama nazionale come leader degli Space Waltz. Rayner, Crowther e Wilkinson divennero tutti membri degli Split Enz.

Ed eccoci alla parte dove Riddell mette insieme l’amico Eddie Rayner con Greg Clark, Peter Cuddihy, Brent Eccles e le Yandall Sisters ai cori e partorisce il disco ospite di questo articolo, quel concentrato di emozioni glam, progressive e atmosfere intimiste che va sotto il nome di Space Waltz.

Alastair Riddell & Space Waltz

In quel periodo i Roxy Music, Mark Bolan e David Bowie furono fonte di particolare ispirazione per i musicisti e i giovani del periodo, era piuttosto logico che chi avesse mire commerciali pensasse bene di sposare l’utile al dilettevole ed ecco nascere Space Waltz, all’insegna di un glam appariscente ma allo stesso tempo racchiudendo in sé un’interiorità particolare che si snoda attraverso blues, soul, rock’n’roll, psichedelia per approdare ad una ballad talmente emotiva da far drizzare i peli sulla nuca.

Mi viene da pensare ad Alastair Riddell come ad un fratello neozelandese di Alex Chilton: un artista che riesce a legare mirabilmente profonda intelligenza ed emotività a musica melodicamente e commercialmente accattivante.

L’album Space Waltz

La copertina dell’album Space Waltz

Il lato A si apre con “Fraulein Love”, un pezzo in stile Roxy; rock forte e travolgente, un bel ritornello pesante e alcuni ottimi lick di chitarra fanno da base ad un canto in stile Ferry e Riddell non ne fa mistero alcuno (“Here I say ‘ta’ to Bryan” scrive accanto al titolo nel foglio dei testi).

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Freulein Love

Si prosegue con “Beautiful Boy”, un ottimo pezzo commerciale e carino per catturare le orecchie dell’ascolatatore medio, nulla di eclatante forse ma il suo “sporco lavoro” lo fa bene.

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Beautiful Boy

E quando pensi di trovarti davanti all’ennesimo dischetto glam del periodo, ecco spuntare improvvisa ed imprevista “Seabird”, l’opera magna dell’album. Una ballata impressionante, che inizia con un solido incedere di batteria prima che entrino piano e mellotron di Tony Raynor (Raynor ai tempi era già il mago della tastiera degli Split Enz).
La canzone si conclude placandosi con il ritmo del tamburo di nuovo e i cori di mellotron. Bellissima.

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Seabird

Il lato uno si chiude con l’avviso urlato “Watch out young love!” della hit del gruppo, ‘Out on the Street’ (nel titolo scorgo un altro flebile richiamo ai Big Star di “In The Streets”), in una versione diversa da quella del singolo, in particolare sul ritornello.

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Out On The Street

Il secondo lato si apre con ‘Angel’ che è un praticamente un numero da musical dal forte gusto di rock progressivo.
La canzone in sé è bella e molto drammatica e se lanciata a volumi alti ha quasi un adrenalinico richiamo alla “Raging River Of Fear” dei Captain Beyond.

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Angel

Segue ‘Open Up’, è un bel pezzo al sapor di Ziggy. Introdotto dal solo di chitarra che si appoggia su arpeggi di piano, si fa poi forte del Mellotron che ci accompagna nel coro del ritornello e, attraverso il bridge, al finale.

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Open Up

Poi arriviamo alla bel rock orecchiabile e compatto di ‘Scars of Love” che si snoda attraverso un bella frase di chitarra e una solita batteria con campanaccio. Ispirata fortemente a “Queen Bitch” e “Suffragette City” è però molto più articolata, entusiastica e viva.

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Scars Of Love

“And Up to Now” volendo è un altro pezzo da musical, duro ma piuttosto allegro stavolta e il bell’assolo di organo di Raynor rende il tutto ancora più brillante. Molto bella ed orecchiabile.

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And Up To Now

L’album si chiude con “Love the Way he Smiles”, che musicalmente è il più interessante e vario del disco, una strana suite con i cori soul psichedelici delle Yandall Sisters su uno sfondo di voci di folla incitante e un lavoro agitatissimo di Raynor al piano.

Per essere un disco fortemente ispirato al glam di Bowie (a suo volta eterno “ispirato” al lavoro di tanti altri, particolarmente Roxy Music), direi che in moltissimi punti lo sorpassa in maniera netta e la qualità compositiva è assolutamente superiore.

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Love The Way He Smiles

I testi di Riddell sembrano molto urbani nei contenuti e la musica rafforza questa impressione. Duri, quasi deprimenti nei contenuti, trattano temi simili ad alcuni dei pezzi di Bowie.

Tutto sommato è davvero un ottimo debutto. L’unico dispiacere è la pessima qualità di registrazione, un lavoro davvero scarso di produzione del quale si può incolpare la cialtroneria della EMI e, nonostante il remastering, si percepisce a volte una terribile accozzaglia e la batteria ha una compressione assurda che rende i piatti un “vai e vieni” pieno di frequenze acidissime.
Un vero peccato, per un disco che è una pietra miliare della musica zelandese e non solo e che è stato suonato con perizia e passione da parte del gruppo.

Gli Space Waltz, condividendo bassista e tastierista con gli Split Enz, suonarono spesso assieme dal vivo e a Riddell fu chiesto ben due volte di sostituire i chitarristi defezionari ma lui rifiutò sempre e alla fine il posto fu preso da Neil Finn.

Dopo Space Waltz, Riddell adottò uno stile elegantemente sobrio, si trasferì a Los Angeles e in Gran Bretagna. Tornato in patria soffrì il cambiamento della scena musicale e partì di nuovo per la Gran Bretagna, rientrò nell’89 portandondosi dall’Europa la bella moglie Vanessa, continuò a fare musica e iniziò la sua carriera nel cinema anche come regista.

