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UPGRADE (2018) – Tutto è Fantascienza finché non accade a TE

By CinemaNo Comments

Con l'esasperazione del concetto di specializzazione siamo giunti ad un mondo che separa in compartimenti stagni i vari campi della conoscenza umana.
Ogni prospettiva di progresso tecnologico è indipendente da considerazioni etiche, filosofiche, sociali, antropologiche. Il messaggio che ci arriva è: lo facciamo perché si può fare.
Upgrade (2018) è un film fantascientifico riuscitissimo, una vera sorpresa, intelligente e a tratti piuttosto violento e splatter, dotato di un certo umorismo e di twist funzionali alla trama.
Un B-movie di classe, dal basso budget ma dall'alto contenuto di idee che offrono molti spunti di riflessione.

Daniele Pieraccini

«Gli uomini ora sono diventati strumenti dei loro strumenti»

(Henry Thoreau, “Walden”, 1854).

Upgrade (2018) è un film fantascientifico riuscitissimo, una vera sorpresa, intelligente e a tratti piuttosto violento e splatter, dotato di un certo umorismo e di twist funzionali alla trama.

Sceneggiatore, regista e produttore è l’australiano Leigh Whannell, conosciuto per aver creato, insieme a James Wan, la saga di Saw e per aver ideato soggetto e sceneggiatura dei film del franchise Insidious.

Con Upgrade Whannell sembra muoversi con una certa libertà, dando vita ad un film relativamente indipendente che omaggia pellicole vecchio stile, soprattutto anni ’80, calando però la vicenda in un contesto molto più attuale.
Un B-movie di classe, dal basso budget ma dall’alto contenuto di idee che offrono molti spunti di riflessione.

Sinossi

(Contiene spoiler)

La storia si svolge in un futuro in cui ogni aspetto della vita umana è controllato dai computer: dalle auto a guida autonoma alle attività lavorative alla routine casalinga (spesa, pasti, regolazione della temperatura ambientale ecc.)
Il protagonista, Grey Trace, è un meccanico piuttosto avverso alla pervasività delle nuove tecnologie, accettate di buon grado invece dalla moglie Asha.

Una delle auto vintage rimesse in sesto da Grey appartiene a Eron Keen (nome interessante…), un giovane prodigio a capo dell’azienda Vessel, all’avanguardia nel campo della biomeccanica.
Proprio dopo aver consegnato l’auto al miliardario, l’auto a guida autonoma (ovviamente Vessel)  in cui si trova la coppia è hackerata: senza poter controllare il mezzo Grey e Asha hanno un incidente, in seguito al quale, feriti, sono assaliti da una banda di malviventi. L’esito è tragico: Asha viene uccisa a sangue freddo, Grey sopravvive ma paralizzato completamente.

 

Grazie agli ausili tecnologici la vita di Grey può proseguire in maniera abbastanza autonoma, ma solo tecnicamente. L’impossibilità di provvedere a se stesso, il dolore per la perdita della moglie e l’incapacità della polizia di arrivare ai colpevoli del delitto lo prostrano profondamente, tanto che prova, inutilmente, a spingere il robot medico a somministrargli una dose letale di tranquillanti.

Le cose cambiano quando Eron Keen gli propone di sottoporsi ad un trattamento ancora sperimentale, facendosi impiantare un chip di nuova generazione nella spina dorsale.

Così facendo Grey recupera le funzionalità del proprio corpo, ma si rende conto che le capacità di STEM (il nome dell’intelligenza artificiale ospite del suo apparato neurale) vanno ben oltre.

Il chip è in grado di parlargli e interagire con lui e di prendere il comando del suo corpo: per prima cosa si offre di aiutarlo a trovare gli assassini della moglie…

Riflessioni

Progresso o regresso?

Ogni strumento inventato dall’uomo, inevitabilmente, lo depriva dell’allenamento necessario a mantenere una data abilità. Per esempio, un sicuro risultato ottenuto dalle auto a guida autonoma sarà quello di allevare generazioni di umani incapaci di guidare un veicolo. Ogni macchina che sostituisce l’abilità umana in una attività causa la perdita della capacità dell’uomo di svolgere quella stessa azione. Si pensi alle calcolatrici o ai navigatori, che sostituiscono le nostre capacità aritmetiche e di orientamento.
Contemporaneamente, nella nostra interazione con le “intelligenze” artificiali, siamo costretti ad abbassare la nostra intelligenza compiendo azioni stupide: digitare dei tasti per poter ottenere un servizio, contare quanti semafori sono presenti in un immagine ecc.
L’impressione è che ci stiano programmando, usando per accrescere il potenziale delle macchine mentre dilapidiamo il nostro.
Forse siamo dentro un esperimento che coinvolge la razza umana: la più grande regressione intellettiva della nostra specie, mascherata da progresso tecnologico.

Chi manovra chi?

Grey è un uomo di altri tempi, un artigiano, un “homo faber”, non riesce ad adeguarsi alle innovazioni tecnologiche, preferisce avere il controllo, mentale e manuale, sulle proprie azioni.
I superpoteri derivati dall’innesto del chip nel suo corpo possono apparire una gran figata, all’inizio.
Poi si realizza che il protagonista è solo uno strumento, temporaneamente necessario a STEM per interagire fisicamente con il mondo reale.
Anche prima di questa presa di coscienza, l’uso pervasivo dei supporti tecnologici mostra nel film un rovescio della medaglia: la macchine possono amplificare la malvagità umana.
Affidarsi in toto alla tecnologia consente a chi detiene il potere di controllare ogni aspetto della nostra vita, fino a poterci cancellare con un click.

Il pericolo degli algoritmi

Upgrade può essere considerato un prequel dei soliti Matrix o Terminator, la visione della genesi di un mondo dominato dalle macchine.
Come mostrato nel film, dei chip possono prendere il controllo di ogni aspetto della vita comune. La tendenza attuale porta ad immaginare un’epoca in cui le persone, soprattutto quelle più anziane, interagiranno solo con macchine. Ogni aspetto della vita, necessità di sostentamento e di salute, manutenzione della casa, intrattenimento, potrebbe essere regolato dalle intelligenze artificiali.
Amicizie, interazioni sociali, persino i bisogni sessuali saranno appannaggio delle macchine.
Molti si emozionano quando vedono un robot che si muove e parla come gli umani, anche se si tratta di una invenzione sommariamente inutile, puro marketing. Ben più reali e pervasive sono altre macchine, quelle che distribuiscono cibo, bevande, biglietti del treno e altri servizi.
Cosa succederà quando non ci sarà più nessuna necessità di interagire con altri umani? Gli algoritmi potrebbero creare un mondo in cui non ci sarà più bisogno del pensiero umano, quindi non ci sarà più bisogno dell’umanità. Si avvicina il metaverso, nel quale, come Grey nel finale del film o come l’umanità di Matrix, l’uomo può compiere la migrazione definitiva.
Lasciare la realtà ad altri, o alle macchine, per vegetare in una realtà simulata.
Il metaverso è stato fantascienza fino a poco tempo fa, adesso è una prospettiva tragicamente reale, all’accettazione della quale siamo stati guidati nel tempo anche dalle saghe letterarie e cinematografiche, dal Signore degli anelli a Star Wars: generazioni di ragazzi allettati dall’idea di vivere in mondi immaginari interagendo con i personaggi dei loro sogni.

Conclusione

Con l’esasperazione del concetto di specializzazione siamo giunti ad un mondo che separa in compartimenti stagni i vari campi della conoscenza umana.
Ogni prospettiva di progresso tecnologico è indipendente da considerazioni etiche, filosofiche, sociali, antropologiche. Il messaggio che ci arriva è: lo facciamo perché si può fare.
Non si considera che immettere delle innovazioni così totalizzanti e pervasive in un sistema mondiale dominato da rapporti di forza ed interesse di pochi può portare a danni enormi.
Il progresso tecnologico è comunque buono e indiscutibile, la scienza è assurta al rango di fede religiosa e dogmatica.
Domina un’attitudine che va oltre il più sfrenato positivismo e che sta mettendo le nostre sorti in mano a dei pazzi con il senso di responsabilità di un adolescente deviato, degli Eron Keen che ci porteranno fino al punto omega.
Lo scopo del test di Turing è quello di stabilire quando possiamo dire che una macchina è diventata intelligente come gli esseri umani. Forse dovremmo rovesciarlo: quando possiamo dire che gli esseri umani sono diventati stupidi come le macchine?

