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Possessor (2020)

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Nel suo secondo algido e fastidiosissimo lavoro, Brandon Cronenberg continua il suo personale percorso nel capitalismo contemporaneo e le sue tare prive della minima etica e moralità iniziato con l'altrettanto fastidioso Antiviral.

Lorenzo

In un 2008 alternativo, Tasya Vos è un killer per conto di una organizzazione segreta che usa la tecnologia degli impianti cerebrali per prendere possesso dei corpi di altre persone e spingerli a commettere omicidi a beneficio di clienti paganti. Ma non si tratta di una cosa indolore per lei e dovendo imitare altre persone per lunghi periodi comincia a sperimentare un distacco dalla propria identità. Quando nell’ultimo incarico qualcosa va storto, Vos si ritrova intrappolata nel corpo di un uomo la cui identità minaccia di cancellare per sempre la sua…

Nel suo secondo algido e fastidiosissimo lavoro, Cronenberg jr continua il suo personale percorso nel capitalismo contemporaneo e le sue tare prive della minima etica e moralità iniziato con l’altrettanto fastidioso Antiviral.

Se nel suo primo film erano la vacuità della moda, la stupidità dell’influencing che portavano i giovani ormai squilibrati da una assoluta mancanza di valori e di scopi vitali a ricercare una trasfigurazione nello sfregiarsi attraverso l’acquisizione di malattie di personaggi dello spettacolo, in Possessor il discorso prosegue con il furto dell’identità e del corpo, la trasformazione e trasfigurazione dell’individuo in macchina unicamente anelante al dovere volto all’ottenimento del capitale, disposto a qualsiasi gesto pur di ottenere.

Andrea Riseborough è Tasya Vos

La lente del microscopio di Cronenberg è spietatamente puntata sulla perdita dell’identità della figura femminile e materna e la distruzione della stabilità della coppia e della famiglia. Lo scopo è un’umanità svuotata da ogni scintilla vitale e sacra, resa nichilista e isolata con ogni mezzo da chi tira le fila di una società meccanicizzata e non per questo meno putrescente: Vos è ormai un mostro senza identità individuale e sessuale che è costretto dopo ogni “missione” a ricordarsi di chi è tramite esercizi sistematici perchè ogni volta perde un tassello della propria essenza.

Una versione opposta e dileggiatoriamente ridicola del “Ricordo di Sé” di Gurdjeffiana memoria che, al contrario degli insegnamenti del Maestro che spingevano a riscoprire la propria sacra unicità, serve unicamente a preservare il funzionamento dell’uomo meccanico. L’immagine della farfalla usata come gancio per “ricordare” risulta ancora più derisoria per chi è a conoscenza del reale uso che ne viene fatto a livello simbolico e non a caso Vos finirà col perdere anche il senso di colpa per averla uccisa.

Locandina del film

Ogni passaggio del film è straniante, aggressivo e volutamente disturbante anche nella sua lentezza: si sta puntando insistentemente il dito sul baratro di cecità nel quale l’umanità sta precipitando per seguire una sparuta manica di pifferai imbecillemente deliranti in giacca, cravatta e montura rituale.

In questo senso si trova piuttosto azzeccata la Leigh, che ricopre la parte di Girder – spietato “master of puppets” di Vos – affarista e governante del potere e che allo stesso tempo, agendo da psicopompo, la condurrà fuori dal delirio emotivo confusionale nel quale è precipitata facendole abbandonare ogni seppur minimo trabocco di coscienza e amore: due mostruose “ex donne” ormai vecchie dentro e fuori, svuotate di ogni umanità, imbruttite e abbrutite dentro e fuori che si avviano, ormai raggiunta la tanto anelata sicurezza economica, verso un finale già scritto di solitudine mortale.

Scordatevi la distopia perchè, a meno di un immediato acquisto di consapevolezza, questa oggi sta diventando la realtà.

Una sequenza centrale del film. L’effetto, molto di Saul-Bassiana memoria, è stato ottenuto con metodi classici e senza l’ausilio di CGI. Cronenberg dichiara di aver tratto ispirazione dal cinema italiano di genere.

Altra cosa davvero sorprendente è la trasformazione della Riseborough, che non solo appare oggi completamente diversa fisicamente dalla fascinosa Victoria dell’Oblivion di pochi anni fa ma ha addirittura perso ogni traccia di femminilità, raggiungendo quasi uno stato androgineo che è sicuramente perfetto per la sua parte qua ma allo stesso tempo pone diversi dubbi sugli strani e improvvisi cambiamenti fisici e caratteriali dei personaggi del mondo dello spettacolo.

Forse Cronenberg sta puntando il dito anche su questo, forse ha davvero ricevuto l’eredità di tanto e scomodo padre e ne sta portando avanti l’opera.

A volte succede.

Brandon Cronenberg

“Possessor” (Canada, Gran Bretagna 2020) di Brandon Cronenberg

Regia Brandon Cronenberg
Soggetto e sceneggiatura Brandon Cronenberg
Produzione Ingenious Media, Telefilm Canada, Arclight Films, Ontario Creates, Particular Crowd, Crave, Rhombus Media, Rock Films
Interpreti Andrea Riseborough: Tasya Vos
Christopher Abbott: Colin Tate
Rossif Sutherland: Michael Vos
Tuppence Middleton: Ava Parse
Sean Bean: John Parse
Jennifer Jason Leigh: Girder
Kaniehtiio Horn: Reeta
Raoul Bhaneja: Eddie
Gage Graham-Arbuthnot: Ira Vos
Gabrielle Graham: Holly Bergman
Fotografia Karim Hussain
Montaggio Matthew_Hannam
Musiche Jim Williams
Distribuzione Elevation Pictures (Canada)
Signature Entertainment (United Kingdom)
Data di uscita

January 25, 2020 (Sundance)
October 2, 2020 (Stati Uniti e Canada)
November 27, 2020 (Gran Bretagna)

Durata
104 minuti

 

Curiosità

Il direttore della fotografia di Possessor è il regista e sceneggiatore Karim Hussain, già autore di Subconscious Cruelty e Ascension, film assai noti tra gli appassionati dell’horror underground.

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Il Caso Mattei (1972) – Il Mistero che non è un Mistero

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Di questi tempi si parla tanto di indipendenza energetica italiana, visto che c'è da sganciarsi dal nemico di turno dei “padroni” a stelle striscianti. L'indipendenza energetica, quella vera, è stata alla nostra portata per decenni ed è stata ostacolata dalle stesse sanguisughe che oggi vogliono imporci ulteriori sacrifici per i loro interessi economici e politici.

Daniele Pieraccini

Enrico Mattei

«Noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale.

Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».

Di questi tempi si parla tanto di indipendenza energetica italiana, visto che c’è da sganciarsi dal nemico di turno dei “padroni” a stelle striscianti. L’indipendenza energetica, quella vera, è stata alla nostra portata per decenni ed è stata ostacolata dalle stesse sanguisughe che oggi vogliono imporci ulteriori sacrifici per i loro interessi economici e politici.

La Basilicata, ad esempio, galleggia letteralmente sul petrolio. Già nel 1400 gli abitanti vedevano lingue di fuoco prodotte dal metano; nel ‘900 ebbero inizio le prime attività di ricerca, fino al 1959 quando, grazie ad Enrico Mattei, vennero alla luce i primi, importanti giacimenti.

Mattei e la parabola del gattino

Proprio a questo eccezionale e coraggioso imprenditore, la cui figura Eni continua a sfruttare per fregiarsi di un’etica che non le appartiene, Francesco Rosi dedicò nel 1972 un notevole film (mai uscito su DVD), traendolo dal libro dal libro L’assassinio di Enrico Mattei di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi (anche co-sceneggiatori del film) e affidando la parte del dirigente a Gian Maria Volonté.