Ora Riddell, il batterista Brent Eccles, Chunn e Rayner – la formazione originale del tour – si sono riformati per un concerto.

E hanno registrato un nuovo album.

Il retro copertina e il vinile di Space Waltz

CLICCA E GUARDA L’APPARIZIONE TV DEGLI SPACE WALTZ NEL 1974 CON “OUT ON THE STREET”!

Lato A

1. Fraulein Love
2. Beautiful Boy
3. Seabird
4. Out On The Street

Lato B

1. Angel
2. Open Up
3. Scars Of Love
4. And Up To Now
5. Love The Way He Smiles

Produced by Alan Galbraith

Space Waltz:

Alastair Riddell: Chitarre, Sintetizzatore, Voce solista
Tony Raynor: Piano, Hammond, Mellotron, Sintetizzatore
Greg Clark: Chitarre
Peter Cuddihy: Basso
Brent Eccles: Batteria
The Yandall Sisters: Cori

Alastair Riddell in tempi recenti

Alastair Riddell con la moglie Vanessa

Ringraziamenti

Si ringrazia Alastair Riddell per molte delle immagini presenti nell’articolo, prese dalla sua pagina Facebook personale.

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Epiphone JDM LPC-90, la Gibson del Sol Levante

By Non categorizzatoNo Comments

Iniziamo l'anno in bellezza con questa splendida perla nera che arriva dal Sol Levante: una rara Epiphone LPC-90, la Gibson Les Paul Custom giapponese.

Lorenzo

La Gibson iniziò la produzione di strumenti in Giappone nel 1969, quando vi spostò la sede di produzione della Epiphone, che fu affidata alla fabbrica Matsumoku Industrial Co. (allora si chiamava ancora Matsumoto Mokkou, da cui deriva appunto il nome composto Matsumoku), situata nella città di Matsumoto.

La Matsumoku era inizialmente produttrice di mobilio in legno per le macchine da cucire Singer e in seguito si convertìi alla fabbricazione di chitarre elettriche nel 1962 grazie ad un accordo commerciale preso con Yuichiro Yokouchi, già fondatore della Fujigen, anch’essa basata a Matsumoto.

Quando la Gibson arrivo alla Matsumoku, questa era già famosa come produttrice di strumenti per marchi come Aria, Westone, Ibanez, Greco e nella sua storia di produttrice di chitarre di qualità produsse per oltre trenta diversi marchi, fino alla chiusura nel 1987, anno successivo alla fine dei suoi rapporti con Gibson.

Si può quindi immaginare che la perdita di un cliente così grande abbia influito non poco negativamente sul già oneroso investimento che la fabbrica aveva fatto per rinnovare i suoi impianti proprio nel 1986: aria di sabotaggio? Chissà…

La Gibson decise comunque di affidare il manageriato del suo nuovo marchio “Orville by Gibson” alla Yamano Gakki, la quale era già stata a guida della produzione della Fender Japan assieme alla Kanda Shokai.

Il marchio, derivato dal nome del fondatore della Gibson stessa, fu creato per arginare la perdita commerciale data dagli alti numeri di vendita delle copie giapponesi di alta qualità e prezzi competitivi, sia nel mercato domestico che in esportazione. Di conseguenza produrre una linea di Gibson a costi minori direttamente nel paese di vendita e riservata esclusivamente al mercato interno, era parsa la soluzione migliore.

La Produzione delle ObG iniziò nel 1988, strumenti di alta manifattura e qualità di materiali, rifiniti alla nitro e che montavano pick-up Gibson, e nel 1989 inziò anche la produzione delle “Orville”, una linea più economica verniciata in poliuretano e montante pick-up di produzione giapponese. Se gli strumenti Orville erano commercializzati tra i 70.000 e 80.000 ¥, gli Orville by Gibson erano venduti a prezzi compresi tra i 100.000 e i 200.000 ¥.

La produzione di questi strumenti ebbe un successo notevole ma subì comunque un arresto e, mentre le ObG vennero cessate nel 1995, le Orville si fermarono nel 1997 per fare spazio alle Epiphone Japan, che venne prodotta in due serie diversificate: la Elitist con pick-up Gibson, prodotta soprattutto per l’estero, e la Elite JDM (Japan Domestic Market).

Di queste ultime, non si sa molto a parte che vennero prodotte sia dalla Fujigen che dalla Terada, sempre esclusivamente per il mercato interno e sempre con finitura in poliuretano e gli stessi pick-up delle Orville. Pur essendo stati in produzione fino al 2002, sono strumenti abbastanza rari e sono ancora più interessanti in quanto tra i pochissimi esistenti a marchio Epiphone ma con la tipica paletta di forma Gibson.

Nella linea delle JDM venivano prodotti i modelli Les Paul nelle versioni Junior SC e Dc, Special, Standard e Custom, i modelli SG, quelli 335 e i bassi Thunderbird e EB.
Le Custom erano in 3 versioni, LPC-80 (rosewood), LPC-90 (ebony) e LPC-95L (mancina), oggi a Classic2vintage abbiamo il piacere di avere gradita ospite una splendida LPC-90, ovvero la versione con tastiera in ebano.

E’ una Fujigen e l’anno di produzione è il 1999, è di proprietà dell’amico Mark R. ed è arrivata a lui dalla lontana Osaka affrontando un viaggio da odissea di 4 mesi in mare a causa del blocco dei corrieri che rendeva impossibile la spedizione aerea. Ma alla fine è arrivata miracolosamente sana e salva, proprio quando lui la credeva ormai naufragata su qualche isola lontana.

