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Flea - Topi o Uomini

Flea – Topi o Uomini (1972)

By MusicaNo Comments

Il 1972 in Italia fa sfoggio di sé con uno dei dischi più fuori dai generis del movimento della controcultura musicale progressiva: Topi o Uomini di quegli outsider che erano i Flea (ex on the Honey).

Lorenzo

In un precedente articolo vi abbiamo presentato Etna, quello che fu lo splendido capitolo finale della trilogia del gruppo Flea on the Honey/Flea/Etna. Oggi parliamo del loro secondo album, Topi o Uomini.

E’ il 1972 e i tre cugini catanesi Antonio e Agostino Marangolo e Carlo Pennisi, recatisi a Roma, incontrano Elio Volpini che prenderà il posto di bassista rimasto vacante, apportando una sostanziale vena rock al quartetto.

I quattro abbandonano l’inglese e il “miele” del debutto e restano “Pulci” (Flea appunto) ma sono pulci che mordono forte: il loro stile è sempre più duro e incisivo, hard rock psichedelico e costantemente venato di una fusion sempre in bilico tra jazz aspro e calda melodia mediterranea.

La copertina di Topi o Uomini

Il disco parte con un’introduzione molto latineggiante della batteria di Marangolo che introduce un bellissima e incisiva ritmica di chitarra di Pennisi ad accordi aperti che sarà il leitmotiv dei 20 minuti della fantastica suite Topi o Uomini.

Batteria e chitarra salgono in un crescendo esplosivo a cui si aggiungono prima Volpini con il basso che ruggisce a potenti accordi e la voce di Antonio Marangolo che narra una storia metropolitana e metafisica al tempo stesso che narra di uomini frustrati paragonati a topi e un gatto che alla fine se li divora contento, forse simboleggiando mafia e potere oscuro.

Impossibile non immaginare riferimenti autobiografici nei cenni alla Sicilia.

La suite si dipana potente e trafelata, psichedelica e rock, fino a rallentare nella parte centrale dove il protagonista e narratore del racconto accusa sé stesso di essere solo un topo, arrendendosi ad una inevitabile morte dell’anima e lasciando spazio ad un lungo assolo della stratocaster di Pennisi.

Assolo che ci conduce ad un bridge che racchiude un assolo di batteria di Marangolo che introduce un passaggio quasi stoner che diviene un acido soul con tanto di armonica a bocca e un nuovo solo di Pennisi e finalmente il “treno” di batteria ci conduce al finale che è un reprise del riff iniziale con vocalizzi carioca per poi esplodere di nuovo psichedelico e durissimo in un’orgia di batteria e frasi di chitarra intessute dal basso fino alla dissolvenza.

Il secondo lato si apre con Amazzone a piedi, un brano con un attacco durissimo e sincopato dalla ritmica jazzata della batteria sulla quale chitarra e basso intessono il loro riff all’unisono finché Pennisi si stacca e segue la linea vocale di Antonio: un grande brano di prog psichedelico con intrecci di chitarra suonati hendrixianamente in reverse e una seconda parte strumentale e spiccatamente jazzfusion.

Segue la suggestiva ballata dal sapore jazz mediterraneo Sono un pesce, guidata dalla chitarra acustica e dal piano di Antonio Marangolo, che canta il suo racconto con voce filtrata dal leslie.

Il ritornello spiccatamente jazz vede anche l’uso del vibrafono di Agostino.

La parte centrale è un raga semielettrico, psichedelico, con Volpini che suona sia il basso che il sax soprano e Antonio Marangolo al piano e all’armonium.

Un brano che avrebbe tranquillamente potuto appartenere all’album Etna poiché ne anticipa efficacemente lo stile: questo è essere davvero progressivi.

La copertina intera dell’album “Topi o Uomini”

Chiude l’album L’angelo timido che è introdotto da un coro ma che esplode subito in un pezzo elettrico psichedelico che continua a conservare gli interventi vocali unicamente a coro. Di nuovo grandi ritmiche, fraseggi e soli di Pennisi, questa volta anche ad intrecci armonici, a sottolineare la perizia tecnica di un grande strumentista: è inutile dire che il disco è guidato dalla chitarra, e che chitarra…

D’improvviso il brano si trasforma in un blues veloce e acidissimo dove torna fuori anche l’armonica a bocca che, all’unisono con la chitarra, porta alla conclusione un disco che potrebbe facilmente essere una perfetta demo per i due assi della formazione, Agostino Marangolo e Carlo Pennisi.

I membri dei Flea

Carlo Pennisi è chitarrista allo stesso tempo molto melodico e aggressivo, crea ritmiche e fraseggi incisivi e immaginifici, particolarmente nuovi per gli inizi degli italici anni 70: è un precursore dotato di quella grande tecnica e gusto musicale che avrà poi modo di sfoggiare in Etna come in ognuna delle sue tante future collaborazioni. Un musicista e session man di lusso, insomma, con un controllo dello strumento e del suono davvero unici.