Locandina del film

Upgrade (Australia – 2018)

Regia Leigh Whannell
Soggetto e sceneggiatura  Leigh Whannell
Produzione Jason Blum
Kylie Du Fresne
Brian Kavanaugh-Jones
Interpreti Logan Marshall-Green: Grey Trace
Betty Gabriel: detective Cortez
Harrison Gilbertson: Eron Keen
Melanie Vallejo: Asha Trace
Benedict Hardie: Fisk Brantner
Linda Cropper: Pamela Trace
Fotografia Stefan Duscio
Montaggio Andy Canny
Musiche Jed Palmer
Distribuzione Universal Pictures
Data di uscita

10 marzo 2018 – 22 novembre (Italia)

Durata
100 minuti

 

Il trailer originale del film

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Larry Coryell – Il padrino della Fusion

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Un genio della chitarra che abbiamo perso nel 2017, Larry Coryell.
Insieme a Miles Davis, Weather Report e pochi altri è stato un padre fondatore di quello che oggi conosciamo come jazz-rock o fusion.
Un chitarrista considerato alla pari di nomi come Pat Metheny o John McLaughlin dagli aficionados del genere, ma trascurato dal grande pubblico nonostante dozzine di acclamati album a suo nome e numerose brillanti sessions e registrazioni, alle quali ha prestato il suo vario ed espressivo modo di suonare.

Daniele Pieraccini

«Se mi ascolti attentamente, in qualche modo esce fuori che vengo dal Texas»

Larry Coryell

Nato a Galveston, Texas, il 2 aprile del 1943 come Lorenz Albert Van DeLinder III, sordo congenito all’orecchio destro, Coryell cresce però nell’area di Seattle. All’età di quattro anni siede già al pianoforte; la sua formazione iniziale è classica, ma nell’adolescenza scoprirà la chitarra.
La sei corde lo affascina notevolmente, soprattutto nella versione fingerstyle di Chet Atkins.
Larry prova a copiare i licks che sente alla radio: su tutti quelli di Billy Butler su Honky Tonk, Pt. I di Bill Doggett e di Rick Derringer su Hang On Sloopy.
In quel periodo prende lezioni da John LaChappelle, un jazzista dell’area del Washington State, e si ispira ai dischi di chitarristi come Tal Farlow, Barney Kessel, Les Paul e Johnny Smith.

Tra le sue iniziali influenze Coryell cita anche Chuck Berry, John Coltrane e Wes Montgomery, oltre alla musica pop del periodo, su tutti gli immancabili Beatles.

A fine estate del 1965 Larry prende la sua Gibson Super 400 e due amplificatori, li carica in un Volkswagen Beetle blu e si dirige a New York, luogo che ritiene ideale per concretizzare la sua aspirazione ad entrare nel rock milieu. In realtà la sicurezza nella sua abilità di musicista non è totale, Coryell infatti si è preparato un piano B iscrivendosi all’università di Washington, facoltà di giornalismo.

Nella Grande Mela da subito si tuffa in pieno nelle jam proposte dai locali, suonando ovunque e con chiunque. Coryell è aperto a tutti gli stili ed i generi, pur mantenendo un’attitudine jazz che lo accompagnerà per tutta la vita.
La prima testimonianza su vinile della sua abilità chitarristica la troviamo su The Dealer del quintetto del batterista Chico Hamilton, datato 1965, nel quale Larry prende il posto che fu della sei corde flamboyant dell’ungherese Gábor Szabó, un altro grande innovatore dello strumento (suo lo splendido album Dreams del 1968).

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Chico Hamilton, The Dealer (Impulse, 1966)

«Il più grande musicista che sia mai vissuto per quanto mi riguarda è Jimi Hendrix. Ma lo odio perché mi ha portato via tutto ciò che era mio.»

Larry Coryell

In questo periodo di “apprendistato” di lusso, Coryell si distingue per l’uso di corde piuttosto spesse, alla Chuck Berry e per uno stile innovativo e rumoroso, con un timbro “fat” e quasi distorto, per niente lontano da quello di Jimi Hendrix.
La reputazione che Larry si costruisce all’interno del Greenwich Village lo porta a suonare con tutti i più grandi nomi dell’epoca. All’interno di questa libera ed eterogenea comunità conosce tutti e suona con tutti, sperimenta l’LSD, stringe amicizia con Robbie Robertson e Mike Bloomfield collaborando con musicisti rock-blues come con gli avant-jazzers. Miles Davis, Tony Williams, Buddy Miles, Mitch Mitchell, Stevie Winwood, Jack Bruce…lo stesso Hendrix, nel corso delle sessions effettuate insieme, “carpisce” a Coryell alcuni accordi e tecniche che assimilerà nel suo repertorio.

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The Free Spirits

Nel 1966 entra a far parte dei The Free Spirits, gruppo di matrice jazz che Coryell orienta verso un formato più rock. Il repertorio della band incorpora elementi psichedelici, garage e pop, che fonde in maniera originale nell’album Out of Sight and Sound, considerato come uno dei primi esempi di jazz-rock. Il successo non arriverà mai per la band, che si esibirà, perlopiù ignorata, in molte serate nel club newyorchese The Scene.
Nel 1967 Coryell lascia la formazione per unirsi al virtuoso vibrafonista dell’Indiana Gary Burton, ex Stan Getz Quartet.

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Con Gary Burton

«Le prime registrazioni che suggerivano che una sintesi artisticamente ed esteticamente soddisfacente di jazz e rock fosse possibile»

Larry Coryell

Due anni prima degli esempi nobili di Miles Davis (In A Silent Way) e Frank Zappa (Hot Rats), le regole del jazz-rock iniziano ad essere codificate con Duster e Lofty Fake Anagram, due album dalla grande forza immaginifica prodotti dal quartetto formato da Burton, Coryell, il bassista Steve Swallow ed il leggendario batterista jazz Roy Haynes nel primo LP, sostituito nel sequel da un altro pezzo da novanta dei tamburi, Bob Moses (già nei Free Spirits).
La scaletta di Duster è composta quasi totalmente da brani a firma di Burton, Carla Bley, Mike Gibbs e Steve Swallow e presenta melodie memorabili, costruite su fondamenta armoniche sofisticate, attraversate dal pirotecnico vibrafono suonato a quattro bacchette dal band leader.
Jazz, rock, blues, influenze orientali e altro entrano in collisione in queste tracce; alcune soluzioni possono sembrare datate e rozze oggi, ma l’insieme continua a mostrarci la brillantezza dello spirito di ricerca dell’epoca.
Un lavoro radicale, con il quale il rock inizia a farsi strada un po’ ovunque, nel panorama dei generi musicali.

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One, Two, 1-2-3-4

La chitarra di Coryell ruba talvolta la scena al leader Burton. In One, Two, 1-2-3-4, scritta da lui con Burton, la sua elettrica hollow body va in feedback ed è un principio di incendio musicale quello che ne scaturisce. Altrove Larry è invece espressivo ma misurato, decorando le tracce con il suo stile ibrido.
Nel successivo Lofty Fake Anagram il quartetto prosegue l’esplorazione musicale con eleganza e passione, avvalendosi di una serie di brani originali composti da Burton e Swallow.
L’interplay tra Coryell e Burton è di nuovo sugli scudi, anche se nel missaggio stavolta il volume della chitarra è decisamente più contenuto (l’ego dei musicisti band-leader?).
Intenzionato a proseguire il suo percorso di ricerca, Coryell lascia quindi la band. Gary Burton avrà al suo servizio negli anni a seguire molti altri chitarristi di talento, per citarne un paio Pat Metheny e John Scofield.

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Stiff Neck da Lady Coryell

The Jam With Albert

«Il chitarrista più inventivo e originale dai tempi di Charlie Christian»

Withney Balliett, critico jazz New Yorker Magazine

Oltre a partecipazioni in dischi di altri artisti, Larry sforna album solisti a ripetizione per la Vanguard records, dal primo Lady Coryell (1969) a Planet End (1975), oltre ad un paio di lavori per la Flying Dutchman.

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Wrong is Right da Spaces

Spaces, registrato a fine ’69, è il lavoro più noto. Il disco contiene in embrione quella che sarà la fusion degli anni settanta: tempi dispari, intrecci di chitarre e idee innovative al basso, tutto in bilico tra generi diversi.
Una scorpacciata di chitarre (con Larry troviamo John McLaughlin), sorretta ed arricchita da due nomi come Billy Cobham alle pelli e Miroslav Vitous al basso.

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Souls Dirge, da Fairyland

Call to the higher consciousness

Con la lunga jam Call to the Higher Consciousness contenuta in Barefoot Boy (1971) Coryell incontra anche il progressive rock; nello stesso anno esce pure l’album Live at the Village Gate, nel quale canta anche la moglie Julie Coryell. Si tratta di un album che documenta in maniera purtroppo incompleta un live del power trio composto da Larry, Mervin Bronson al basso e Harry Wilkinson alla batteria; la musica proposta si muove più in territorio rock che jazz, curiosamente potrebbe suggerire qualcosa su dove sarebbe andato a parare Hendrix se fosse sopravvissuto e si fosse avvicinato al jazz. Oltre alla Experience in questo live troviamo affinità anche con i Cream: è presente infatti anche un brano di Jack Bruce, con il quale Coryell ha suonato in tournèe un paio di anni prima.