Questa bella perla nera è in condizioni eccellenti e completamente originale, tranne per un upgrade dei potenziomentri e del pick-up al ponte con un Seymour Duncan SH-4 JB e continuerà a rockeggiare nelle mani di Mark ancor a per molto.

…MA COME SUONA?

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Colpo Di Stato (1969)

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Nel 1969 Luciano Salce, con la sua solita attitudine caustica, mette in scena una vicenda grottesca sotto forma di satira fantapolitica. Il risultato è sorprendente e azzeccatissimo: il nostro “Pilantra”, con la collaborazione di Ennio De Concini al soggetto e sceneggiatura, mescola spionaggio, commedia e osservazione sociale e politica con commento di un Coro greco e spunti postmoderni che vanno dal mockumentary al metacinema.

Daniele Pieraccini

«Libertà e democrazia con un poco di caviale».

Se c’è un film che merita una revisione e un riconoscimento del suo valore è il poco conosciuto, restaurato nei primi anni 2000 e poi perso di nuovo, Colpo di stato di Luciano Salce.

Un opera avanti anni luce rispetto al coevo cinema (non solo) italico, che spinge all’estremo il grottesco di una società tragicomica attraverso l’impostazione stessa della story, l’uso della macchina da presa (grandangoli e macchina a spalla sono ricorrenti), il montaggio e la colonna sonora.

“Lei, Onorevole, per chi vota?”

“Ma io voto per l’Italia! Per il bene del popolo!”

La vicenda anticipa le elezioni del 1972, ipotizzando una schiacciante vittoria del PCI con conseguente prospettiva di ribaltamento dell’ordine sociale e politico.

Attraverso una galleria di personaggi e situazioni, che comprendono una serie di personaggi politici che ricordano quelli reali dell’epoca, si ricostruiscono le ore della votazione e le conseguenze dell’esito, emanato da un super computer fornito dagli USA.

Alberto Plebani interpreta il Presidente del Consiglio

“Salce vegetale”

La prima parte della pellicola è frenetica e disorientante, tra carosello e cinegiornale. Varie scene apparentemente estemporanee si affastellano l’una sull’altra dando l’impressione di una farsa goliardica e un po’ naif, alternate ad un coro operistico che commenta gli avvenimenti.

Già le interviste ed i reportage e la presenza di Salce nella parte di sé stesso però sfondano da subito la quarta parete, suggerendoci che da tutta quella frenesia potrebbe nascere qualcosa di estremamente interessante.

Infatti iniziano a susseguirsi scene spassose e riuscitissime, come quella del ministro nella palude e quella della suora che accompagna un cadavere al seggio elettorale.

“Tra moda ed elezioni ci sono molti punti di contatto”

Poi la vicenda, sempre commentata dal Coro greco, muta pelle. Si abbassa il ritmo ma lo spasso non diminuisce, convivono verosimiglianza e assurdo e l’insieme è compatto nella sua lungimiranza storico-antropologica.

La satira di Salce si fonda su una cognizione piuttosto esatta delle strutture politiche e sociali italiane, e lo conduce ad una sconsolata ed allo stesso tempo divertente presa d’atto di come il popolo non possa che essere ingannato da chi guida queste strutture.

Il regista romano non risparmia niente e nessuno, demolendo a destra, al centro e a manca.
Il grottesco che mette in scena ha una sua forza poetica, ci fa ridere spingendo personaggi e situazioni fino ad un assurdo che diviene più reale della realtà stessa, preconizzando i disastri a venire che colpiranno il nostro Paese.

Il fotografo Matruch scatta continuamente per tutto il film, qua si intravede Janet Agren, allora modella e attrice.

“Però voi americani siete dei cervelloni…perché non fate la rivoluzione?”

“Son of a bitch!”

L’atmosfera ed il tono dei personaggi ci fanno pensare ad un Dottor Stranamore in versione nostrana; le assonanze diventano evidenti quando il personale civile e militare dell’ambasciata statunitense, sotto pressione per il risultato elettorale, si rilassa in una sala di proiezione ammirando soddisfatto le riprese di esplosioni nucleari.

La spietata satira di Salce, oltre ai partiti di tutto l’arco costituzionale, prende di mira anche i poteri che, in teoria, dovrebbero essere super partes: la Chiesa, schierata ovviamente con lo scudocrociato ma pronta alla convivenza con il potere, di qualsiasi stampo sia, e la televisione.

Spassosa e profetica è la vicenda del dirigente RAI, che dopo aver temporeggiato con documentari sui fiori del Molise e sul Brunelleschi pur di non mostrare gli esiti elettorali, capisce l’andazzo e cerca di regolarsi di conseguenza spingendo una cantante invitata in studio a cambiare immagine e repertorio “in corsa” ed incitandola a cantare canzoni sempre più “di protesta, anarchiche, di sinistra!”.

Dimitri Tamarov è Matruch, il fotografo

“Non abbiamo colbacchi, signor Generale!”

Oltre ai politici, con il loro linguaggio vacuo e con i loro tatticismi paradossali e ipocriti, il film non risparmia bordate ai nostri “alleati” statunitensi e ai loro portenti tecnoscientifici, prontamente rinnegati all’occorrenza.
Sferzate anche alle figure militari e alla classe più agiata che si da alla fuga sugli yacht presa dal terrore della vittoria delle classi “inferiori”.

Non sfuggono all’ispirazione distruttiva di Salce le persone comuni: memorabili l’assalto alla merceria e l’amplesso continuamente frustrato di Orchidea De Santis e Silvano Spadaccino (lei si concede solo se vince la DC).