Un film-inchiesta che dovrebbe essere visto da tutti, proiettato nelle scuole e riconosciuto come testimonianza imprescindibile di una vicenda che ha modificato profondamente le sorti del nostro Paese.

Partendo dalla fine, ovvero dalla morte di Mattei, avvenuta in un “incidente” aereo nel 1962, Rosi mette in scena un racconto dei fatti svolto con rigore documentario ma avvincente, originale e obiettivo al tempo stesso. Usando diversi registri narrativi e mai sbilanciandosi in conclusioni affrettate, il regista napoletano si mette in gioco artisticamente ed umanamente, realizzando, con l’apporto del solito, grande Volonté, un mosaico magistrale di inchiesta politica.

Soffermandosi un attimo su Volonté, pensate che nello stesso anno girò anche La classe operaia va in paradiso di Elio Petri

Locandina del film

“NON VOGLIO ESSERE RICCO IN UN PAESE POVERO”

Nel 1945 Enrico Mattei viene nominato commissario straordinario per la liquidazione dell’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP). Ben presto il dirigente marchigiano contravviene agli ordini, scavalcando il CDA fresco di nomina dell’AGIP e ordinando nuove trivellazioni nel lodigiano, convinto delle potenzialità dell’azienda che era stato chiamato a liquidare.
Mattei ritiene necessario mantenere in mano italiana la possibilità di beneficiare di eventuali sviluppi fruttiferi nel settore degli idrocarburi, scatenando polemiche e contrasti tra chi è pronto ad appoggiarlo e chi invece teme soprattutto una reazione da parte degli Alleati.

I sospetti di Mattei sulle insistenze per la liquidazione dell’AGIP sono confermati dalla generosa offerta, di 250 milioni, proveniente dagli Stati Uniti per l’acquisizione delle strutture dell’azienda, nonché dall’improvviso aumento di tecnici stranieri nel lodigiano e dal contestuale rilascio di permessi per esplorazioni e ricerche.
Sostenuto vivamente dai geologi, Mattei convince con le sue relazioni il Ministro dell’Industria Giovanni Gronchi e il Ministro del Tesoro Marcello Soleri: è infine nominato vicepresidente con l’incarico di continuare l’esplorazione mineraria.

Successivamente Mattei fonda l’Eni, costruendo gasdotti per lo sfruttamento del metano, ottenendo concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica.
La sua attività rompe l’oligopolio delle compagnie petrolifere mondiali (che egli stesso chiamò “le sette sorelle”), inserendo l’Italia in un periodo di autonomia nazionale oltre che rendendola competitiva nel mondo, fuori dalle logiche di sfruttamento del cartello economico.

Enrico Mattei e il cartello petrolifero (dal film “Il caso Mattei”)

Con il passare degli anni, impegnandosi anche attraverso media e politica (fonda il quotidiano Il Giorno) e aprendo ai paesi africani e mediorientali con un approccio paritario lontano da logiche colonialiste, Mattei accresce la sua potenza e mira ad uno sganciamento politico ed economico dall’orbita degli Alleati.

L’intervista (dal film “Il caso Mattei”)

Il discorso di Gagliano e la morte

Il 27 ottobre 1962 Enrico Mattei si trova a Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna. La zona è promettente in fatto di giacimenti di gas e petrolio, ma la politica locale del periodo è al soldo degli americani e cerca di sbarrargli la strada.
Mattei si rivolge alla gente del posto, alla miseria e alle speranze della gente del posto; le sue sono parole importanti, a futura memoria (se la memoria ha un futuro). Chi prese il suo posto all’Eni è andato in direzione opposta alla sua: le trivelle scorazzano selvaggiamente in Val di Noto e nei nostri mari, ma per rifornire gli arsenali della NATO.

Poche ore dopo Enrico Mattei, insieme al pilota e ad un giornalista statunitense che avrebbe dovuto intervistarlo, trova la morte a bordo del suo piccolo velocissimo jet privato che precipita mentre rientra a Milano da Catania.

Quella di Enrico Mattei non è una storia di un passato ormai lontano, non più di interesse: è la storia del nostro sciagurato Paese, trasformato in terra di conquista di altre nazioni, è la storia di un Uomo assassinato, tolto di mezzo e rimpiazzato da altri per portare avanti obiettivi ben precisi. Obiettivi ad oggi, sessanta anni dopo il suo sacrificio, sempre più evidenti.

Guardate il film.

Enrico Mattei – L’arroganza dei potenti

Articoli dell’epoca sul film

Mattei in una delle sue frequenti visite ispettive agli impianti

FRANCESCO ROSI PARLA DEL SUO FILM

“Il Caso Mattei” (Italia 1972) di Francesco Rosi

Regia Francesco Rosi
Soggetto e sceneggiatura Tito Di Stefano, Tonino Guerra, Nerio Minuzzo, Francesco Rosi, Fulvio Bellini (non accreditato), Alessandro Previdi (non accreditato)
Produzione

VIDES

Franco Cristaldi
Fernando Ghia

Interpreti Gian Maria Volonté: Enrico Mattei
Luigi Squarzina: il giornalista liberale
Gianfranco Ombuen: ingegner Ferrari
Edda Ferronao: signora Mattei
Accursio Di Leo: personalità siciliana
Furio Colombo: assistente di Mattei
Peter Baldwin: Mc Hale
Aldo Barberito: Mauro De Mauro
Fotografia Pasqualino De Santis
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Piero Piccioni
Distribuzione CIC
Data di uscita

26 gennaio 1972

Durata
118 minuti

 

CURIOSITA’:

Negli ultimi giorni del luglio del 1970 Rosi contattò il giornalista del quotidiano palermitano L’Ora Mauro De Mauro per ricostruire le ultime ore di vita di Mattei a Gagliano. De Mauro, si recò a Gagliano dove grazie al signor Puleo, gestore del locale cinema, riuscì a procurarsi il nastro con l’ultimo discorso fatto dal Mattei; ebbe colloqui anche con Graziano Verzotto, politico e amministratore dell’Ente Minerario Siciliano (da molti indicato come molto vicino alla cosca di Giuseppe Di Cristina) e con Vito Guarrasi, personaggio molto ambiguo vicino tanto ad Amintore Fanfani quanto ai Servizi Segreti Statunitensi. Il 16 settembre del 1970 De Mauro venne sequestrato sotto casa a Palermo e non fu mai più ritrovato.

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Black Merda: una band dal “bad karma” immeritato

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

I Black Merda erano un combo funky rock originario di Detroit, conosciuti soprattutto per il loro primo, omonimo album. Il loro suono era uno spesso mélange di sonorità hendrixiane, funk sporco, chain-gang blues alla Muddy Waters, soul psichedelico e finanche di passaggi acustici piuttosto folky.

Daniele Pieraccini

«Let us introduce ourselves to you/We’re not prophets like some people might say/But we can save you from this mass of confusion/If you wanna be saved, we better hear you say/‘Set me free!»

Black Merda

I Black Merda erano un combo funky rock originario di Detroit, conosciuti soprattutto per il loro primo, omonimo album. Il loro suono era uno spesso mélange di sonorità hendrixiane, funk sporco, chain-gang blues alla Muddy Waters, soul psichedelico e finanche di passaggi acustici piuttosto folky.

Secondo il parere di Ellington “Fugi” Jordan (one-man band di funky psichedelico dei fine ’60 che si interessò della band in seguito ad una collaborazione, tanto da procurare loro un contratto discografico con la nota Chess Records) il loro nient’altro era che “black rock”, rock fatto da neri.