«Volevo migliorare il contenuto intellettuale della fraseologia limitata del suonare rock e blues e, allo stesso tempo, iniettare più energia “down home” basata sul blues nelle idee jazz.»

Larry Coryell

A questo punto della sua carriera Coryell non e’ piu’ interessato ad assoli acrobatici, la sua attenzione è rivolta piuttosto all’improvvisazione di gruppo. Con un quintetto piu’ tradizionale (con Mandel e Marcus) Coryell registra Offering (gennaio 1972) e The Real Great Escape (1973)
Nello stesso periodo il chitarrista presenta la sua nuova band The Eleventh House, che esegue una sorta di hard rockin jazz fusion, con influenze prog e linee “metalliche” di synth.
All’epoca (basti pensare ai coevi Return To Forever e Mahavishnu Orchestra) molti musicisti di talento erano attratti dall’idea di trovare la propria “voce” espressiva creando una personale visione del jazz.

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Live at the Village Gate

The Eleventh House

Robuste dosi di rock, blues e funk erano pompate nelle sessions di questi artisti; la componente pop era conseguenza del successo di nomi come Stevie Wonder o Aretha Franklin.
Le potenzialità commerciali del genere fusion non sono ancora la priorità. Per il momento si esplorano nuovi territori in ambito musicale; i musicisti jazz, “elettrificandosi”, ambiscono a costruirsi una nuova identità musicale, a sviluppare uno stile personale, una voce propria.
Il grande pubblico conoscerà la fusion dopo la metà dei ’70, quando le composizioni si faranno più semplici o quantomeno più orecchiabili. I dischi jazz-rock si orienteranno verso il successo commerciale, pur restando in gran parte lavori di gran pregio musicale prodotti da musicisti di talento.
Il percorso indicato dal lavoro e dalle intuizioni di pochi come Coryell si sposta in uno scenario più vasto: la fusion diviene un fenomeno di portata mondiale.

«Ho lasciato o perso interesse per tutto. A quel punto il mio obiettivo più importante era bere birra e sballarmi…»

Larry Coryell

Nel 1977 Larry corona un altro sogno: collabora con Charles Mingus nell’album Three or Four Shades of Blue. Nel 1978 suona in ben sette albums; l’anno dopo forma un super trio chitarristico con la vecchia conoscenza John McLaughlin ed addirittura Paco De Lucia. Il terzetto parte per un tour europeo che Coryell non porterà a termine: l’abuso di droghe ed alcol lo ha condotto ad un crocevia di vita o morte. La scelta del nostro è solida e definitiva, tanto che, uscito dalla riabilitazione, resterà “pulito” fino alla fine.

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Mingus – Three or four shades of blue

Negli anni ottanta Larry, che nel frattempo si è dedicato al buddismo di Nichiren, prende sotto la sua ala protettiva la giovane chitarrista Emily Remler, con la quale incide Together, un album di duetti chitarristici del 1985. Con la collega intreccia anche una relazione sentimentale, ma i suoi tentativi di salvare la ragazza dalla dipendenza da eroina non hanno successo: la Remler morirà a soli 32 anni.

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Larry Coryell And Emily Remler – Joy Spring

«Quando sono uscito dalla riabilitazione, ero determinato che qualunque cosa sarebbe successo nella mia vita, non sarei più tornato a quello stile di vita velenoso e distruttivo»

Larry Coryell

Forse perso l’interesse per la fusion, Coryell riscopre il suo lato folk e classico, compiendo così una inversione dal punto di vista stilistico ma non di attitudine verso la ricerca.

Gli anni che seguono la ripresa infatti sono prolifici più che mai e mettono in severa crisi i musicologi che cercano di catalogare l’arte prodotta da Larry. Pur avendo ripiegato quasi integralmente sulla chitarra acustica, le sue ricerche continuano a riguardare molti territori diversi. Jazz, post bop, fusion, folk, rock ,blues, bluegrass, musica modale indiana, musica brasiliana, rivisitazioni di compositori classici…questo eterno, umile, studente mostra lo stesso fuoco, la stessa voglia (e, in certe occasioni, anche la stessa velocità di esecuzione sulla sei corde!) della gioventù.

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‘Round Midnight

Larry Coryell, Monk, Trane, Miles & Me (HighNote, 1998)

C’è un rovescio della medaglia: il suo stile musicale (e di vita) improvvisato lo priva, almeno dagli anni ’80 in poi, di un percorso coerente nella produzione artistica. Le collaborazioni, forse a volta frutto del caso, mettono in evidenza sia il suo bagaglio tecnico che un certo appiattimento privo di reali necessità narrative.
Detto questo, Coryell lascia qualche zampata di classe anche negli ultimi decenni, via via distillando le note e rallentando, come per ritrovare una via meditata alle proprie radici, alle proprie origini. Sorprendendo però, tanto per non smentirsi, con gli ultimi due dischi, decisamente elettrici.
The Lift (2013) per esempio è un tuffo all’indietro nell’energia dei suoi primi dischi solisti, grooves e progressioni “semplici” ma funzionali, convincenti ed incredibilmente freschi.

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The Lift

«Il tuo karma è sempre davanti a te. È sempre lì. E attraverso la pratica puoi cambiare il tuo karma. Attraverso la pratica puoi trasformare la negatività in positività.»

Larry Coryell

Nel febbraio 2017 Larry ci saluta, lasciando al mondo un’eredità artistica raccolta nel tempo da chitarristi come John McLaughlin, Bill Connors, Al Di Meola, Allan Holdsworth, Steve Kahn, Scott Henderson e Mike Stern, per citarne alcuni.
Nel corso della sua carriera Coryell ha saputo trasmettere, senza esibizionismi artificiosi, tutta la bellezza e l’inquietudine della chitarra, la sua l’immediatezza ed i suoi risvolti misteriosi.
Per gli appassionati di musica che pensano fuori dagli schemi, questa leggenda della musica riserva un archivio monumentale di gemme da scoprire.

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1997 – Il principio dell’arca di Noè: quando il riscaldamento NON è globale

By CinemaNo Comments

In un ipotetico 1997, sulla stazione spaziale euro-statunitense “Florida Arklab”, orbitante intorno alla Terra e in grado di controllare il clima ovunque sul pianeta, si svolgono rilevamenti meteorologici ed esperimenti scientifici per modificare il clima di alcune zone del mondo.
Un progetto che, nato come civile, potrebbe essere in realtà usato come arma offensiva, poiché in grado di causare devastazione a qualsiasi potenziale avversario semplicemente creando disastri naturali come tempeste e inondazioni.

The Boss

1997 – Il principio dell’arca di Noè (Das Arche Noah Prinzip) è un film di fantascienza scritto e diretto da Roland Emmerich come tesi per la scuola di cinema HFF di Monaco di Baviera. Il film mette in evidenza problematiche sui rapporti tra Stati Uniti d’America ed Europa e tra scienziati e militari.

Sinossi

Il film si svolge nel 1997, 13 anni nel futuro rispetto all’uscita nelle sale. La pace nel mondo sembra raggiunta e le tipiche armi di distruzione di massa risultano ormai abbandonate. Tuttavia sulla stazione spaziale euro-statunitense “Florida Arklab”, orbitante intorno alla Terra e in grado di controllare il clima ovunque sul pianeta, si svolgono rilevamenti meteorologici ed esperimenti scientifici per modificare il clima di alcune zone del mondo.
Un progetto che, nato come civile, potrebbe essere in realtà usato come arma offensiva, poiché in grado di causare devastazione a qualsiasi potenziale avversario semplicemente creando disastri naturali come tempeste e inondazioni.
La stazione spaziale diventa presto il punto centrale delle crescenti “tensioni politiche” tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Successivamente a un colpo di Stato in Arabia Saudita, ai due astronauti presenti sulla stazione, Max Marek e Billy Hayes, viene chiesto di effettuare pesanti irraggiamenti in Medio Oriente. I due, rifiutatisi, verranno sospesi e sostituiti da Gregor Vandenberg e da Eva Thompson, moglie di Max.