Ma chi esce più ridicolizzata è la democrazia stessa, con il suo inutile rito sotteso del voto popolare.

Di carne al fuoco il regista romano ne mette veramente tanta in quest’opera, dispiegando una galleria di personaggi piccoli, cinici e pavidi, che compongono un puzzle apocalittico di rassegnata ferocia.

I due fidanzati, Orchidea De Santis e Silvano Spadaccino

“Col cavolo!”

Alla fine la stagnazione prevale: una vittoria dei comunisti avrebbe scontentato tutti e messo in pericolo la pace. Per cui la sinistra rinuncia a governare e preferisce proseguire la “lotta” all’opposizione, per proprio bieco tornaconto ed in barba alla volontà del popolo.

L’epilogo della vicenda è tremendamente realistico e italiano, e basta da solo a spiegare il perché questo film interessantissimo sia stato criticato, boicottato e poi dimenticato per decenni.

Copertina della colonna sonora del film

UNA SCENA DEL FILM “COLPO DI STATO”

“Colpo Di Stato” (IT 1969) di Luciano Salce

Regia: Luciano Salce
Soggetto: Ennio De Concini
Sceneggiatura: Ennio De Concini
Casa di produzione: Vides Cinematografica
Fotografia: Luciano Trasatti
Montaggio: Sergio Montanari
Effetti speciali: Giancarlo Urbisaglia
Musiche: Gianni Marchetti
Scenografia: Giorgio Giovannini

Personaggi e interpreti

Luciano Salce: se stesso
Dimitri Tamarov: Matruch, il fotografo
Raffaele Triggia: Segretario del PCI
Alberto Plebani: Presidente del Consiglio
Amedeo Merli: Giordano
Anna Maria Capparelli: Moglie di Giordano
Bebert Marboutie: Presidente degli Stati Uniti
James E. Mishener: Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia
Vittorio Ripamonti: Membro della segreteria del PCI
Giovanni Rionni: Claudio Villa
Orchidea De Santis: La fidanzata
Steffen Zacharias: George Bradis, l’inventore del calcolatore
Silvano Spadaccino: Il fidanzato di Anna Ferretti
Anna Casalino: Anna Ferretti
Giuseppe Ravenna: Generale dei Servizi
Luigi Valanzano: Politico del PCI
Janet Agren: Fotomodella

 

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Yume, Yume No Ato (1981) / Dream, After Dream – Journey (1980)

By Cinema, Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Questa è di nuovo la storia di un misterioso film perduto e della sua splendida soundtrack realizzata dai Journey. "Yume, Yume No Ato” è un mistero su pellicola, una favola esoterica che fu realizzata dallo stilista giapponese Kenzo Takada nel 1980

Lorenzo

Locandina del film

“Yume, Yume No Ato” è un mistero su pellicola, una favola esoterica che fu realizzata dallo stilista giapponese Kenzo Takada nel 1980.

La storia ufficiale narra che alla fine del 1978 il produttore Hiroaki Fujii inviò una missiva a Kenzo Takada tramite un’attrice: «Caro signor Kenzo Takada, ho saputo che lei è molto interessato al cinema e mi chiedevo se le sarebbe piaciuto lavorare con me a una produzione interessante».

Un’altra storia, ormai scomparsa da anni e quindi non più verificabile, parlava di un coinvolgimento anche di Salvador Dalì e altri esponenti della nobiltà francese e ispanica.

Comunque sia Kenzo si diceva non in grado di dirigere un film ma il signor Fujii fu talmente entusiasta ed insistente che lo stilista finì col cedere, diventando al tempo stesso soggettista, costumista, direttore artistico e regista.

Kenzo si ispirò ad un mondo fiabesco come quello de “I racconti della luna pallida d’agosto” di Kenji Mizoguchi: un giovane tessitore incontra una coppia di bellissime sorelle in riva ad un lago. La sorella maggiore si chiama Tsuki (Luna) e la sorella minore si chiama Yuki (Neve). Il giovane è attratto dall’immagine e dagli spiriti ammalianti delle sorelle ed è completamente alla loro mercé.

Kenzo con Anicée Alvina (Tsuki)

Come location fu scelto il Marocco, come mix di culture al crocevia tra Oriente e Occidente. Nel luglio 1980 la troupe si diresse a Zagora, vicino al deserto del Sahara. Era un luogo vasto, con montagne bruno-giallastre e deserto che si estendeva a perdita d’occhio. Le temperature diurne arrivavano a raggiungere i 50 °C e Kenzo racconta che in un solo giorno abbiano consumato 250 bottiglie da 1,5 litri di Evian.

Le riprese si rivelarono una difficoltà dopo l’altra. Gli attori erano per lo più italiani e francesi e lo staff prevalentemente giapponese, quindi problemi di comunicazione impedivano di procedere senza intoppi.

Oltre al caldo da svenimenti ci furono anche incidenti di percorso inaspettati come quando l’unità artistica rimase impantanata in una palude senza più riuscire ad uscirne o una scena in cui un cavallo condotto dal protagonista doveva crollare per la fatica ma si rivelò resistente all’anestetico perchè i cavalli marocchini mangiano regolarmente cannabis selvatica e quindi il farmaco risultò del tutto inefficace.

Il budget di produzione era di 400 milioni di yen. Per la colonna sonora Kenzo voleva i Journey e, grazie agli sforzi di Fujii, il gruppo accettò rinunciando a un tour europeo.