Agostino Marangolo è un signor batterista, è incontenibile e la sua ritmica è sempre effervescente, assolutamente esplosiva: jazz e rock, pesante ed articolata allo stesso tempo, introduce a quello stile variegato e potente che darà poi gran lustro di sé con i Goblin e nel meraviglioso capitolo finale dei Flea a nome Etna. Anche lui diverrà un amatissimo session man.

Antonio Marangolo è grande polistrumentista, musicista storico di Paolo Conte, Vanoni, Guccini e Capossela, lo ritroveremo spesso accanto al fratello Agostino nei Goblin e in altri progetti come in autoproduzioni jazz.

Elio Volpini dopo la parentesi Flea sarà ne L’Uovo di Colombo (progetto che poi porterà alla riformazione dei Flea con il nome di Etna), Claudio Lolli e altri, sempre come bassista e chitarrista. Oggi Propone le cover di Hendrix ma anche i brani dei Flea/Etna in un progetto suo.

La copertina di “L’Uovo di Colombo” che porterà poi agli Etna

Topi o Uomini è un disco clamoroso per i tempi come per oggi ma risente irrimediabilmente della pessima produzione Fonit che è particolarmente percepibile nella voce che, quando non scompare addirittura dietro agli strumenti, rimane comunque sempre asprissima e soffocata, costretta ad urlare per farsi udire e i testi, ancora oggi quasi inintelligibili, sono i primi a farne le spese.

E’ un peccato assoluto poiché ci troviamo davanti ad un disco unico nel panorama prog, sia per grande bellezza e freschezza delle parti strumentali che per sensibilità e profondità dei testi.

Si dice spesso che ci si consola con la bellezza di Etna (ed è anche vero) però questo piccolo capolavoro resta purtroppo relegato ai soli appassionati a causa della pessima produzione, un fenomeno che fu fin troppo tipico dei progetti progressivi e sperimentali italiani del periodo che, se avevano la fortuna di poter registrare dischi con una etichetta di stato, essa fu però gestita male e molti grandi dischi del periodo soffrono di questo.

Topi o Uomini dei Flea di questa trascuratezza ne rappresenta forse la punta di diamante.

Ascolta l’intero album “Topi o Uomini”

Lato A

1. Topi o Uomini

Durata totale: 20:20

Lato B

1. Amazzone a piedi – 4:10
2. Sono un Pesce – 6:31
3. L’Angelo timido – 5:51

Durata totale: 16:35

Elio Volpini parla dei Flea/Etna

New Trolls

New Trolls – FS: La vita è finita nel 1980 ma noi non ce n’eravamo accorti

By Musica, Personaggi Storici4 Comments

Parliamoci chiaro, i New Trolls erano e restano uno dei dieci gruppi musicalmente, tecnicamente e artisticamente più dotati al mondo.
Ma gli italiani sono ormai famosi per la ridicola capacità di dare sempre pollice verso ai propri connazionali preferendo più che discutibili proposte estere.

Daniele Pieraccini - Lorenzo

Occuparsi delle glorie del passato non è sempre un compito piacevole e quando tocca a qualcosa che riguarda l’Italia sono sempre più dolori che gioie, perché si parla di capolavori che per vari motivi (quasi sempre meri arraffaggi politici di personaggi da carcere e ridicola speculazione senza scrupoli) non si sono mai più ripetuti, anzi.

Ci si trova spesso a riscoprire eccellenze che lasciano al contempo un senso di meravigliato stupore, profondo affetto e una grande e scorata tristezza.

È il caso di FS dei New Trolls, un album talmente bello che in qualsiasi altro paese sarebbe considerato bene nazionale, incensato da una critica onesta e sommerso di dischi d’oro dagli ascoltatori.

Sicuramente ancora oggi sarebbe passato alla radio almeno quanto i soliti, ripetitivi, Pink Floyd.

Una classe compositiva, una fantasia inventiva, una perizia tecnica e una profonda e sincera evocatività come quelle del brano “Il treno” non hanno eguali nella storia della musica moderna.
E non è la prima volta che succede con la musica dei New Trolls, ma per un decennio sfortunato dal punto di vista artistico come gli anni ’80 si tratta davvero di una mosca bianca.

Parliamoci chiaro, i New Trolls erano e restano uno dei pochi gruppi musicalmente, tecnicamente e artisticamente davvero dotati al mondo: De Scalzi e Di Palo, oltre ad essere dei grandi cantanti con doti vocali fuori dal comune e che hanno reso le parti corali e solistiche del gruppo un marchio di fabbrica inconfondibile, erano e sono compositori e polistrumentisti sopraffini (com’è noto Melody Maker fu talmente colpita da Nico da inserirlo nella lista dei 10 migliori chitarristi europei degli anni ’70, quando era ancora giovanissimo).