Max e Billy scopriranno tuttavia che le attività di irraggiamento altro non sono che tentativi militari di mascherare una controffensiva al colpo di Stato in Arabia. Vandenberg si rivelerà essere una spia che saboterà il reattore della stazione, il quale, non reggendo al sovraccarico, costringerà i due sopravvissuti Billy ed Eva a fuggire in extremis a bordo dello shuttle.
Tornato sulla Terra, Billy fa rapporto al suo superiore, Felix Kronenberg, e questi gli confessa che gli americani hanno tentato di usare la stazione come arma ma hanno commesso un errore e hanno causato tempeste e inondazioni con milioni di vittime.
La loro testimonianza è chiaramente pericolosa, quindi i due astronauti verranno portati altrove, mentre il telegiornale informa della loro morte a causa di presunte radiazioni assorbite nello spazio.

Roland Emmerich

Emmerich è nato a Stoccarda, nella Germania occidentale, ed è cresciuto nella vicina città di Sindelfingen. Da giovane, ha viaggiato molto in tutta Europa e nel Nord America durante le vacanze finanziate da suo padre, Hans, ricco fondatore di un’azienda di produzione di macchine da giardino.
Nel 1977, iniziò a frequentare l’Università di Televisione e Cinema di Monaco con l’intenzione di diventare scenografo. Dopo aver visto Star Wars, decise invece di iscriversi al corso di regia della scuola.
Dovendo portare un cortometraggio come tesi finale nel 1981, egli invece scrisse e diresse il lungometraggio The Noah’s Ark Principle e mentre i suoi compagni studenti in genere riuscivano in media a raccogliere sui 20.000 marchi tedeschi per finanziare il loro lavoro finale, Emmerich riuscì invece ad ottenere un budget di 1.200.000 DM (circa 600.000 dollari USA).

Il film, girato a colori con audio mono, venne proiettato come opera di apertura del 34° Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 1984, ricevendo consensi per abilità tecnica ed effetti speciali, pur non vincendo premi ma venendo comunque distribuito in ben 20 nazioni.

Dopodichè Emmerich volò a lavorare ad Hollywood con la sorella Ute e il resto è storia conosciuta, fatta di eccessi arcobalenici, fama e risibili e tronfi colossal catastrofici hollywoodiani che non ci interessano.

Quello che invece vorremmo sapere è come potesse un “oscuro” laureando in cinematografia ad essere a conoscenza delle attuali guerre climatiche già ad inzio anni 80 e oggi diventare, al contrario, accanito “avvocato” di un presunto ma tanto sbandierato riscaldamento globale.
Questo resta un mistero che solo lui potrebbe svelarci.

Interessante in merito il seguente articolo di cui si consiglia la lettura.

Locandina del film

1997 – Il principio dell’arca di Noè (Germania Ovest – 1984)

Regia Roland Emmerich
Soggetto e sceneggiatura Roland Emmerich
Produzione Wolfgang Längsfeld
Hans Weth
Peter Zenk
Interpreti Richy Müller: Billy Hayes
Franz Buchrieser: Max Marek
Aviva Joel: Eva Thompson
Matthias Fuchs: Felix Kronenberg
Nikolas Lansky: Gregor Vandenberg
Fotografia Egon Werdin
Montaggio Tomy Wigand
Musiche Hubert Bartholomae
Distribuzione Filmverlag der Autoren
Data di uscita

February 22, 1984

Durata
100 minuti

 

Il trailer originale del film

Yamaha RY30

Yamaha RY 30: Intelligente, sobria, funzionale e…sorprendente!

By Batterie elettroniche vintage Japan2 Comments

Forse la batteria elettronica più sottovalutata della storia, questa creazione Yamaha si rivela essere un piccolo soundsystem, una sorta di Roland TR-909 dei 2000!
Realizzata nei primi ’90, la RY 30 include le innovazioni della R8 e va oltre, includendo il tutto in un design elegante e funzionale.

Daniele Pieraccini

Dagli anni novanta arriva questa elegante drum machine dalle funzioni avanzate e con grandi suoni

Suoni creati da un motore di sintesi basato su campioni della ottima serie SY/TG di sintetizzatori digitali Yamaha. Rispetto alla sua diretta concorrente dei tempi, la Roland R8, è molto più facilmente programmabile ed intuitiva nell’uso.

Forse la batteria elettronica più sottovalutata della storia, questa creazione Yamaha si rivela essere un piccolo soundsystem, una sorta di Roland TR-909 dei 2000!
Realizzata nei primi ’90, la RY 30 include le innovazioni della R8 e va oltre, includendo il tutto in un design elegante e funzionale.
La qualità dei suoni è notevole per potenza, chiarezza e dinamica, sfruttando dei sample 16-bit a 48kHz, con una conversione 22-bit D/A.

Principali caratteristiche

• 12 pad “touch sensitive” per regolare la dinamica della singola nota
• 12 pad bank o set di strumenti, l’ultimo, pitch bank, è un solo strumento (basso) in 12 tonalità
• 128 voci (suoni aggiuntivi possono essere inseriti tramite card ROM

Ogni voce può comporsi di una forma d’onda o una combinazione di due diverse forma d’onda

• 100 pattern preset in vari stili musicali pronti per l’uso
• 100 pattern user
• 2 demo songs
• 2 user songs

Utilizzo

E’ possibile registrare i pattern suonando sui pad in tempo reale (real time record) o in step record, inserendo le note su una griglia. La quantizzazione da assegnare alle note va da 1/8 a 1/96.
Dopo la registrazione vari parametri sono modificabili nota per nota con precisione estrema in modalità step record.
Intervenire su vari parametri del singolo suono è consentito anche in tempo reale, manualmente, da una geniale rotellina (control wheel), simile a quella dei synth. Possiamo modificare intonazione (pitch), decay della nota, posizionamento a destra o sinistra del suono (pan), filtro frequenze e bilanciamento tra le due forme d’onda del suono.
La memoria del singolo pattern ha un limite, può essere frustrante se si realizzano sequenze molto “affollate” di note o strumenti.

Aspetto

Il pannello frontale presenta, da sinistra in alto: control wheel, selettore dei parametri, volume, cursore controllo parametri, 16 piccoli pulsanti di selezione (qui, all’inizio, le cose possono sembrare disordinate e poco comprensibili), pulsanti registrazione, stop e play.
In basso troviamo pulsanti per il controllo parametri, per il tocco dinamico dei pad (sense) e per cancellare note o frasi intere registrate (clear). Infine abbiamo i 12 pad degi strumenti.
Sopra a tutto questo il display LCD.

Il pannello posteriore è dotato di: presa alimentazione (15V 500mA), il pulsante on/off, presa cuffie, uscite jack stereo, due uscite jack individuali da assegnare a strumenti a scelta, uscita jack foot SW, una uscita per registratore a cassette (non dimentichiamoci che siamo nei primi ’90…) per fare un backup dei dati, MIDI in e out e slot per le WAVE CARD.

Conclusione

Difficile annoiarsi con questa piccola macchina. Questa bellezza è una batteria elettronica realistica, un synth, un sequencer e altro. Si possono creare brani e pattern complessi e dal suono interessante, grasse linee di basso e soli di sintetizzatore.
Perfetta per musica elettronica ed astratta (il gruppo scozzese Autechre realizzò, nel 1996, un intero EP usando solo la RY 30, “We R Are Why / Are Y Are We?”) ma efficace anche in contesti rock, latin, reggae, tribal…niente da dire, un prodotto Yamaha magico e proiettato nel futuro.

Considerando che, ad oggi, i prezzi sul mercato dell’usato della RY 30 sono sempre abbordabili, trovarne una rappresenta un grande affare.

Per dare un’idea delle possibilità della Yamaha RY 30 ho realizzato un video dimostrativo, usando solo i suoi suoni e qualche plug-in di Mixcraft.

Buona visione e soprattutto buon ascolto!

GUARDA e ASCOLTA la demo di questa YAMAHA RY30

Odyssey b500ws

Odyssey Semiacustic Series B500WS – Il Sogno di Attila Balogh

By Bassi vintage canadesi, Personaggi StoriciNo Comments

Attila Balogh era il creatore degli strumenti Odyssey, gli Odyssey erano e sono, a detta di chi li ha provati, gli strumenti più comodi da suonare mai realizzati.
Attila Balogh per arrivare a questo risultato ha investito tutto sé stesso, impiegato ogni sforzo, ci ha rimesso addirittura la vita.
Attila era un personaggio unico ed è stato un grande liutaio, completamente dedicato alla sua passione, il lavoro della sua vita: la ricerca della chitarra perfetta.

Lorenzo

E’ fin troppo facile trovare assonanze tra Attila Balogh e Mario Maggi ma così sono i veri geni: personaggi estremamente affascinanti, che vivono per la loro visione, talmente dedicati che non puoi che ammirarli e amarli.

La biografia “Attila Balogh & the quest for the perfect guitar” di Craig Jones

Attila Balogh nasce in Ungheria nel 1948 in una famiglia di artisti che nel 1956 scelsero di lasciare il paese per sfuggire al comunismo e, dopo una sosta in Belgio, nel 1959 decisero di stabilirsi definitivamente in Canada.