Anicée Alvina (Tsuki)

Il titolo originale del film, “Yume, Yume No Ato” (Il Sogno, dopo il Sogno), venne tradotto in inglese e francese e la Prima, con estrema ansia di Kenzo, avvenne a Parigi:

«I parigini hanno un senso dell’estetica estremamente spietato, era il posto peggiore e lo sapevo.
Vennero 300 persone e, quando scoppiò una risatina durante una scena critica che avrebbe invece dovuto far commuovere il pubblico fino alle lacrime, capii che non ero riuscito a creare l’atmosfera che volevo. Ad un certo punto il pubblico iniziò ad alzarsi e ad andarsene nel bel mezzo del film.
Fu un fiasco totale. E fu tutta colpa mia. Avevo causato notevoli problemi a tutte le persone coinvolte, non da ultimo a Fujii.»

Da persona gentile e d’onore Kenzo si assunse quindi ogni responsabilità e, rimasto profondamente ferito dalla maleducazione del pubblico francese, decise di bloccare la distribuzione del film, il quale è stato trasmesso solo un paio di volte sulle tv giapponesi ed è scomparso, a quanto pare finora.

Anicée Alvina (Tsuki)

Le musiche

I Journey erano allora una delle band di maggior successo sia discografico che live della CBS, avevano prodotto tre album di jazz progressivo per poi acquisire un cantante e virare verso un AOR commerciale di grande stile ed erano reduci dal successo dell’album “Departure”, che si era piazzato all’ottavo posto della classifica Billboard 200 degli album.

La colonna sonora di Yume, Yume No Ato (Dream, After Dream appunto) venne realizzata nello spazio di tempo tra “Departure” e “Escape” e fu il settimo disco dei Journey, rappresentando un parziale ritorno alla vena progressive degli inizi del gruppo.

È l’ultimo album con il tastierista e membro fondatore del gruppo Gregg Rolie e delle sue nove tracce solo tre sono cantate, mirabilmente, da Steve Perry mentre le restanti sono strumentali. Gli arrangiamenti orchestrali furono curati dal padre di Neal Schon, Matthew, e “Destiny” rappresenta a tutt’oggi il brano più lungo finora registrato dai Journey.

Le registrazioni avvennero presso gli studi CBS/Sony Shinaromaki di Tokio tra il 13 e il 22 ottobre 1980. Al periodo di registrazioni venne abbinato un tour giapponese che sfociò poi in un paio di brani inclusi nel loro seguente album “Captured” e registrati proprio la sera del 13, data finale al Koseinenkin Hall di Shinjyuku.

La musica è estremamente ispirata e ben suonata, si percepisce tutto l’impegno e la passione di una band che una volta tanto è libera di creare e lavorare fuori dalle regole commerciali alle quali è normalmente costretta.

Le composizioni si presentano come opere separate, dove la loro cinematicità si riflette nell’uso generoso della sezione degli archi, che conferisce loro un carattere misterioso etereamente romantico, sempre interamente nel contesto dell’estensione vocale di Perry, il quale canta come mai abbia fatto prima e dopo di allora.

I ritmi rock più duri sono rari ma nelle dinamiche emotive Dream After Dream supera qualsiasi cosa i Journey abbiano mai realizzato. I lunghi passaggi dei lenti e meditati assolo di chitarra sottolineano perfettamente il paesaggio dei sogni.

Il disco fu stampato solo per il Giappone, venne pubblicato il 10 dicembre 1980 e rappresentò una sorpresa sia per i fan del gruppo che per la critica entusiasta quando, anni dopo, ne emerse l’esistenza grazie ad internet (Negli Usa ne era silenziosamente uscita solo una versione in cassetta nel 1985) e alle importazioni dal Giappone.

Del film invece, ancora nessuna traccia.

Se non che…

L’intero album “Dream, After Dream” dei Journey

La sinossi del film

Un giovane tessitore senza nome (Enrico Tricarico, già visto nella parte del direttore del “Villaggio 27” in “I viaggiatori della sera” di Ugo Tognazzi) parte alla ricerca della felicità. Un saggio indovino (Léo Campion) dice al giovane che la troverà sulla riva opposta di un lago a sud, lui ascolta il consiglio e vi si dirige.

Dopo aver attraversato il deserto l’uomo arriva al lago e trovando una barca abbandonata nelle vicinanze salpa a tarda notte.

Al sorgere del sole egli perde conoscenza e al risveglio scopre di essere stato portato in un antico castello all’estremità opposta del lago. Questo castello ospita due sorelle misteriose di nome Tsuki (Anicée Alvina) e Yuki (Anne Consigny), l’ultima delle quali lo aveva trovato e portato in salvo.

Sebbene affascinato da Yuki l’uomo si innamora di Tsuki che lo invita a fare l’amore. L’uomo inizia a tessere per entrambe ma mentre i tessuti che crea per Tsuki sono particolarmente belli, Yuki trova che i suoi siano inferiori.

La brochure del film

Enrico Tricarico (il giovane)

Anicée Alvina (Tsuki)

Anne Consigny (Yuki)

Un giorno Tsuki e l’uomo si incontrano fuori dal castello e fanno l’amore su un letto di fiori. Al loro ritorno Yuki viene a sapere della loro storia d’amore e ne è rattristita. Le due sorelle iniziano a litigare e l’uomo si sente in colpa per l’animosità che ha causato.

Come risultato della lite Tsuki decide che dovrà uccidere l’uomo e lo invita a letto un’ultima volta. Tuttavia, avvolta nel suo abbraccio, scopre di non riuscire a pugnalarlo.

Fugge quindi sulla terrazza seguita dal giovane che osserva con soggezione Tsuki mentre lei si trasforma lentamente in un uccello, spiega le ali e prende il volo. Yuki la imita e, mentre vola via, in lontananza sussurra con rammarico all’uomo che pur essendo troppo bello e meraviglioso per poter essere amato da loro, entrambe si erano comunque innamorate di lui.