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Ellington “Fugi” Jordan con i futuri Black Merda

Il nome, estremamente infelice quando proposto a madrelingua di una lingua romanza, proviene dallo spelling slang della parola “murder”. Il gruppo lo volle per ricordare la violenza dilagante vissuta da molti afroamericani in quel periodo, soprattutto nei centri urbani del paese più “democratico e libero” del mondo, tra crisi economica e integrazione razziale accelerata. Una dichiarazione politica contro sistema poliziesco e Klan.
E’ il caso di dire che la loro reputazione (al pari del nome) li precede: ne hanno cantato le lodi, nel corso degli anni, personaggi come Julian Cope e Beastie Boys. Questo culto coltivato negli anni nei confronti del loro lavoro ha infine portato ad una reunion nel 2005.

Anthony e Charles Hawkins alle chitarre, VC Lamont Veasey (aka VC L Veasey, Veesee L Veasey, The Mighty V!) al basso, Tyrone Hite alla batteria formano la band alla fine degli anni sessanta, dopo molte esperienze in comune come turnisti: fra i tanti hanno spalleggiato Edwin Starr, Wilson Pickett, Joe Tex, The Chi-Lites, The Temptations, Eric Burdon.
Ben presto il loro look afro e soprattutto l’attitudine incendiaria dei live (a cui, a loro dire, il primo LP non renderà affatto giustizia) li denotano come leaders della scena black rock e heavy funk che sta per conoscere anche Funkadelic e The Bar-Keys.

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“Prophet”, prima traccia del primo LP

Il primo LP(1970), oggetto di culto tra appassionati e collezionisti, è un ponte ideale tra Hendrix e Funkadelic (passato e futuro del black rock) forse non così rivoluzionario come spesso è stato dipinto, ma viscerale e quasi proto-punk (del resto siamo nella patria degli MC5). Gli autori non sono però soddisfatti del risultato a livello di produzione, si sentono derubati del loro big sound e delle dinamiche che rappresentano il loro orgoglio dal vivo.

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“Cynthy-Ruth”

“Windsong”, che prefigura “Maggot Brain”

Il successo del disco è tutt’altro che travolgente, sebbene i Merda raccolgano consensi entusiasti nelle loro esibizioni live. Si rifiutano comunque di impegnarsi in tour prolungati in supporto di un disco che ritengono sotto i loro standard di musicisti.
Si spostano per un periodo in California, vivendo un buon momento di brillantezza musicale e personale, finché non sono costretti a rinunciare al batterista Tyron Hite, divenuto inaffidabile.
Subito dopo ricevono una chiamata dalla Chess records: sono convocati per registrare il seguito al primo disco, con un nuovo produttore ed un nuovo batterista. Accettano di buon grado, volenterosi di esplorare nuove direzioni musicali.
Per il secondo album (1973), Long Burn the Fire, decidono dunque di cambiare il nome in Mer-Da (!), ma non è l’unico elemento che mi ha sorpreso. La notevole svolta intrapresa dai nostri comprende elementi di pop che ricordano i Love di Arhur Lee o gli Hot Chocolate di Cicero Park. Archi compresi…

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“For you”, primo brano del secondo album “Long Burn The Fire”

Fin dal brano di apertura, la vagamente caraibica For You, il filo conduttore dell’album è evidente: le oscillazioni tra accordi minori e maggiori ci parlano di crisi bipolari, di uno scenario sociale dal quale si vorebbe fuggire, di crisi personali vissute e narrate tra metafore ed introspezioni non convenzionali e prive di sentimentalismi inutili.

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“My Mistake!”

La traccia finale, We Made Up, dimostra infine come la band ridotta all’osso strumentalmente, sappia coniugare ritmo funky ed introspezione senza neppure necessità di parole.

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“We Made Up”

Gli esiti di questa nuova parentesi artistica tuttavia si rivelano fatali. La band non prova più interesse nel progetto, non riesce più ad identificarsi in una situazione che vive da molto tempo (i tre “superstiti” si conoscono e frequentano fin da bambini) e, complici alcune scelte manageriali sbagliate, decide di interrompere l’esperienza.

Fino appunto al 2005, quando si riuniscono, un anno dopo la morte di Tyrone Hite.

Per concludere, è interessante come abbiano sempre evitato di allinearsi ad organizzazioni politiche di sinistra stile Black Panthers, nonostante le loro canzoni trattassero spesso temi politici, sociali e razziali.
“Potevamo vedere da dove provenivano e condividere punti di vista politici con alcuni di loro – sapevamo quali erano i problemi”, afferma Veasey. “Ma essere coinvolti con loro non era il nostro genere. Eravamo più dediti a essere musicisti e cantautori e, anche se non stavamo pubblicando le cose in modo esplicitamente politico, abbiamo trasmesso i nostri sentimenti.”

I RIFORMATI BLACK MERDA DAL VIVO CON “CYNTHY-RUTH”

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Como Vou Fazer – Dois Irmãos e Mariana De Moraes (2006)

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Ci sono momenti in cui la musica, la vera musica, nasce da sola per afflato divino e ci colpisce con la sua Verità.

Lorenzo

Succede ancora oggi, in tempi di “musichetta fast food” che sarebbe meglio non aver mai nemmeno ascoltato, che la bellezza assoluta riesca ad arrivare a noi, oltrepassando con la sua luminosa verità la spessa barriera del brutto che ci circonda.
Mai dirompente, più spesso è come un messaggio nella bottiglia che giunge a chi doveva arrivare, alle spiagge che erano predestinate a riceverla.

E, come un messaggio nella bottiglia, stavolta ha preso la forma di una apparentemente semplice collaborazione tentata per esperimento: un remix di uno splendido brano bossa nova scritto dai due musicisti Antoine Olivier e Glaucus Lynx (i Dois Irmãos ovvero Due Fratelli) e interpretato dalla magica voce di Mariana De Moraes.

La copertina originale dell’album “Putumayo Presents: Brazilian Lounge”

Il brano originale è Meu Amor ed è tratto dall’album Real Brasil che il duo ha realizzato nel 2006 per l’etichetta Cavendish Music e che si trova su iTunes mentre lo splendido remix del quale stiamo trattando è stato realizzato dallo stesso produttore dell’album Real Brasil sempre nel 2006 ma per l’etichetta statunitense di world music Putumayo ed è compreso nella bella raccolta Putumayo Presents: Brazilian Lounge.

La copertina dell’album “Real Brazil”

Se dei due musicisti Antoine Olivier e Glaucus Lynx (autore effettivo di Meu Amor) purtroppo poco si sa, lo stesso non si può dire di Mariana De Moraes, attrice e cantante che deriva da una famiglia da sempre dedicata al campo artistico che comprende celebri musicisti, parolieri, attori, registi, fotografi, scrittori, poeti…
Personaggi come Luíza Barreto Leite, Vinicio De Moraes, José Sanz, Sérgio Sanz, la madre Vera Valdez ma anche gli amici di famiglia come Caetano Veloso e Gal Costa, non potevano non lasciare la loro eredità sull’affascinante Mariana che, nata sotto il segno della Bilancia, ha spontaneamente donato l’energia di Venere, dea dell’Amore, a questo brano da brividi.

Mariana De Moraes

Ed è proprio questo l’effetto che provoca all’ascoltatore: brividi piacevoli e profondamente rilassanti. Nonostante le parole contengano le tracce cariche di profonda malinconia di una storia d’amore ormai finita narrata da chi gli strascichi li porta sempre addosso, questa canzone ha il potere di spalancare le porte chiuse dell’animo umano e parlare diretta al cuore, rilassando l’ascoltatore e invitandolo ad affrontare eventi della propria vita ancora mai risolti facendoci pace.