Il piccolo Attila cresce ereditando lo spirito artistico e la mente aperta del padre e, dopo essersi espresso in molteplici campi, approda al mondo della liuteria, acquisendo in breve un’abilità fuori dal comune. Ancora giovanissimo prende la storica decisione: ogni suo sforzo sarà concentrato nella creazione dello strumento perfetto e a detta di molti ci si è avvicinato terribilmente.

Balogh con Stanley Clarke

Nella sua breve vita è riuscito a fondare la Odyssey Guitars Limited nel 1976 a Vancouver e in sei anni produrre circa 2000 strumenti artigianali tra chitarre e bassi.

Come logo scelse un piccolo disco di ottone incastonato sulla paletta con inciso sopra un piccolo baffo e questi strumenti furono suonati dai alcuni dei più grandi musicisti a livello mondiale.

Poi Attila morì nel suo laboratorio a soli 34 anni, portando con sé la magia e il suo lavoro finì quasi dimenticato, finché il marchio venne rilevato dai suoi vecchi soci che ricominciarono la fabbricazione di strumenti di tipo più comune.

Ma per la storia di Attila Balogh vi lasciamo al libro di Craig Jones e ci concentriamo su questo bellissimo basso BW 500WS, uno dei soli 10 esemplari fretless esistenti al mondo (del modello B500 furono prodotti non più di 50 esemplari, tra i quali i fretless che erano costruiti solo su richiesta) e sicuramente l’unico esistente in Italia.
Dotato di camere tonali, è un semiacustico a cassa chiusa equipaggiato con una coppia di pickup passivi Bartolini, molto potente, suono straordinario.

Prodotto tra il 1979 e il 1980, il basso è in ottime condizioni, completamente originale tranne per il pickup al manico che è stato spostato al ponte. E’ uno strumento che si trova perfettamente a suo agio nel jazz come nel rock e nella fusion.
I B500 erano il top di gamma della serie B, che veniva prodotta nelle versioni 100, 200, 300, 400 e 500 appunto. Il basso appartiene ad Armando che, con molto dispiacere, ha deciso di darlo via.
Gli interessati possono contattarlo all’indirizzo mail

GUARDA  e ASCOLTA la demo di questo ODYSSEY B500 WS

La chitarra più grande del mondo!

Vale la pena di menzionare una delle più curiose trovate di Attila Balogh: la chitarra più grande del mondo.

La gigantesca chitarra è praticamente una enorme serie G e fu costruita nel 1977 in 500 ore di lavoro nell’arco di 6 mesi da Attila e i due soci Ken Lindemere e Joseph Sallay per fare pubblicità alla Odyssey e lasciata in esposizione al negozio Iron Music di Vancouver e alle fiere tra le quali il Namm di Chicago e il MIAC in Canada.

Questo bestione, equipaggiata con parti in ottone, veri pickup DiMarzio e corde da pianoforte, pesa la bellezza di 160 kg, è lunga poco meno di 3 metri ed è perfettamente suonabile da qualsiasi gigante!

Balogh e soci con la chitarra gigante

PS-2

Boss PS-2 – Piccola Fabbrica dei Sogni

By Pedali Vintage JapanNo Comments

Il PS-2 è stato a lungo uno dei pedali più dimenticati della storia, almeno dal sottoscritto, che si limitava a usarlo in cascata con altri delay per i suoi 2 secondi di ritardo senza rendersi conto di avere in realtà sottomano un autentico coltellino svizzero con tante possibilità delle quali nemmeno Boss deve essersi resa conto.

Lorenzo

Non sapevo di avere in mano un’autentica perla da Shoegaze (Slowdive, Stars of The Lid, Mono) e non sapevo che questo pedale fosse praticamente un fratello minore del RPS-10, leader della serie Mini Rack e oggi ormai uno dei più ricercati effetti vintage di casa Boss/Roland.

Ma scendiamo nei dettagli di questo pedale.

Il PS-2 è un un multieffetto in formato pedalino Boss che contiene sia il primo Pitch Shifter prodotto dalla Boss che un delay digitale di vecchia generazione, quindi molto caldo, con tempi di ritardo variabili da 30 a ben 2000 ms e all’epoca per prestazioni del genere si poteva solo sgranare gli occhi.
Il pitch può essere settato di una ottava in basso o in alto rispetto al suono sorgente oppure regolato manualmente come desiderato.

Le modalità di utilizzo sono sei:

• da 30 a 125 ms di delay
• da 125 a 500 ms di delay
• da 500 a 2 secondi di delay
• settaggio manuale del pitch shift
• +1 ottava
• -1 ottava

Il velocissimo circuito di pitch shifting del PS-2 elimina virtualmente qualsiasi problema di ritardo e le differenze di qualità del segnale tra il suono sorgente e i suoni trattati con pitch shift o delay.
Si ottengono chorus, ottava e una varietà di effetti di armonizzazione con pitch shifting di qualità (twin guitars, effetto 12 corde e svariate possibilità di effetti più o meno particolari) e la conferma della tonalità di pitch è disponibile tramite l’uscita Tuner Out collegando un accordatore cromatico.

Sarà proprio quest’ultima a riservare un’ulteriore sorpresa poiché da li esce il segnale di un oscillatore integrato nel circuito del pedale che può essere pilotato appunto con il controllo Fine/Manual e processato attraverso gli effetti del pedale stesso, come si può vedere nel finale della demo di Pepe Music.

Demo del BOSS PS-2 a cura di Pepe Music

Certo con i multieffetti digitali mascherati da pedale che ci sono in giro oggi, macchinette come il PS-2 non fanno più molto “effetto” ma il tutto va rapportato al contesto e uno strumento del genere nella seconda metà degli anni 80 era una cosa mai vista, certamente non capita in tutto il suo potenziale e che riserva ancora oggi le sue belle sorprese come autoscillazioni profonde e violente, un pitch shifter low-fi e sorprendentemente utilizzabile in molti ambiti, un delay lunghissimo e dalla pasta sonora calda che non fa rimpiangere un eco analogico.

La quantità di effetti possibili viene sviscerata nelle demo allegate all’articolo, una delle quali (quella dell’ottimo canale YouTube Pedal Partners) è in realtà un viaggio psichedelico sotto forma di piccolo art-film da gustarsi più e più volte, in loop.

GUARDA e ASCOLTA la demo del BOSS PS-2 di P. P.

BOSS PS-2 Digital Pitch Shifter/Delay

Specifications
• Controls: Balance (between effect in direct signal), Feedback (for amount of repeats, and very unique pitch shifting effects), Fine-Manual (for adjusting delay times and pitch) and Mode (for selecting any of the 6 modes).
• Connectors: Input, Output, Tuner Out (for plugging into a tuner), AC Adaptor
• Current Draw: 60 mA (DC 9V)
• Weight: 460g/1.01 lbs.
• Input Impedance: 1Mohm
• Residual Noise Level: -90dBm (IHF-A)
• Recommended Load Impedance: 10kOhm or greater
• Delay Time: 30ms to 2000ms
• Frequency Response: 10Hz to 30kHz, +1/-3dB (Direct)
• Recommended AC Adaptor: PSA Series

Etichette
• Blue – Made In Japan
• Blue – Made In Taiwan

Il PS-2 venne commercializzato da ottobre 1987 fino a marzo 1994.

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Vigalondo, Stearns, López-Gallego: TRE REGISTI DA TENERE D’OCCHIO

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Sotto i radar dell'attenzione pubblica verso il cinema, passano talvolta autori degni di nota, con una loro poetica nell'affrontare problematiche legate ai rapporti umani.
In questi tempi di progressivo ottundimento, di allontanamento dalla nostra vera essenza, la visione di certi film ci riporta, con coraggio ed impegno, a tutto quello che dovrebbe essere centrale nelle nostre vite.

Daniele Pieraccini

Parleremo di tre registi che ci hanno colpito particolarmente, grazie al loro sguardo inusuale ed intelligente sulla tossicità che spesso caratterizza le interazioni sociali.
Si tratta di tre autori che la sanno lunga su tematiche non solo “terrene” e che, evitando stili ricercati e pretenziose atmosfere “d’autore”, dicono quello che hanno da dire con semplicità, direttamente ma evitando ogni banalità. E occhio ai diversi livelli di lettura di film come Colossal, Open Grave e Dual

Nacho Vigalondo

Spagnolo, classe 1977, è spesso anche sceneggiatore dei film che dirige. Compare anche come attore, in sue e di altri produzioni. Esordisce con una serie di cortometraggi molto interessanti, dal 1999 al 2007, prima di dirigere il suo primo lungometraggio Timecrimes. Seguono altri corti e tre film, Extraterrestre, Open Windows e Colossal, oltre a contributi agli horror antologici The ABCs of Death e V/H/S: Viral.