L’uomo grida al cielo per confessare il suo vero amore e viene lasciato da solo ad affrontare il proprio destino.

Anicée Alvina (Tsuki) si trasforma in Uccello.
La passione e l’accuratezza simbolica di Kenzo si spinse fino allo scegliere attrici di due segni zodiacali d’aria per il ruolo di Tsuki e Yuki: Acquario la Alvina e Gemelli la Consigny…

Il progetto fu annunciato in una conferenza stampa il 16 giugno 1980 e fu una coproduzione giappo/francese poiché il cast era composto in buona parte da attori francesi mentre i membri della troupe erano di entrambe le nazionalità.

Kenzo con Anicée Alvina (Tsuki), Liliana Gerace (governante), Anisée Alvina (Tsuki), Anne Consigny (Yuki) ed Enrico Tricarico (il giovane)

Kenzo Takada scrisse il soggetto del film insieme a Xavier De Castella, suo compagno di allora, e Yoshio Shirasaka fu lo sceneggiatore.
Hiroaki Fuji e Tatsuo Funahashi ne furono i produttori,
Tatsuji Nakashizu fu lo scenografo,
Senji Horiuchi e Julien Cloquet furono i tecnici del suono,
Setsuo Kobayashi fu direttore della fotografia.

Kenzo con cast e troupè

Il film uscì ufficialmente il 24 gennaio 1981 con una durata di 101 minuti.
Il titolo francese è “Rêve, après Rêve” ovvero sempre “Il sogno, dentro il Sogno”.
Si intuisce che la natura del film fosse molto intimista e metaforica e che di conseguenza richiedesse una certa sensibilità e predisposizione delle quali non tutti possono essere dotati, mentre l’educazione dovrebbe essere cosa comune a tutti.

A causa della scortesia del pubblico parigino Kenzo si sentì talmente umiliato che rifiutò sempre di pubblicarlo in home video o dvd e dopo il suo decesso le speranze di poter recuperare una copia di questo film sembravano ancora più vane ma negli ultimi mesi ne è incredibilmente saltata fuori una copia in DVD con menù interattivo che è in possesso di un signore americano e che pare sia stata estratta da una VHS, forse registrata da uno dei rarissimi passaggi tv giapponesi.

Non è chiaro se questa copia verrà mai messa a disposizione del pubblico ma forse la casa produttrice TOHO-TOWA Company si deciderà un giorno a ristampare il film e distribuirlo.

 

Importante Aggiornamento:

Alcuni mesi dopo l’uscita di questo articolo, fortunatamente un collezionista è riuscito a scovare e mettere in condivisione una copia non completa del film che, anche se mancante di circa una mezz’ora, riesce a rendere un’idea del film a chi come il sottoscritto stava cercando di poterlo visionare da decenni.

CLICCA E GUARDA LA RARISSIMA COPIA DEL FILM MESSA IN CONDIVISIONE DAL COLLEZIONISTA AMERICANO!

Sono disponibili anche i sottotitoli in italiano a cura della redazione di Asianworld.it che ringraziamo caldamente per il loro lavoro!

“Yume, Yume No Ato” (Jp/Fr) di Kenzo Takada

Regia: Kenzo Takada
Soggetto: Kenzo Takada, Xavier De Castella
Sceneggiatura: Yoshio Shirasaka

Costumi: Kenzo Takada
Scenografia: Tatsuji Nakshizu
Fotografia: Setsuo Kobayashi
Suono: Senji Horiuchi, Julien Cloquet

Produttore:Hiroaki Fujii, Tatsuo Funahashi

Musiche: Journey (Neal Schon: chitarre, cori – Gregg Rolie: tastiere, armonica – Ross Valory: basso, pianoforte, flauto – Steve Perry: voce e cori – Steve Smith: batteria e percussioni) – Produzione: Kevin Elson

Personaggi e interpreti

Enrico Tricarico: Il Giovane
Anicée Alvina: Tsuki
Anne Consigny: Yuki
Léo Campion: Veggente
Liliana Gerace: Governante

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I Viaggiatori Della Sera (1979)

By Cinema, Narrativa e saggistica, Personaggi StoriciNo Comments

Per il suo commiato da regista, Tognazzi torna sugli oscuri territori distopici e sceglie un racconto che del commiato fa il suo soggetto: "I viaggiatori della sera" di Umberto Simonetta.

Lorenzo

Articolo di Daniele Pieraccini

(contiene spoiler)

«E se allora essere umani non fosse più l’unico requisito richiesto per avere diritto di vivere?
E se un giorno si ipotizzasse che degli esseri umani potrebbero, in base alle loro prerogative di medici, politici o giudici, decidere se la vita di un altro essere umano è degna o meno di essere vissuta?».

da “La morte moderna”, scritto nel 1978 da Carl-Henning Wijkmark

Ad oltre un decennio di distanza da Il fischio al naso, Ugo Tognazzi torna a stupire con un’altra opera distopica, tratta dal romanzo omonimo di Umberto Simonetta.

Siamo ancora nel territorio della critica sociologica: nel film del 1967 il tema principale era il mercato della sanità, stavolta l’attore e regista cremonese prende di mira la gestione da parte del potere delle risorse ambientali, economiche e pure umane.

Pensate quanto moderne fossero le “visioni” di Tognazzi, adesso che stiamo addentrandoci sempre più in una “Nuova Normalità” di diritti flessibili e revocabili, di emergenza permanente, di capovolgimento del senso morale, di azzeramento di ogni senso critico, di indottrinamento capillare.