Basta leggere le decine e decine di commenti entusiasticamente innamorati per capire che questo, più che un brano musicale, è un vero e proprio atto di magia guaritrice: un abbraccio, una carezza lenitrice, un dono da parte dell’Amore e della Bellezza stessi ad una umanità ormai fin troppo provata e costretta da correnti disumane a rinunciare a sé stessa.
Un invito a recuperarsi, a riabbracciare la propria anima e il proprio Io più vero e profondo, a smetterla di cedere alle costrizioni di chi non potrà mai capire, a riprendere la consapevolezza della propria splendida essenza ed unicità e farne la propria forza vitale come doveva essere fin dall’inizio, prima di incontrare i traumi che ci hanno allontanati da essa.

Non è assolutamente un caso che Mariana De Moraes si occupi di Meditazione Trascendentale come non è un caso che la sua sensibilità emerga in questa esecuzione, che è direttamente la prima ripresa, la versione demo del pezzo poiché i seguenti tentativi in studio non riuscirono ad eguagliarla: la spontaneità è quando l’Anima si esprime.
Non resta quindi che immergersi in queste acque, in queste note liquide e amniotiche e lasciarsi trasportare da questa “Como Vou Fazer” di Dois Irmãos e Mariana De Moraes.

Ascolta il Brano “Como Vou Fazer”

Como Vou Fazer (Antoine Olivier e Glaucus Lynx)

Como eu vou fazer…
Meu amor pra sobreviver?
Deixa eu partir não quero mais…,
Pra não mais sofrer.
O amor é poesia de amar…,
Sem os teus carinhos
Não sei mais o que fazer.
Os teus olhos silenciam
O que restava do meu ser…,
Tinha uma vontade
Que esse amor me fez perder.
Eu não sei mais o que faço,
Já não falo mais.
Ando pela praia esperando te encontrar;
Quando vejo alguém ao longe,
Ai meu deus porquê?
Voltam as lembranças de tudo o que sofri por você.
Como eu vou fazer…
Meu amor pra sobreviver?
Deixa eu partir não quero mais…,
Pra não mais sofrer…
Eu não sei mais o que faço,
Já não falo mais.
Ando pela praia esperando te encontrar;
Quando vejo alguém ao longe,
Ai meu deus porquê?
Voltam as lembranças de tudo o que sofri por você.
Como eu vou fazer
Meu amor para sobreviver?
Deixa eu partir não quero mais não quero,
Para não mais sofrer.

Come farò…
mio amore, per sopravvivere?
Lasciami andare, non voglio più…,
Per non soffrire più.
L’amore è poesia d’amore…,
senza il tuo affetto
Non so cos’altro fare.
i tuoi occhi tacciono
Ciò che restava del mio essere…,
aveva una volontà
Che questo amore mi ha fatto perdere.
Non so cos’altro fare,
non parlo più.
Cammino lungo la spiaggia sperando di trovarti;
Quando vedo qualcuno in lontananza,
Oh mio Dio perché?
I ricordi di tutto ciò che ho sofferto per te tornano.
Come farò…
mio amore, per sopravvivere?
Lasciami andare, non voglio più…,
Per non soffrire più…
Non so cos’altro fare,
non parlo più.
Cammino lungo la spiaggia sperando di trovarti;
Quando vedo qualcuno in lontananza,
Oh mio Dio perché?
I ricordi di tutto ciò che ho sofferto per te tornano.
come farò…
mio amore, per sopravvivere?
Lasciami andare, non voglio più, non voglio,
Per non soffrire più.

ASCOLTA L’ALBUM “BRAZILIAN LOUNGE”

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Serge Brussolo – La Collera Delle Tenebre (1986)

By Narrativa e saggisticaNo Comments

Follia sanitaria, gravi malattie psicosomatiche, corpi che esplodono, atmosfera appiccicosa da apocalisse, lockdown militari, creature da incubo, panico e orrore...Brussolo con questo breve romanzo del 1986 non ci fa mancare niente.

Daniele Pieraccini

La copertina dell’edizione originale Italiana Urania

Pubblicato in Italia per la collana Urania il 18 gennaio 1987, “La Colère des ténèbres” fa parte del filone science-fiction che ha caratterizzato gli anni ’80 dello scrittore parigino.

Serge Brussolo (nel blog anche la recensione de “I seminatori di abissi”) si guadagna il rispetto necessario alla lettura fin dalle prime pagine di questo suo romanzo. E’ una lettura facile, veloce, non complessa ma dotata di una strana profondità che pare scaturire da una mente molto fervida sotto l’effetto di qualche psicofarmaco.

Si ha l’impressione di entrare in un universo surrealista creato da una immaginazione senza freni. Nonostante lo scarso spessore dei protagonisti, che ci priva di ogni empatia nei loro confronti (li seguiamo quasi più per vedere fin dove si spingeranno la loro demenza e la loro avidità), ci imbattiamo in immagini non prive di una certa poesia, seppure oscura e surreale.

Serge Brussolo

La sinossi della storia:

David è un giovane infermiere inesperto e impreparato che viene assunto da una strana clinica sperduta in una brughiera, un luogo fuori dal mondo nel quale si aggira oltretutto, mietendo vittime, una bestia misteriosa, forse un lupo mannaro che qualcuno ha intravisto.
Il dottor Minsky, che dirige l’ospedale, è altrettanto misterioso e sfuggente. Su di lui e sui suoi esperimenti circolano voci strane ed inquietanti.

Nonostante la piccola città vicina all’ospedale sia invasa da branchi di pazienti ingessati, vittime di un’epidemia psicosomatica che provoca fratture spontanee ed immotivate, fino a far esplodere crani come gusci d’uovo sotto pressione, il professore riserva ai numerosi pazienti della clinica un interesse relativo. Le sue attenzioni sembrano dirigersi maggiormente al mondo degli insetti, anzi, verso una specie molto particolare di insetto…

David, guidato dalla bizzarra infermiera Julie, inizia a lavorare nella clinica e ad indagare sulle stranezze che caratterizzano la struttura ed i suoi dintorni.
Ogni mistero che si presenta è prima o poi svelato nel corso della vicenda; conosceremo anche l’origine dei lati oscuri del giovane infermiere e della nefasta e intrigante collega.
La cura rivoluzionaria che il dottor Minsky sta applicando sui pazienti ci sorprenderà e raggelerà; come le altre rivelazioni del romanzo lascerà immagini difficili da cancellare nella retina della nostra mente.

“Ira Melanox” edizione internazionale e “La Colère des ténèbres” edizione francese

La fantasia fertile e malata di Brussolo ci immerge in un’atmosfera glauca e opprimente che l’autore, con la sua scrittura nervosa, riesce a rendere in qualche modo accattivante. La costruzione della storia procede come una sorta di aggravamento permanente, tutto è strano e folle, compresi i due protagonisti dal passato oscuro. Le loro disavventure sono però a tratti divertenti, e l’opera risulta molto veloce da leggere.

Brussolo, perlomeno quando si muove all’interno del suo filone “fantascientifico”, sembra un Ballard ancor più cupo, distopico e cinico.
Gli elementi di body-horror (ibridazione e mutazione) rimandano certamente anche alle opere di Cronenberg; la descrizione che l’autore francese rende della realtà ricorda le visioni assurde, inconcepibili e patologiche di uno dei maestri del fantastico e dell’horror in letteratura, E.T.A. Hoffmann, senza però il risvolto onirico e magico proprio del lato romantico dell’autore tedesco, con il conseguente rimpianto di un’armonia perduta.
Brussolo non rimpiange né vagheggia alcunché, la sua immaginazione nasce da un mondo di oscurità assoluta e senza speranza alcuna. Dal disinteresse verso ogni forma di speranza, parrebbe.