Vigalondo ha un indubbio talento nello sviluppare grandi idee (grandi inteso proprio come scala di importanza) su una scala intima dei rapporti umani. Grazie alle sue indubbie competenze bastano pochissimi mezzi economici e pochi attori: la profondità dei concetti espressi è decisamente top class. Il genere fantastico è piegato a piacimento per parlarci delle dinamiche dei rapporti umani della società.
La fantascienza da lui proposta, per quanto epica, funge da sfondo a vicende umane ispiratissime narrate con magistrale intelligenza e senso del ritmo, che lasciano dentro allo spettatore ben altro rispetto ai blockbuster hollywoodiani dal vuoto intellettivo dissimulato da tonnellate di effetti speciali.

– Personaggi falsi, distruttivi e tossici nelle relazioni: i veri mostri sono dentro di noi.

Da vedere:

7:35 de la mañana – cortometraggio (2003)
Marisa – cortometraggio (2009)
Timecrimes (Los Cronocrímenes) (2007)
Extraterrestre (2011)
Colossal (2016)

Premi Play per guardare il cortometraggio MARISA di Nacho Vigalondo

Riley Stearns

Anche lo statunitense Riley Stearns (1986) si fa inizialmente notare per dei cortometraggi, per poi passare alle opere di lunga durata, dei quali cura anche la sceneggiatura. Il suo film di debutto è Faults, del 2014, seguito da The Art of Self-Defense del 2019 e dal recentissimo Dual.

Con uno stile asciutto, semplice ma efficace, Stearns mette in scena delle satire bizzarre, dirette ma sottili al tempo stesso, che espongono la sua visione sulle attuali articolazioni dei rapporti umani e sociali e sui loro futuri sviluppi.
Dual, in particolare, visto il tema trattato e la glacialità con cui è rappresentato, sembra l’episodio mancante della serie Black Mirror, solo ancora più spietato nella sua satira sociale.

– I protagonisti delle storie narrate da Stearns sono accomunati dall’avere tratti e comportamenti piuttosto autistici, avvolti da una apparente atarassia che li rende facili vittime di manipolatori ipocriti dai doppi fini.

Da vedere:

The Cub – cortometraggio (2013)
L’arte della difesa personale (The Art of Self-Defense) (2019)
Dual (2022)

Premi Play per guardare il cortometraggio THE CUB di Riley Stearns

Gonzalo López-Gallego

Un altro iberico ha lasciato il segno con un’opera impressionante, Open Grave, che sospettiamo debba molto alla sceneggiatura di Eddie e Chris Borey. I due hanno elaborato anche lo screenplay per Boss Level, un notevole action movie basato su un loop temporale.

Gonzalo López-Gallego (1973), autore dell’horror fantascientifico Apollo 18, realizza nel 2013 un altro horror, stavolta post-apocalittico, che non può lasciare indifferente chi cerca qualcosa di più in un film oltre a divertimenti e spaventi superficiali.
Un approccio fatto di dura realtà materica, per parlare di qualcosa di estremamente esoterico.
E un ammonimento sul ruolo della memoria e sui meccanismi che si creano quando viene resettata.
Leggete la recensione del film sul blog e soprattutto guardatelo!

– Tra i diversi livelli di lettura e prima dell’efficace “twist” finale, altre dimostrazioni delle patologie che disturbano i rapporti umani: brutale e sparata in faccia quella dello “zombie” intrappolato nel filo spinato, che implora aiuto solo per trascinare con sé all’inferno chi prova empatia per lui.

Da vedere:

Open Grave (2013)

Premi Play per guardare una scena tratta dal film OPEN GRAVE di Gonzalo Lopez-Gallego

Il trailer del film COLOSSAL di Nacho Vigalondo

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Open Grave (2013) – L’Importanza della Memoria

By CinemaNo Comments

Mai come in questo momento ci rendiamo conto dell’importanza della memoria.
Quando la vera Epidemia è di inconsapevolezza, di ignoranza, di cieca e smarrita paura, come si può trovare una cura?

The Boss

E’ in momenti come questo, dove la realtà sembra sfuggirci, dove la vera storia viene stravolta, dove chi dovrebbe occuparsi del benessere e della salute dei popoli pare invece cospirare contro di essi, dove una teorica epidemia sanitaria si rivela invece essere un’epidemia di stupidità e inconsapevolezza, dove i nostri stessi fratelli diventano i nostri nemici, che ci si rende conto dell’importanza del ricordo.

Il ricordo di noi stessi in primis ma anche il ricordo della Storia Vera, che qualcuno deve assolutamente custodire da chi cerca di offuscarlo tanto fino a stravolgerlo.

Quando la vera Epidemia è di inconsapevolezza, di ignoranza, di cieca e smarrita paura come si può trovare una cura?

Cercano di dare una risposta al quesito i fratelli soggettisti Eddie e Chris Borey (in seguito autori dell’ottimo e niente affatto scontato Boss Level) e il regista Gonzalo López-Gallego (Apollo18, King of the hill) nel loro Open Grave che, come è tipico di questo sito, non è un film facile, non tanto da guardare quanto da interpretare.

Locandina del film

l maggior problema è che buona parte del pubblico non ha ancora chiaro il fatto che i film di genere fantastico, siano essi horror o fantascienza, vengono spesso utilizzati come parabole per raccontare verità più o meno astratte e che se si vuol cercare di capire cosa accade e cosa è in progetto di far accadere nel futuro geopolitico, bisogna necessariamente interfacciarsi a questo tipo di cinema, essendo in realtà praticamente solo pura invenzione il resto, soprattutto quello definito drammatico o addirittura basato su una storia vera.

In pratica “se vuoi vedere la realtà devi guardare il mondo attraverso te stesso e scoprirai il segreto della vera pietra filosofale”. Quindi servono talora delle chiavi di lettura che vanno studiate, analizzate e capite ma sostanzialmente la verità, che si crede celata, lo è in realtà solo davanti agli occhi dei popoli.

Ci vogliono quindi le chiavi ma soprattutto una mente attiva, cosa purtroppo piuttosta rara in una società di cervelli spenti come quella attuale, che è abituata al solo fracasso altrimenti l’attenzione cala durante i primi 5 minuti e in tal caso difficilmente andrà oltre i 10-15 minuti di visione.

Una breve sinossi

Un uomo si sveglia dentro ad una fossa comune piena di cadaveri, senza ricordare neppure il proprio nome. Una ragazza gli getta una fune e lo aiuta a trarsi in salvo.
In seguito l’uomo cammina fino ad una casa dove trova altri personaggi tutti quanti completamente senza memoria.
Senza perdere tempo in presentazioni, iniziano subito gli scontri dettati da smarrimento e paura. Dopo un po’ di ricerche scoprono le loro identità.

L’uomo che era nella fossa, che non ha carta d’identità, si chiama in realtà John Doe, il tedesco è Lukas e gli altri tre sono Sharon, Nathan e Michael. Non ci sono documenti per la donna muta, quella che ha salvato John.

Lukas continua ad essere ostile nei confronti di John, soprattutto quando il gruppo scopre un’immagine che li contiene tutti, ad eccezione di John, che si scoprirà chiamarsi invece Jonah.
Trovano poi anche un calendario che suggerisce che qualcosa accadrà tra due giorni (il 18), ma non ci sono note per indicare cosa.

Il gruppo inizia ad esplorare l’area circostante trovando corpi legati e flagellati e da qua in avanti comincerà a dipanarsi la matassa, fino all’evocativo finale che avverrà proprio il 18.

Sharlto Copley è John

Il film, come spesso accade a film o libri “scomodi”, è stato ipocritamente vietato ai minori di 18 anni negli Stati Uniti d’America per la presenza di «forte violenza, immagini disturbanti e linguaggio non adatto» – quando tutti sanno che si vede continuamente molto di peggio in una qualsiasi serie tv – ed è stato accuratamente stroncato dalla critica però è riuscito ad ottenere alcuni riconoscimenti in luoghi appropriati e sicuramente un giorno verrà riscoperto ed entrerà tra i cosiddetti film cult. Speriamo non sia già troppo tardi.

Ma intanto guardatevi il film e poi ne riparliamo.