Copertina del racconto di Umberto Simonetta

Nel mondo futuro descritto da Simonetta si pubblica un solo giornale, si chiede il voto per i bambini di 13 anni e il potere è gestito in maniera inflessibile dai giovani.
Poliziotti vestiti di bianco vigilano come Esercito di Salute Pubblica, mentre orwelliani
altoparlanti ricordano continuamente regole e prescrizioni.
Una legge impone (secondo una formula drammaticamente attuale di “obbligo volontario”) che una volta raggiunta l’età di 49 anni i cittadini debbano abbandonare famiglia e società per trasferirsi in assurdi villaggi turistici, apparentemente per andare in vacanza a tempo indeterminato.

Siamo dalle parti di La fuga di Logan, film statunitense del 1976, diretto da Michael Anderson e anch’esso ispirato ad un romanzo; si parla infatti di organizzazione di vita “bioecologicamente” bilanciata, completamente pianificata e gestione della curva demografica attuata mediante controllo delle nascite ed eutanasia mascherata da cerimonia o premio.

“Chissà se fra di voi c’è qualcuno che si ricorda di quando potevamo ancora stare tutti insieme…”

Orso Banti, in arte Orso scoppiato (Tognazzi) è un dj radiofonico alla sua ultima trasmissione.

Per lui e per la moglie coetanea Nicki (una bravissima Ornella Vanoni) è giunta l’ora del “pensionamento” nel villaggio vacanza. Lo spazio radio di Orso, trasgressivo e scurrile, sarà occupato da notiziari di pubblica utilità, condotti da giovani burocrati, con aggiornamenti quotidiani del Grande Contatore sul numero degli abitanti del pianeta.

I giovani sono grigi e amorfi, sobri, educati e perfettamente domati, vestiti in maniera formale ma anonima e vivono seguendo rigidi princìpi di ordine. Al contrario i vecchi sono legati ad un altro modo di vivere, più spontaneo, vestono colorato e trasandato ed hanno voglia di far caciara e divertirsi.

“Nonno, perché dici tutte quelle banalità e sconcezze alla radio?”

Orso si preprara a partire per la “vacanza”

Nicky è stata fermata da uno spione ufficiale che l’ha ripresa per aver lasciato cadere un giornale a terra e pretende di controllarle il documento d’identità

Mentre Orso e la moglie preparano i bagagli per il viaggio di non ritorno, dalla conversazione in famiglia tra loro, i figli ed il nipote piccolo apprendiamo molte cose di questo “nuovo mondo”:
per procreare occorre una specifica autorizzazione da parte del potere centrale; ogni cittadino è dotato di tessere per accedere ad ogni tipo di servizio; la sterilizzazione è incentivata e incoraggiata costantemente; al quarantanovesimo anno di età è obbligatorio portare una fascia al braccio.

Soprattutto, dai dialoghi tra familiari appare netta la distanza di pensiero che corre tra le generazioni e che vanifica ogni tentativo di comprensione. I figli, compitissimi e ligi al dovere, considerano i genitori dei cialtroni senza speranza, irritanti ed irresponsabili.

Per Orso e Nicki i figli sono eccessivamente inquadrati e inibiti e non sanno cosa voglia dire godersi la vita. Un rovesciamento di ruoli che appare grottesco ai nostri occhi. Ancor più grottesco appare il piccolo Antonluca, nipote dei due protagonisti, totalmente plasmato dalla propaganda, un piccolo burocrate che rimprovera continuamente i nonni usando toni e concetti che non appartengono ad un bambino.

“Orso, noi siamo la prima generazione che va al villaggio…lo senti loro come ragionano? sono cresciuti con quest’idea e così i loro figli”

La famiglia parte dunque per raggiungere il villaggio numero 27, al quale sono destinati Orso e Nicki. Figli e nipote li accompagnano, dando seguito a discussioni e conflitti e non celando più di tanto la voglia di chiudere in fretta la questione e di tornarsene alla loro vita. Veniamo a sapere che i figli neanche si augurano di arrivare all’età della “vacanza”, sono talmente improntati all’efficienza che sfociano nell’autoresponsabilizzazione suicida.

Lungo il tragitto, in un paesaggio brullo e arido, la presenza della propaganda e del potere eco-sanitario è costante. Pattuglie di giovanissimi poliziotti dell’ESP che sbucano fuori ovunque, cartelloni inquietanti che fiancheggiano l’autostrada deserta (“siamo troppi” “sterilizzatevi” “ordine è civiltà”) e una stazione di servizio deserta con il barista-tutore dell’ordine che serve i clienti dando loro le spalle ma scrutandoli tramite uno schermo, mentre bevande e caffè vengono prodotti da un macchinario impersonale.

Persino la marijuana che Orso e Nicki fumano è fornita dallo Stato.

Prima di arrivare a destinazione c’è una digressione in una oasi di verde, nella quale si riuniscono per una festa con musica, droghe e vino tutti i futuri ospiti del villaggio, sempre sotto continua e pressante sorveglianza dei giovani poliziotti vestiti di bianco. Quella che procede in allegria come un’ultima commemorazione di un passato felice si conclude tragicamente con il plateale suicidio dei due gemelli proprietari del fondo che ospita la festa. Anch’essi condannati alla vacanza e ad abbandonare di conseguenza la tenuta in cui hanno trascorso la vita preferiscono la morte immediata.

I timori già esistenti in molti dei futuri vacanzieri riaffiorano, il tono della vicenda si fa sempre più crepuscolare.

Festa con suicidio

“Qui lo fanno tutti e l’autorità non dice niente, anzi lo considera un alto servizio sociale”

Arrivati al villaggio, moderno ed asettico, una prigione a cielo aperto nella quale possono muoversi liberamente ma senza uscire dai confini, Orso e Nicki apprendono da altoparlanti le regole del posto e fanno la conoscenza degli altri ospiti e ritrovano vecchie conoscenze.