AUDIOINTERVISTA IN FRANCESE A SERGE BRUSSOLO

CONSIDERAZIONI FINALI

Quello de “La collera delle tenebre” è un mondo che espande la sua follia ben oltre i confini della brughiera di Saint-Alex.
Un mondo di scienziati pazzi che ignorano volutamente le cause dei disturbi che affliggono i pazienti, trovando più affascinante, rapido e remunerativo combattere i sintomi, a costo di applicare trattamenti allucinanti che si rivelano peggiori del male stesso.
Un mondo in cui le persone si ammalano a causa del terrore di ammalarsi; un mondo in cui le autorità tutelano esclusivamente i soggetti più importanti o facoltosi, reprimendo, spiando e brutalizzando con modalità ottuse e cieche la maggioranza dei cittadini.

Un mondo in cui gli stessi cittadini formano una folla psicologica alla deriva, in balìa degli eventi, superstiziosa, paurosa e infine capace di reagire con furia barbarica e insensata.

Un mondo, insomma, che oggi possiamo sentire un po’ meno “fantascientifico” e più vicino…

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Mike Bloomfield – Dalla testa, dal cuore e dalle mani

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Muddy Waters lo chiamava “my son”. Eric Clapton lo definì “music on two legs”.
Una personalità originale, un chitarrista che fece cose che nessuno aveva mai sentito prima, che influenzarono ed influenzano tuttora chiunque suoni rock.

Daniele Pieraccini

«The whole idea is that if you turn your amp up to 10, you should still be able to play at a whisper – you’ve got to learn to control your hands»

Mike Bloomfield

Muddy Waters lo chiamava “my son”. Eric Clapton lo definì “music on two legs”.

Mike Bloomfield trasformò per sempre la scena blues di Chicago. Con i suoi soli lunghi e ispirati, che attingevano anche ai Raga indiani, rappresentò un’influenza enorme su tutti i chitarristi venuti dopo.

Una personalità originale, un chitarrista che fece cose che nessuno aveva mai sentito prima, che influenzarono ed influenzano tuttora chiunque suoni rock.

Al festival di Newport

Michael Bernard Bloomfield nasce a Chicago il 28 luglio del 1943 sotto il segno del Leone.
Figlio di una famiglia ebrea benestante, ben presto realizza di non appartenere a quel lato della città. Il ragazzo non ha nessuna intenzione di ereditare l’attività familiare: passa il suo tempo nella zona sud, nei locali in cui suonano i suoi idoli. Chicago è il paradiso del blues elettrico: i nomi di riferimento che circolano sono quelli di Sonny Boy Williamson, Little Walter, Otis Spann per non parlare dei due giganti, Muddy Waters e Howlin’ Wolf.

Non ci vuole molto perché Mike salga sul palco insieme a loro: a 17 anni ha già suonato in jam improvvisate con i più grandi. Un privilegio riservato a ben pochi bianchi.

Ma all’inizio degli anni sessanta il blues ha un calo di popolarità: quello che va di moda è il folk revival. Bloomfield imbraccia la chitarra acustica, mai dimenticando le sue radici, infatti continua a suonare con veterani come Sleepy John Estes o Big Joe Williams.
Apre anche un locale, il “Fickle Pickle”, dove si suonano folk e blues acustico.

Con Howlin Wolf

Con Sunnyland Slim al Fricke Pickle

Ben presto però decide di spostarsi a New York, in cerca di un contratto discografico.
Con la sua Telecaster a tracolla è ormai un chitarrista maturo e Paul Rothchild, presidente dell’Elektra, vuole inserirlo nella Paul Butterfield Blues Band.
L’operazione non è così semplice: Bloomfield è a conoscenza della ruvidezza con cui l’armonicista interpreta il ruolo di band-leader. Butterfield è noto per il suo stile innovativo ed incisivo, ma anche per il suo ego sproporzionato e non vuole cedere spazio ad altri protagonisti.

Un compromesso viene però in qualche modo raggiunto, dando vita ad una delle prime band di blues rock della storia: Born In Chicago (1965) è l’esordio di uno dei primi gruppi misti del paese, con una sezione ritmica formata da Sam Lay e Jerome Arnold, ex membri della band di Howlin’ Wolf, Elvin Bishop alla chitarra, Mark Naftalin alle tastiere e Butterfield alla voce e armonica.
Oltre, ovviamente, al nostro Mike, che si scatena in un assolo memorabile su Blues With A Feeling.

La freschezza e la potenza di quel disco sorprendono anche oggi; il lavoro di chitarra di Bloomfield
lo classifica come influenza determinante nel revival del classic-blues di Chicago che prende il via proprio in quel periodo.

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Blues with a Feeling – Paul Butterfield Blues Band

Dylan lo vuole in pianta stabile nel suo gruppo, ma dopo il celebre live di Newport Mike saluta la compagnia per dedicarsi al suo personale progetto. In realtà la collaborazione non poteva durare a lungo: il volume del suo amplificatore è insostenibile per il pubblico di Dylan, anche i meno intransigenti sono comunque “educati” ad un ascolto folk.
Il motivo principale dietro all’abbandono di Bloomfield consiste però nei limiti imposti dal band-leader, che limitano i riferimenti all’amato blues ed impediscono al nostro di brillare come con Butterfield.

Poco male, anzi benissimo, visto che nel luglio del 1966 Bloomfield con la solita Butterfield Blues band pubblica East-West, che sconvolge un mondo di musicisti in un periodo certo non avaro di opere innovative e memorabili.

Oltre al blues si trovano infatti, fuse insieme mirabilmente, influenze soul e rock, free jazz e indiane.
La title track è uno dei brani più influenti della storia del rock: la partenza ed il primo sviluppo si aggirano ancora in territorio blues, ma dopo qualche minuto il territorio da esplorare si estende fino al jazz (la musica modale di John Coltrane) e alla musica indiana (i Raga di Ravi Shankar), per approdare ad un dialogo tra chitarre (la sua e quella di Elvin Bishop) che prefigura quello che sarà il segno distintivo degli Allman Brothers.

Bloomfield, con una Les Paul Goldtop del 1956 in un amplificatore Gibson Falcon, si cimenta in tredici minuti epocali di musica, che battezzano in anticipo le chilometriche jam di fine ’60 e l’acid rock di San Francisco, aggiungendo alla lista degli “ispirati” da Bloomfield anche Jefferson Airplane e Grateful Dead.

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East/West – Paul Butterfield Blues Band

I Got A Mind to Give Up Living – Paul Butterfield Blues Band

La collaborazione con Bishop giunge ben presto al termine, quest’ultimo infatti reclama uno spazio maggiore dopo una crescita musicale che senz’altro deve a Bloomfield e se ne va in cerca di nuovi stimoli.

Mike, ad inizio 1967, fonda una nuova band, Electric Flag. Si tratta di una delle prime horn bands della musica rock e comprende l’organista Barry Goldberg, il batterista Buddy Miles e il cantante Nick Gravenites oltre ovviamente una sezione fiati.
Subito Peter Fonda gli chiede di incidere la colonna sonora di The Trip; Bloomfield ed i suoi eseguono, mescolando sorprendentemente elettronica, rumore, psichedelia, country, ragtime e blues.

Nel giugno dello stesso anno la band si esibisce al festival di Monterey, in cui Bloomfield si presenta con quella che sarà la chitarra più iconica della sua carriera: una Gibson Les Paul Standard Sunburst del 1959.
L’esibizione degli Electric Flag lascia decisamente il segno, innalzando le aspettative da parte di stampa e pubblico.