Josie Ho è la ragazza muta

“Open Grave” (USA, Ungheria – 2013) di Gonzalo López-Gallego

Regia Gonzalo López-Gallego
Soggetto e sceneggiatura Eddie e Chris Borey
Produzione Atlas Independent
Interpreti Sharlto Copley: John / Jonah
Joseph Morgan: Nathan
Thomas Kretschmann: Lukas
Erin Richards: Sharon
Josie Ho: donna muta
Max Wrottesley: Michael
Fotografia José David Montero
Montaggio Gonzalo López-Gallego
Musiche Juan Navazo
Distribuzione Eagle Pictures (Italia)
Data di uscita

14 agosto 2013 (Italia)

Durata
102 minuti

 

UNA SCENA DAL FILM OPEN GRAVE

Riconoscimenti

• 2014 – Golden Trailer Awards
Candidatura per il miglior trailer horror

• 2014 – Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna
Candidatura per il miglior film

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Per un pugno di idee – 5 precursori di grandi successi hollywoodiani

By Cinema, Personaggi StoriciNo Comments

Dove nascono le idee? Come si sviluppano? Chi ha le possibilità, economiche e di marketing, di realizzare e diffondere un prodotto di successo ma cerca un'idea nuova e potente, dove la trova? Bastano le menti degli scrittori di cinema delle grandi case di produzione o talvolta bisogna rubare qua e là?

Daniele Pieraccini

Negli studi di Hollywood ne sanno qualcosa. Il panorama cinematografico mondiale offre spunti inesauribili di idee: in particolare il vecchio continente e l’Asia sono da sempre fonti di ispirazione più o meno derivativa per i produttori statunitensi.
Si prende un film interessante, con un concetto geniale e lo si converte in prodotto per le masse, attuando le dovute modifiche per andare incontro ai gusti del grande pubblico e spettacolarizzandolo con trovate visive “esplosive” e volti noti di superstars. Un processo che è sempre stato applicato per esempio anche nella musica pop e rock.

Ovviamente anche dai celebri studi nel Sunset Boulevard sono usciti lavori di un certo spessore, ma dobbiamo tenere ben presente che stiamo parlando di una vera e propria industria a scopo di lucro, una macchina finanziaria più che artistica, con regole e gerarchie rigidissime che riguardano anche l’aspetto creativo.

Vogliamo dunque presentarvi, tra i molti, cinque film che hanno fatto da precursori a grandi successi al botteghino, alcuni reiterati in sequel, remake, reboot o veri e propri franchise. Ci pare giusto riconoscere a certe opere e a chi le ha concepite il valore aggiunto di anticipatori più o meno oscuri alle masse.

1 – “Il mondo sul filo” diventa “Matrix”

Gli autori del franchise con protagonista Keanu Reeves hanno dichiarato di essersi ispirati a pellicole di animazione nipponiche come Akira, Ghost In The Shell e Ninja Scroll. Nessuna menzione per un altro anime, Megazone 23 che è quello da cui hanno attinto più dettagliatamente.

Esaminando meglio, sono molteplici le “fonti” a cui si sono abbeverati i Wachowski, tra le altre vale la pena ricordare il noir fantascientifico Dark City, il romanzo Ubik di P.K. Dick ma, soprattutto, il film per la tv Il mondo sul filo (Welt am Draht) di Rainer Werner Fassbinder, uscito nel 1973 e poi ripreso in maniera aggiornata e più soft a fine millennio nel film Il tredicesimo piano di Josef Rusnak.

Fassbinder, basandosi sul romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye, mette in scena una vicenda sorprendentemente attuale, modernissima: un programma di realtà virtuale crea un mondo i cui abitanti vivono come autentico, un mondo fatto di realtà aumentata e di simulazioni paradossalmente più vere del vero. In questo ambiente solo una “persona di contatto” è cosciente di vivere in una simulazione.
Nei primi anni settanta eravamo ben lontani dalla società dei big data e dal mondo compresso e istantaneo del digitale come lo conosciamo adesso, per questo il film di Fassbinder è un sorprendente precursore di Matrix e dei dubbi sulla veridicità delle nostre esistenze.

Premi Play per guardare il trailer di IL MONDO SUL FILO

2 – “The Vindicator” diventa “Robocop”

Conosciuto anche come Frankenstein 88, The Vindicator è un film del 1986, diretto dal canadese Jean-Claude Lord, un regista dallo stile molto hollywoodiano ma interessato a temi politici.
In seguito ad un incidente, cervello e parti del corpo di uno scienziato sono trapiantate in un robot. Il cyborg risultante mantiene una componente umana e cosciente, scatenandosi in massacri vari per ottenere la sua vendetta. Lord si è indubbiamente ispirato al mito di Frankenstein, al film del 1959 Il colosso di New York (The Colossus of New York) ed ha senza dubbio attinto all’estetica dei primi film del suo connazionale Cronenberg, ma bisogna dargli atto di aver messo a punto una vicenda che, l’anno seguente, Paul Verhoeven riproporrà (scalando in secondo piano l’aspetto umano della tragedia del protagonista) nel ben più celebre Robocop.

Premi Play per guardare il trailer di THE VINDICATOR

3 – “Sole Survivor” diventa “Final Destination”

Una donna esce indenne in maniera inspiegabile da un terrificante incidente aereo; cerca di riprendere la sua vita normalmente ma, oltre ad un comprensibile malessere psichico, strani avvenimenti e fenomeni la perseguitano. La Morte stessa vuole completare la sua opera, la superstite non potrà sfuggire al suo destino.
Sole Survivor, in italiano uscito (in sordina) come Ragnatela di morte, è una pellicola del 1983 del regista Thom Eberhardt, autore l’ anno seguente dell’interessante La notte della cometa.
Sebbene le origini di un simile concetto vadano rintracciate nel cult movie Carnival of Souls del 1962, è da Sole Survivor che James Wong ha indubbiamente tratto lo spunto per il primo film della pentalogia di Final Destination.

Premi Play per guardare il trailer di SOLE SURVIVOR

4 – “La Jetée” diventa “L’esercito delle 12 scimmie”

Terry Gilliam non ha mai nascosto la sua fonte di ispirazione per il film con protagonista Bruce Willis, ma è impossibile non tributare un omaggio ad un opera avanti con i tempi come La Jetée, un cortometraggio sperimentale del 1962 realizzato dal regista francese Chris Marker mettendo in sequenza immagini fotografiche con una voce fuori campo che narra la storia. Una sorta di fotoromanzo post-apocalittico, in cui troviamo:
-una scena di sparatoria in un aeroporto, centrale nella vicenda
-un mondo devastato da una catastrofe
-sotterranei in cui il prigioniero è forzato a viaggiare nel tempo
-misteriosi segni sui muri
-riferimenti al mondo animale
Tutti punti forti de L’esercito delle 12 scimmie, uscito oltre trenta anni dopo.

Premi Play per guardare il trailer di LA JETEE

5 – “Reazione a catena” e “Torso” diventano “Venerdì 13” e “Halloween”

Per l’ultimo “caso” che prenderemo in considerazione sarebbe più opportuno parlare di ispirazione per un intero genere, quel tipo di horror che prende il nome di slasher.
I capostipiti di questo tipo di film sono considerati, nel mainstream, Halloween – La notte delle streghe (1978) di John Carpenter e Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham.
Ma ad inaugurare ed anticipare il genere poi diventato popolarissimo e sfruttato in America sono stati due registi italiani: innanzitutto Mario Bava, con il suo Reazione a catena del 1971, poi Sergio Martino nel 1973 con I corpi presentano tracce di violenza carnale.
Dalle opere di Mario Bava hanno “pescato” in tanti, alcuni si sono anche costruiti una fama spropositata alle spalle delle intuizioni del maestro dell’horror italiano, che ha dato il via a numerosi altri generi nel corso degli anni, nonostante budget e tempi di realizzazione limitati.
Nei suoi film possiamo scoprire parecchie scene plagiate da autori statunitensi e italiani.
E’ il caso di Reazione a catena (nei mercati anglofoni uscito come Twitch of the Death Nerve, Bay of Blood, Bloodbath), pieno zeppo di sequenze copiate ovunque, da Carpenter a Sam Raimi alla citata saga di Venerdì 13. Vale la pena citare il critico Alberto Pezzotta: “ Gli slasher tipo Venerdì 13 sembrano averlo copiato spudoratamente, senza per altro aver capito l’essenziale: che Bava non rispetta alcuna regola. E non solo è più colto e più ironico dei suoi presunti epigoni, ma anche molto più cattivo”.
Anche Sergio Martino parte da una sequenza del film di Bava per realizzare una intera pellicola basata su ragazze universitarie prese di mira in un ambiente isolato. Un filone del genere slasher, quello delle studentesse peccaminose, nasce quindi con I corpi presentano tracce di violenza carnale (Torso o The bodies bear traces of carnal violence), il thriller italiano preferito da Quentin Tarantino, che dal repertorio di genere del nostro cinema ha sempre attinto copiosamente.

“Così imparano a fare i cattivi!”