Ben presto la coppia, anche se continua a convivere nello stesso appartamento, entra in crisi. All’interno dell’istituto tutti tradiscono tutti, c’è un furore del sesso che ha preso il sopravvento su tutti i rapporti umani; vecchi e vecchie contrattano prestazioni sessuali con giovani inservienti freddi come automi, che si accontentano, in cambio, di un maglione o di una collana.

Nel nuovo ordine infatti la promiscuità sessuale è incentivata ma tecnicizzata e slegata da ogni pulsione vitale o affettiva (come già preconizzava Huxley ne Il mondo nuovo).

Gli ospiti vi si dedicano continuamente più per noia che per voglia, ostentando una frenesia che è solo ricerca di stordimento.

“Chiedo l’autorizzazione al disbrigo di una pratica sessuale”

L’evento più atteso e temuto al tempo stesso è la periodica lotteria, alla quale tutti gli ospiti sono obbligati a prendere parte. Si tratta di un bizzarro incrocio tra mercante in fiera e tombola, con degli strani tarocchi, ed il premio è la partenza immediata per una crociera che nessuno sogna: infatti mai i vincitori hanno fatto ritorno al villaggio, dal che si deduce che in realtà vengano soppressi.
Il fatto è accettato con rassegnazione dagli ospiti, che continuano a svagarsi dedicandosi al sesso, unica vera attività consentita.

Orso fa amicizia con Bertani, quello che alcuni oggi definirebbero – sbagliando termine – un complottista, che asseconda lo spirito ribelle e solidale dell’ex dj. Mentre gli altri ospiti vivono sospesi tra obbedienza e fatalismo, i due non sono intenzionati ad accettare il destino che altri hanno deciso per loro e vogliono preparare una fuga.

Intanto i legami coniugali e affettivi si allentano, anche in previsione di future, dolorose separazioni.

Anche Orso, seppur inizialmente riluttante a tradire la moglie, si lascia andare a una relazione con un’addetta al campo, Ortensia, indirizzato nella sua scelta da Bertani. Infatti la ragazza fa parte di un movimento di giovani contro ogni privazione della libertà ed aiuta gli anziani intenzionati a scappare.

“L’ignoranza è errore e l’errore è la morte”

Per fuggire però Orso e Nicki devono passare indenni dalla lotteria successiva; consultano così Simoncini, l’ospite più longevo del villaggio che pare abbia trovato un sistema matematico per perdere sempre al gioco e quindi di non essere mai selezionato per la crociera.

Purtroppo, nonostante questo sforzo, Nicki finisce tra i vincitori ed è costretta ad imbarcarsi. In una scena straziante sul pontile i due, consapevoli che non si rivedranno mai più, si salutano con un ultimo bacio, confessandosi il loro amore.

Anche Orso, sopraffatto dal dolore e rassegnato a non fuggire più e ad aspettare il suo turno per la crociera, morirà. Ma in maniera clamorosa ed imprevista, per creare un diversivo che permetta la fuga di Bertani ed un altro ospite.

Sarà Antonluca, il nipotino, ad ucciderlo per gioco o per errore, in un vecchio zoo galleggiante abbandonato, pieno di animali imbalsamati ormai estinti

Benvenuti nella nuova normalità

Oggi capiamo perché film del genere siano stati ignorati, stroncati dalla critica o finiti presto nell’oblio, anziché essere proiettati e discussi nelle scuole.

Altrimenti adesso non vivremmo un momento storico in cui la maggioranza delle persone vive come gli ospiti del villaggio, obbedienti e rassegnati o forse vittima dell’illusione che la crociera chiamata Grande Reset sia una terra promessa anziché il mattatoio.

Opere collegate:

Libri:

I viaggiatori della sera” di Umberto Simonetta
“La fuga di Logan” di William F. Nolan e George C. Johnson
Il mondo nuovo” di Aldous Huxley
1984” di George Orwell
Quarto: uccidi il padre e la madre” di Gary K. Wolf
La morte moderna”, di Carl-Henning Wijkmark

Film:

Il fischio al naso (1967) di Ugo Tognazzi
Swiss Made 2069 (1969) di F.M. Murer
La fuga di Logan (1976) di Michael Anderson

Il film è stato ambientato nelle scene iniziali a Milano 2, per poi trasferirisi nella splendida location di Lanzarote, nelle isole Canarie.

 

LA SPLENDIDA SOUNDTRACK DI TOTI SOLER E XAVIER BATTLES CON LE IMMAGINI DEL FILM

“I viaggiatori della sera” (IT 1979) di Ugo Tognazzi

Regia: Ugo Tognazzi
Soggetto: Umberto Simonetta (romanzo), Sandro Parenzo
Sceneggiatura: Ugo Tognazzi, Sandro Parenzo
Produttore: Franco Committeri
Musiche: Toti Soler, Xavier Batllés, Santi Arisa

Personaggi e interpreti

Ugo Tognazzi: Orso Banti
Ornella Vanoni: Nicki Banti
Corinne Cléry: Ortensia
Roberta Paladini: Anna Maria Banti
Pietro Brambilla: Francesco Banti
José Luis López Vázquez: Simoncini
William Berger: Cochi Fontana
Manuel de Blas: Bertani
Deddi Savagnone: Mila Patrini
Leo Benvenuti: Sandro Zafferi
David Fernández Álvaro: Antonluca, figlio di Anna Maria
Enrico Tricarico: direttore del villaggio
Sergio Antonica: Nicola
Ricky Tognazzi: giardiniere
Carmen Russo: ragazza alla stazione radio