Electric Flag a Monterey

Il momento d’oro non è sfruttato dalla band, che ultima il disco successivo in ritardo, forse per problemi di droga e sicuramente a causa di cambi di formazione che richiedono molto tempo passato in studio a provare.
Eppure, quando finalmente esce nel 1968, A long Time Comin’ non delude le aspettative.

In gran parte devoto a blues, soul e jazz, il disco presenta addirittura suoni e voci “campionati” e missati con la musica eseguita dal gruppo. Sicuramente Miles Davis trarrà ispirazione da questo lavoro. Bloomfield esegue una versione della Killing Floor di Howlin Wolf come fosse un infervorato comizio psichedelico e regala altri momenti entusiasmanti come Wine e Texas.

Il disco però si rivela un insuccesso commerciale e nel frattempo Buddy Miles sta prendendo sempre più le redini del gruppo; Bloomfield, afflitto da problemi di insonnia che cerca invano di “curare” con l’uso di eroina, lascia così il gruppo.

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Killing Floor – Electric Flag

Texas – Electric Flag

Al Kooper, che ha invece mollato i Blood, Sweat & Tears, lo ammira al punto da considerarlo il miglior chitarrista mai visto e riesce nell’intento di smuoverlo coinvolgendolo nella registrazione di una jam session in stile jazz ma con forte connotazione rock.

Dopo aver lasciato la chitarra (ritenendo più che sufficienti le sei corde di Bloomfield…) per passare definitivamente all’organo, Kooper registra sei ore di jam nel maggio 1968, ricavandone cinque brani magistrali. Bloomfield, usando soltanto la sua Les Paul attaccata ad un Twin Reverb e le sue dita, sfodera forse il suo capolavoro: His Holy Modal Majesty, di nuovo ispirata da jazz e Raga.

Albert’s Shuffle, uno degli strumentali di blues chitarristico più belli di sempre, con la sua ferocia controllata, è esemplare della personalità musicale di Mike: energia, feeling, precisione ritmica, tocco, intonazione, gusto…i suoi fraseggi e il tono della sua Gibson rendono letteralmente vocale quello che esce dall’amplificatore.

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His Holy Modal Majesty – Al Kooper, Mike Bloomfield

Albert’s Shuffle – Al Kooper, Mike Bloomfield

Kooper però, al risveglio del giorno successivo alle registrazioni, non trova più Bloomfield. Il chitarrista se ne è andato, tormentato dall’insonnia. Il disco viene quindi trasformato in una jam da super gruppo, formato che andrà di moda negli anni immediatamente successivi.
Super Session vede quindi la luce con il contributo di Bloomfield limitato alla prima facciata, sostituito da Stephen Stills nella seconda.
Il disco, in termini commerciali, risulterà il più grande successo di Bloomfield, che tuttavia non se ne curerà mai più di tanto.

Il nostro ricompare per una serie di live con Kooper, dai risultati non meno che spettacolari.
Ben presto però scompare nuovamente, sostitutito da Steve Miller prima e da un giovane messicano sconosciuto di nome Carlos Santana, convinto di suonare con il suo idolo Bloomfield e conseguentemente deluso dall’assenza di quest’ultimo, al punto di dichiarare, tempo dopo, che avrebbe volentieri scambiato quella favolosa opportunità con la possibilità di suonare con Mike.

Nonostante uno stato psicofisico non ottimale, Bloomfield si ripresenta a dicembre 1968 per suonare in un live che lancerà la carriera di Johnny Winter.

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I Wonder Who – Al Kooper, Mike Bloomfield

Il 1969 lo vede suonare in dischi importanti (Janis Joplin, Muddy Waters, Mother Earth) e debuttare a suo nome con It’s Not Killing Me.
Lo vede anche esibirsi con Nick “The Greek” Gravenites in un micidiale concerto che sarà immortalato in due dischi, Live at Bill Graham’s Fillmore West e My labors.

Il suo stile è giunto all’apice, purtroppo può dirsi lo stesso del demone che lo tormenta da anni.

Insonnia e droga lo stanno uccidendo: nel 1970, a 27 anni non muore come Hendrix o Joplin, ma abbandona la sua poesia, la chitarra. L’eroina lo sta svuotando completamente di ogni stimolo e forza.

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Moon Tune – Nick Gravenites ft. Mike Bloomfield

Gli anni ’70 sono una discesa verso il buio. L’uomo che a 17 anni divideva il palco con Muddy Waters, che ha cambiato il mondo della musica rock e lo stile con cui approcciare la chitarra, pioniere delle jam rock e di altri formati divenuti classici, si ritrova a musicare film porno, schiavo di alcol ed eroina.

Dopo averci lasciato qualche altra gemma, nascosta qua e là in una produzione che risente inevitabilmente del suo declino umano, Michael Bernard Bloomfield abbandona questo mondo nel 1981 in seguito ad una overdose. Un decesso avvenuto in circostanze non chiare: molti parlavano di una festa privata e del successivo trasporto del suo corpo in auto, per essere scaricato altrove.

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The Gospel Truth – Mike Bloomfield

Mike Bloomfield, nell’immaginario comune, non è considerato un “guitar hero”, un personaggio “maledetto” da poster per le camerette degli adolescenti.
Non è un nome subito collegabile ad un immaginario condiviso da molti ed in grado di suscitare entusiasmo ed approvazione a comando.

Ma l’eredità che ci ha lasciato e gli obiettivi artistici raggiunti hanno pochi eguali.
In molti hanno in casa dischi in cui ha suonato e magari neppure lo sanno.

L’invito è quello di scoprirlo o rivalutarlo, gli ascolti di molti suoi lavori riservano sicure ricompense e possono offrire una prospettiva poco sfruttata ma imprescindibile con la quale inquadrare la storia del blues e del rock.

CLICCA E GUARDA Il FILM SULLA STORIA DI MIKE BLOOMFIELD!

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La Sorprendente Melita!

By Chitarre Vintage USA, Personaggi StoriciNo Comments

Quando questa chitarra pazzesca, ovviamente artigianale, ci venne incontro, capii subito che dovevamo averla. Costruita a metà degli anni '50, è stata attribuita all'opera o fabbricata per conto di Sebastiano “Johnny” Melita, che fu ovviamente il progettista del ponte Melita. Anche se non abbiamo provi documentali di questo, la cosa ha assolutamente senso quando si studia lo strumento.

Izzy Miller

Oggi è nostra gradita ospite una chitarra unica, assolutamente inedita: una splendida solid body Melita di proprietà del nostro amico Izzy Miller, gran cacciatore e collezionista di strumenti di pregio.
Ce ne parlerà lui stesso:

«Quando questa chitarra pazzesca, ovviamente artigianale, ci venne incontro, capii subito che dovevamo averla. Costruita a metà degli anni ’50, è stata attribuita all’opera o fabbricata per conto di Sebastiano “Johnny” Melita, che fu ovviamente il progettista del ponte Melita. Anche se non abbiamo provi documentali di questo, la cosa ha assolutamente senso quando si studia lo strumento.

Iniziamo con il fatto che il ponte Melita originale trovato su questo strumento include l’assurdamente rara sordina per corde originale, che abbiamo visto solo su pochi altri ponti Melita nel corso degli anni.

Siamo sicuri che Melita fosse in accordi commerciali con Gretsch in quel periodo, il che spiega le prime manopole Gretsch in metallo prive del marchio G o della freccia sulla parte superiore, il pickup DeArmond Dynasonic (originariamente ne montava una coppia, come evidenziato sotto il pickup Hofner non originale e non funzionante) e le chiavette Grover (che sono state trovate su un certo numero di strumenti Gretsch).