Chiudiamo con il titolo di lavorazione di Reazione a catena, ironizzando sui registi “furbetti” che abbiamo sgamato…anche se occorre ribadire che il nostro intento è più quello di offrire il giusto tributo ad artisti che, con la loro creatività, hanno offerto spunti notevoli e spianato la strada ai successi altrui.

Premi Play per guardare il trailer di TORSO

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NSU Ro 80 – Wankel: das Auto

By Automobilismo, Personaggi StoriciNo Comments

I motori a pistone sono lo standard presente in quasi tutti i layout dei motori a combustione interna.
Diciamo quasi, perché in realtà esiste anche uno stile che utilizza un'ingegneria unica: il motore rotativo.

Daniele Pieraccini

Gli storici stabilimenti NSU Motorenwerke di Neckarsulm

Linee elegantemente moderne, fantastica da guidare grazie alla fluida potenza rotativa, la NSU Ro80 è stata a tutto tondo un’auto eccellente per l’epoca. Il motore rotativo Wankel, un concetto tutt’oggi attualissimo, è stato sia il suo punto di forza che la sua rovina.

Felix Wankel

I motori a pistone sono lo standard presente in quasi tutti i layout dei motori a combustione interna.
Diciamo quasi, perché in realtà esiste anche uno stile che utilizza un’ingegneria unica: il motore rotativo.

L’ingegnere tedesco Felix Wankel, da autodidatta, concepì la prima idea di un simile motore già nel 1923, cercando di risolvere uno dei principali problemi dei propulsori fin lì realizzati: la perdita dell’enorme forza d’inerzia sviluppata dal moto rettilineo alternato del pistone. Era energia utile, da trasformare in moto rotativo attraverso un sistema di trasmissione biella-manovella.

Nel dopoguerra Wankel entrò come progettista nella NSU Motorenwerke, impegnandosi nello sviluppo di macchine a stantuffo rotante. Nel 1951 ebbe così la possibilità di iniziare seriamente a lavorare sul suo progetto e nel 1957 realizzò il primo prototipo, testandolo nel corso dello stesso anno.

Un rotore triangolare ad angoli smussati in una camera di forma ovale sostituiva il pistone nel cilindro. Il motore rotativo Wankel era un progetto unico e rivoluzionario, che prometteva una potenza efficiente per le dimensioni, erogata in maniera adeguatamente regolare.

Felix Wankel

Di cosa fosse capace il motore rotativo avremmo avuto dimostrazione in futuro, quando, in mano a Mazda, ha equipaggiato molte auto leggendarie, arrivando anche alla vittoria della 24 ore di Le Mans nel 1991.
Ma i motori Wankel hanno visto anche altri usi veicolari: moto da corsa, aereoplani, elicotteri e auto piuttosto oscure ma geniali hanno utilizzato o utilizzano motori rotativi non prodotti da Mazda.

NSU Spider Wankel

All’inizio degli anni ’60 la NSU inizia una fase di sviluppo e sperimentazione montando vari tipi di motore rotativo su corpi vettura derivati dalla Prinz. I problemi da risolvere a livello di affidabilità non mancano, ciò nonostante al Salone di Francoforte del 1963 NSU presenta al pubblico la “Spider Wankel”. La NSU Spider a motore rotativo era derivata dalla scocca della Sport-Prinz, per preservare lo stile italiano della coupè firmata da Bertone.

La carriera commerciale di questo piccolo gioiello motoristico però risentì di varie problematiche, relative a consumi eccessivi e tenuta delle guarnizioni del rotore stesso. Nel 1967, dopo soli tre anni di commercializzazione e appena 2375 esemplari prodotti, la NSU Spider scompare dal listino.

Wankel Spider

Uno sviluppo più efficace avrebbe richiesto investimenti non alla portata della NSU: il successo della Prinz era stato oscurato dalle vendite del Maggiolino Volkswagen.
Il motore rotativo si era comunque dimostrato una vetrina notevole: gli unici incassi realmente consistenti per la casa di Neckarlsum in quel periodo in realtà provenivano dalla vendita delle licenze Wankel (a marche come GM, Mazda. Citroen…), che consentirono la sopravvivenza indipendente di NSU fino al 1970.
In quell’anno furono prodotte 140.000 Prinz, a fronte di oltre un milione di “Beetle”. Proprio la VW, sapendo dei problemi della rivale, fa il suo ingresso nel capitale della NSU, che successivamente sarebbe stata fusa con l’Auto Union.

NSU Ro80

Prima di arrivare a questo epilogo, però, NSU insiste nel portare avanti il suo audace piano. Nel 1962 una squadra viene incaricata di progettare e sviluppare una grande berlina da famiglia, a due porte e con caratteristiche più sportive, equipaggiata da un motore Wankel da circa 80 CV (contro i 50 della Spider).
Il team è composto dal supervisore Eward Praxl, da Walter Froede allo sviluppo del motore e dal designer Claus Luthe, in precedenza tra i responsabili del disegno del frontale della gloriosa FIAT 500, oltre che delle linee della Prinz e della suddetta NSU Spider e in futuro di molti modelli Audi e BMW.

L’obiettivo è quello di mettere a punto una vettura di fascia medio alta, una berlina che deve alloggiare il rivoluzionario Wankel.
Il risultato dell’estro meccanico di Praxl e della matita di Luthe è la NSU Ro80, oggi considerata un capolavoro di design, grazie alla sua linea a cuneo decisamente sopra le righe per l’epoca, ma che sarebbe stata in voga nelle auto del decennio successivo.
Ro significa Rotationskolben (pistone rotante) e 80 indica la sigla interna del progetto.

Nell’agosto del 1967 ecco dunque la presentazione alla stampa e a numerosi rappresentanti di concessionari NSU da tutta Europa, nella cornice del Castello Solitude, presso Stoccarda.
Escono dalla fabbrica i primi esemplari e anche il grande pubblico può ammirarla al Salone dell’automobile di Francoforte.

Ro 80

Oltre alle linee innovative ma levigate, con un cx (coefficiente aerodinamico) tra i migliori in assoluto per quegli anni, la Ro80 presenta gli ingombri di una grossa berlina, con un passo volutamente lungo per agevolare l’abitabilità interna. Il motore rotativo è più leggero e meno ingombrante, il che rende possibile un frontale più basso della norma.
Il cambio è semiautomatico, quindi sono presenti solo due pedali: la frizione è attivata insieme alla leva quando il conducente cambia marcia. I freni sono a disco su tutte le quattro ruote.
Ovviamente l’aspetto più caratteristico è il motore, un birotore da 995 cm³ che eroga fino a 115 CV, realizzato con la consulenza dello stesso Felix Wankel. Grazie alla sua potenza e a dei rapporti piuttosto lunghi del cambio, la Ro80 arriva a toccare i 180 km/h.

Una carriera breve ma intensa

Nel 1968 è suo il premio di “Car of the Year”. La guida di questa auto si rivela piacevole sia per i piloti più esperti ed esigenti che per l’autista comune: i punti di forza sono rappresentati da un’ottima distribuzione dei pesi, eccellente aderenza, risposta del motore molto dolce, sospensioni sofisticate e chassis molto agile. L’obiettivo di ridurre lo sforzo del guidatore, rendendo la guida piacevole anche per gli sportivi è stato raggiunto. Il leggero motore rotativo si rivela oltretutto molto silenzioso, per gli standard dell’epoca.

Sfortunatamente si presentano ben presto anche delle problematiche, che finiranno per minare fatalmente la carriera della Ro80. L’unità rotativa infatti rivela la necessità di interventi massicci in seguito a rotture già intorno ai 50.000 km di percorrenza. Questi problemi saranno risolti negli anni a venire, ma la fama del modello è danneggiata in maniera irreparabile. Anche i consumi si riveleranno più alti del previsto; il “marchio dell’infamia” è applicato alla vettura, ormai è uno stereotipo diffuso anche tra chi non ne ha mai neppure vista una. Gli acquirenti preferiscono così rivolgersi a modelli più tradizionali.

Questo rovesciamento di risultati contribuisce al crollo della NSU: nel 1977 esce l’ultimo dei 37.406 esemplari prodotti e con esso termina la storia della casa madre, iniziata oltre cento anni prima con la produzione di macchine per maglieria, per proseguire con biciclette, moto e infine un notevole percorso nel settore automobilistico.

L’avveniristica aerodinamica della Ro80 e il suo propulsore Wankel

Oggi il Wankel viene continuamente aggiornato in robustezza ed affidabilità e sono stati prodotti motori con addirittura 12 rotori, ottenendo facilmente potenze assolutamente incredibili.

E per quanto riguarda la NSU Ro 80, sopravvive l’interesse dei collezionisti, attratti dalla ancora sorprendente bellezza e dall’originalità tecnica di questo innovativo ma sfortunato modello.

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