L’associazione con Gretsch ha senso anche riguardo la costruzione del manico in due pezzi e della forma del tallone del manico e della sua copertura. La connessione con Filadelfia è ulteriormente corroborata dalla pagina di quotidiano di Filadelfia della metà degli anni ’70 che abbiamo trovato in una delle cavità posteriori.

La cordiera è artigianale ed è di per sé un pezzo piuttosto impressionante. Il capotasto in alluminio originale sembra essere un primo tentativo fatto in casa di un capo regolabile. Insieme alla cordiera, sono molto, molto belli.

Sembra che il signor Melita l’abbia costruito e poi lo abbia utilizzato per testare le idee nel corso degli anni. Anche il foro nel battipenna entra nel corpo, ma sembra che nulla vi sia mai stato montato e cablato.

La piastra di plastica nera sul retro e la fresatura sottostante sembrano essere un tentativo successivo di alleggerimento del peso, poiché la chitarra essendo in acero massiccio è un po’ pesante. Il manico è grosso e scendendo verso il corpo acquisisce una leggera forma a V. Oltre ad essere comodissimo, ha delle bellissime fiammature.

Lo strumento è privo di truss rod regolabile e il manico presenta un leggero rilievo. Assieme ai tasti in ottone originali che mostrano una discreta quantità di usura, l’azione è bassa dove dovrebbe esserlo ma sono presenti molti punti che friggono su e giù per la tastiera.

È ovvio che questo strumento si stato suonato davvero molto e siamo sicuri che qualcuno là fuori abbia sicuramente altre tessere del puzzle da aggiungere a questa storia misteriosa…»

Ringraziamo Izzy per la storia e le immagini di questo strumento unico ed affascinante.

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Fender Telecaster Blonde (1963)

By Chitarre Vintage USA, Personaggi StoriciNo Comments

E’ l’emblema del minimalismo: un manico in acero avvitato ad un corpo in frassino con 2 pickup, la Fender Telecaster è probabilmente la chitarra solid body più longeva della storia e sicuramente una delle più affascinanti.

Lorenzo

Oggi è nostra gradita ospite una splendida Telecaster Blonde del 1963 che il nostro amico Mark R. ha restaurato per conto dello zio E. R.
E’ una delle prime “veneer” ed è un vero gioiello, soprattutto dopo il lavoro di Mark.

Mark ha sostituito i pot malfunzionanti con altri originali coerenti con l’anno, ha oliato meccaniche e ponte e dato una bella lucidata, assolutamente manuale, alla finitura della chitarra.

Questo lavoro molto curato lo ha fatto anche per l’altra Telecaster dello zio, un’altrettanto splendida Lake Placid Blue del ‘68 che vi presenteremo prossimamente.

All’inizio degli anni ‘50 Leo Fender, allora tecnico specializzato in riparazioni radio e in costruzione di steel guitars elettriche, diede vita assieme a George Fullerton a quella che si sarebbe rivelata la prima chitarra solid body di produzione industriale, squisito esempio di fascinosa semplicità.

Inizialmente chiamata Esquire e subito ribattezzata Broadcaster, nome al quale dovrà subito rinunciare a causa di una disputa con la Gretsch per la sua serie di batterie Broadkaster, la Telecaster riscosse subito un grande successo tra i giovani chitarristi per il prezzo accessibile, l’ottimo sustain e l’assenza di feedback.

Rivelatasi nel corso del tempo uno strumento estremamente versatile, è divenuta lo strumento preferito da molti chitarristi che ne hanno fatto il proprio cavallo di battaglia facendola assurgere a regina del country e del blues ma anche del rock e del funky e in seguito della new wave e del pop, diventando la chitarra simbolo dei Police nella persona di Andy Summers.

Il resto è Storia.

UN INTERESSANTE VIDEO SUL “TWANG” DELLA TELECASTER

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Fase IV: Distruzione Terra (1974) – La distopia della realtà

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

1974: esce il film destinato a cambiare (in sordina) la storia della cinematografia e che, in un finale tanto innovativo e visionario quanto agghiacciante, racconta un ipotetico futuro della razza umana che somiglia invece sempre più al presente.

The Boss

Il romanzo “Fase IV” di Barry N. Malzberg è stato tratto dalla bozza della sceneggiatura ed è uscito prima del film

1974: esce il film destinato a cambiare (in sordina) la storia della cinematografia e che, in un finale tanto innovativo e visionario quanto agghiacciante, racconta un ipotetico futuro della razza umana che somiglia invece sempre più al presente.

IL CROCEVIA DEL POST-UMANO

Articolo di Daniele Pieraccini

E’ dove si incontrano opere realizzate da autori anche distanti geograficamente e cronologicamente, ma tutte convergenti verso un unico concetto: l’invasione “aliena” intesa come innesco di una palingenesi della realtà conosciuta.

Qualcosa di estraneo alla natura umana lavora per prendere possesso del nostro stesso Essere, mutandolo per esercitare un controllo illimitato ed assoluto.

In questo immaginario crocevia apocalittico transitano film come “Essi vivono”, “La fuga di Logan”, “Matrix“, “Videodrome”, “THX 1138″, “Soylent Green” “L’uomo terminale” oltre a titoli già trattati in questo blog come “I viaggiatori della sera“, “Hanno cambiato faccia“, “Wounds“, “Swiss Made 2069“, “Buone Notizie“, “Omicron“.

Locandina del film

Scherzi da “burIoni”

A proposito di quest’ultimo: la locandina falsa uscita qualche mese fa e riferita ad un presunto film del 1963 dal titolo “La variante Omicron” è in realtà una modifica alla locandina di “Phase IV”, un sorprendente fanta-horror del 1974, realizzato da Saul Bass.

Saul Bass, illustratore, realizzatore di loghi per grandi aziende e soprattutto re delle locandine e dei titoli di testa dei film, che trasformò in introduzione fondamentale alle pellicole.

Influenzato da Costruttivismo e Bauhaus, grazie alla sua visione artistica minimalista (si veda su tutti l’esempio di “Anatomia di un omicidio”) Bass fu in grado di lasciare il segno nella storia del cinema, trasformando i titoli di testa in parte integrante dell’opera, prologo della vicenda e segno identificativo del film stesso.

Saul Bass e alcune sue celebri locandine

Dopo aver vinto un Oscar nel 1969 con il corto “Why Man Creates” e ispirandosi al racconto “L’impero delle formiche” di H. G. Wells (1905) e forse anche a “Il tallone di ferro” (1907) di Jack London, Bass nel 1974 gira il suo unico lungometraggio come regista.

“Phase IV” è un flop al botteghino e viene stroncato dalla critica, ma col tempo è divenuto un “cult” ed è stato infine rivalutato da alcuni commentatori, che ne hanno riconosciuto la dimensione di dramma metafisico universale. Sicuramente, a livello visuale, ci troviamo davanti ad un incubo di intensità visionaria che merita degli approfondimenti.

Una critica ricorrente all’uscita della pellicola consisteva nell’evidenziare una mancanza di spiegazioni soddisfacenti alla storia narrata, che rendeva il lavoro un esercizio di stile visuale privo di significati interessanti: in definitiva un film di mostri anni ’50, con buone intenzioni ed inserti pregevoli di riprese documentaristiche ma sommariamente inutile. Questa impressione è condivisibile da chiunque abbia visto il film di Bass negli anni, compreso il sottoscritto.

Gli attori protagonisti sono Nigel Davenport, Michael Murphy, Lynne Frederick. Davenport e Frederick avevano già lavorato assieme in un altro film distopico catastrofico, “No Blade Of Grass” che parla di un virus delle piante che mette in crisi l’approvvigionamento alimentare di tutte le grosse città portando carestie

Dopo quasi quarant’anni dall’uscita ecco però la sorpresa: il finale dell’opera visto da tutto il mondo fino al 2012 non era quello pensato dall’autore. La produzione infatti optò per un epilogo piuttosto scontato nelle immagini e nel significato, rispetto a quello previsto e realizzato da Bass.

Ed è qui che la storia cambia. E’ con questo finale ritrovato che tutto assume un altro senso, tanto da far diventare un “film di mostri anni ’50” un vero e proprio capolavoro.
Troviamo rimandi a Kubrick, anticipi delle visioni di Ken Russell, un concetto di rinascita che ritroveremo in Cronenberg… tanti elementi tesi a mostrarci un destino, anzi, una Fase post-atomica e post-umana ormai alle porte e che “qualcuno” ha progettato per noi.

Che siano le macchine di Matrix, gli alieni di Omicron/They Live, o gli insetti di Phase IV, una realtà estranea all’umanità sta mutando definitivamente la nostra condizione. Una sostanziale disumanizzazione incombe; l’unica strada è ribellarsi alla meccanizzazione, alla spersonalizzazione, al potere vessatorio e coercitivo che ci opprime sempre più.

I computers mostrati nel laboratorio sono veri: si tratta principalmente del GEC 2050

Quelli del finale ritrovato del film sono cinque minuti di creatività visionaria che cambiano le sorti ed il senso di una pellicola, innalzandola a livelli grandiosi e profetici. Un finale esplosivo, un trip inquietante che mostra il tramonto del genere umano. Un miraggio filmico maestoso difficile da dimenticare.

Il titolo italiano è dunque fuorviante: la Fase IV non riguarda la distruzione del nostro pianeta, ma una riconfigurazione dell’umanità stessa, di presa di possesso dei corpi e delle menti al fine di riorganizzare matematicamente ed “efficientemente” la vita sulla Terra.

La Fase IV, esiziale, giunge dopo una tensione costruita ad arte, tra metafore visive, surrealismo, ottimo commento sonoro assolutamente coinvolgente, bella fotografia e pure discreta recitazione. Tutto assume un senso con questo finale, un senso apocalittico spiattellato in faccia (con forza ma con una certa finezza esecutiva) agli spettatori che restano annichiliti davanti ad una rappresentazione di ineluttabilità antiumana che lascia terrorizzati.

Tra la ricca simbologia del film troviamo losanghe inscritte in “cerchi nel grano” e 7 particolari obelischi.

Le riprese desertiche sono state effettuate in Kenya.

L’aspetto tecnico è di tutto rilievo, basti vedere l’uso che viene fatto di microcamere (nel 1974!) per seguire gli insetti da vicino; da notare anche la realizzazione di una “soggettiva” di una formica.
A livello visivo si tratta, in definitiva, di un’opera monumentale: si anticipa persino di qualche anno il fenomeno dei cerchi nel grano.

La trama in breve: a seguito di uno spettacolare e misterioso evento cosmico, la formiche di ogni specie si evolvono in maniera fulminea e inspiegabile. Ben presto gli insetti muovono guerra agli umani, immunizzandosi velocemente dalle armi chimiche usate per combatterle ed erigendo dei monoliti inquietantemente geometrici che circondano un laboratorio in Arizona, base degli umani che tentano di opporsi alle agguerrite colonie di animaletti mutati.

La rivolta delle formiche è meccanica, organizzata, una catena di montaggio estrema ed efficiente che non lascia scampo agli umani.

La terribile estasi mistica del finale rivela il vero scopo dell’invasione: lungi dal voler distruggere il pianeta, il piano delle formiche, la Fase IV, prevede la trasformazione della specie umana ed il suo adattamento al mondo degli insetti, l’assimilazione totale.

I protagonisti umani del film alla fine rivelano di non sapere cosa vogliano da noi le formiche, ma attendono istruzioni. Il sogno tecnocrate dell’uomo (soltanto) operativo sta per realizzarsi.

“Ci sono campi, campi sterminati dove gli uomini non nascono, vengono coltivati. Se non sei uno di noi, sei uno di loro.”
The Matrix

IL TRAILER ORIGINALE DI FASE 4

Il musicista nipponico Stomu Yamashta contribuisce alle musiche delle sequenze finali.

“Fase 4: Distruzione Terra” (Usa 1974) di Saul Bass

Titolo originale

Phase IV

Paese di produzione

Stati Uniti d’America, Regno Unito

Anno

1974

Durata

86 min

Genere

fantascienza, drammatico, orrore

Regia

Saul Bass

Sceneggiatura

Mayo Simon

Produttore

Paul B. Radin

Casa di produzione

Alced Productions, Paramount Pictures

Distribuzione in italiano

Cinema International Corporation

Fotografia

Dick Bush

Montaggio

Willy Kemplen

Effetti speciali

John Richardson

Musiche

Brian Gascoigne

Scenografia

Don Barry

Interpreti e personaggi

  • Nigel Davenport: Dr. Ernest Hubbs

  • Michael Murphy: James R. Lesko

  • Lynne Frederick: Kendra Eldridge

  • Alan Gifford: Sig. Eldridge

  • Robert Henderson: Clete

  • Helen Horton: Mildred Eldridge

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Eko C22: per pochi!

By Chitarre Vintage Italiane, Personaggi StoriciNo Comments

Sembra incredibile che una copia Les Paul possa essere una delle chitarre più rare eppure nel caso della C22 della Eko è proprio così.

Lorenzo

Sembra incredibile che una copia Les Paul possa essere una delle chitarre più rare eppure nel caso della C22 della Eko è proprio così.

Questa chitarrina, estremamente comoda, leggera e compatta, fu purtroppo costruita in numero bassissimo, a differenza delle C11 (copia SG) che si trovano abbastanza facilmente. Davvero strano per una copia Les Paul.

Ma si tratta di uno strumento davvero particolare, il cui body è interamente fabbricato con un legno orientale assai inusuale di nome Jelutong che contribuisce con il suo colore giallo a conferire quell’affascinante arancio ambrato che rende la C22 immediatamente riconoscibile agli appassionati.

Il manico, avvitato o incollato, è tipicamente fine 70/inizi 80, un sandwich di acero/mogano/acero con tastiera in palissandro.

La C22 nasce nel 1978 come la C11 e ne condivide il manico. I pickup, com’era tipico delle Eko di quel periodo, erano offerti a scelta tra una coppia di ottimi HP e HD della casa madre e una coppia Di Marzio Paf e Dual Sound della versione C22S.

La configurazione è tipica 2 volumi e 2 toni e selettore 3 posizioni ma in aggiunta troviamo uno switch per splittare le bobine del pickup Dual Sound.
Un ottimo ponte massiccio in acciaio con sellette in ottone completa il tutto, aggiungendo sustain a questo bello strumento.

Questa C22/S fa parte della collezione dell’amico Roberto Coccia Ascoli che dopo lunghe ricerche l’ha acquistata molti anni fa dal precedente proprietario, dopo molte insistenze e pagandola una discreta cifra, data la rarità.

Questo mi riporta alla mente un episodio di quasi 20 anni fa e che a volte ancora mi causa notti inquiete: una splendida C22 sfuggita per un soffio alla risibile cifra di 100 euro…

 

Un sentito Ringraziamento al grande Remo Serrangeli, direttore della Eko dei tempi d’oro, per la sua sempre gentile consulenza.