Ma gli italiani sono ormai famosi per la ridicola capacità di dare sempre pollice verso ai propri connazionali preferendo più che discutibili proposte estere: l’esterofilia è una malattia mentale che da troppi decenni incredibilmente colpisce quello che è il popolo che nei secoli ha insegnato praticamente ogni forma di artigianato e arte al resto del mondo (un esempio su tutti, il gelato).

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Concerto Grosso per i New Trolls

Non è un caso che questa band, pioniera del genere rock progressivo italiano, provenga da Genova: oltre alla ben nota scuola genovese, fucina impareggiabile di talenti, nel capoluogo ligure si trovava l’Alcione, uno storico cinema-teatro sorto nel 1948 con il nome Colosseo e chiuso ingloriosamente alla fine del secolo, ridotto a cinema a luci rosse.

Negli anni sessanta e settanta il locale visse stagioni strepitose, tra teatro, avanguardia e soprattutto concerti di gruppi progressive.
Vi suonarono infatti Van Der Graaf Generator, Genesis, Gentle Giant e Peter Hammill, tra gli altri.

Nel 1973 vi registrarono l’album Tempi dispari gli NT Atomic System, uno dei progetti paralleli della band madre formatisi in seguito a screzi tra i componenti (a tal proposito segnaliamo anche gli ottimi Ibis di Nico Di Palo).

Due anni prima il gruppo aveva abbracciato il prog pubblicando Concerto grosso per i New Trolls, pietra miliare della scena rock, qualcosa di veramente unico e mai sentito nel panorama musicale italiano.
Il disco avrà un seguito nel 1976 con il meno noto ed acclamato ma sicuramente meritevole di riscoperta, Concerto grosso n. 2.

Partiti dal beat psichedelico degli esordi, De Scalzi e colleghi si sono cimentati, sempre con credibilità ed efficacia, anche con l’hard rock (ascoltate lo stoner ante litteram di C’è troppa guerra, sempre del 1973) attraversando vari generi per spostarsi infine verso il pop rock, mantenendo negli anni un livello compositivo ed esecutivo altissimo.

Un discorso a parte meriterebbe anche la maniacale ricerca dei suoni “giusti” per ogni stile affrontato, soprattutto per quanto riguarda le chitarre.

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C’è troppa guerra

Dunque, dopo vari album, singoli di successo e collaborazioni con altri artisti, i New Trolls arrivano al 1980 perdendo per strada Giorgio Usai (tastiere) e Giorgio D’Adamo (basso).

Con la formazione ridotta all’osso, composta da Vittorio De Scalzi (voce e tastiere), Nico Di Palo (chitarra, basso e voce), Gianni Belleno (batteria e voce) e Ricky Belloni (chitarra, basso e voce), entrano nella stanza Double degli studi Idea di Milano con il tecnico André Harwood e lo storico produttore Gianfranco Lombardi, per inaugurare a loro modo gli anni ottanta.

Il risultato è FS, un concept album che ha per filo conduttore un viaggio in treno, presentando una galleria di passeggeri incontrati. Un disco a tema, concetto caro al progressive, che offre un amalgama straordinario di suoni e generi: rock, pop, cantautorato, classica, reggae e nuove tendenze rock/wave.

Pur muovendosi all’interno di coordinate pop rock, i New Trolls mantengono le loro linee distintive progressive, deliziandoci con virtuosismi strumentali e cantati polifonici che hanno pochissimi rivali nel mondo.

Andiamo adesso a parlare in specifico dell’album FS dei New Trolls, che troverete analizzato di seguito con ciascun brano accompagnato da un video da noi appositamente creato per questo articolo con affetto: un omaggio al gruppo più rappresentativo della musica italiana moderna nel mondo.

New Trolls – FS

L’opera si apre con la chitarra di Nico Di Palo che, appoggiandosi ad un eco ribattutto, riproduce efficacemente il fischio e il suono di un treno in corsa sulle rotaie: Il treno (Tigre – E 633 – 1979) è un quadretto di realismo poetico musicalmente trascinante, con pause di sospensione e esplosioni chitarristiche, narrato dalla grande voce di De Scalzi.

Dal vivo i New Trolls erano capaci di offrire versioni persino migliori, più intense, di questo brano ed è un vero peccato che non esista un archivio live restaurato all’altezza delle loro performance.

Il treno è un brano ad ampio respiro, una potente introduzione al concept, un’ode poetica al viaggio, al senso di distacco e di avventura al tempo stesso.
Durante il brano viene fatta una presentazione dei vari personaggi che si incontrano nel viaggio.

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Il treno (Tigre – E 633 – 1979)

Segue La signora senza anelli, brano cantato coralmente e introdotto da un riff rock di Belloni che pesca dal passato per preconizzare la Money For Nothing dei Dire Straits.

Il solo è dello stesso Belloni, mentre Di Palo lo sostiene con il suo grande basso poppeggiante per dare ritmo e allo stesso tempo alleggerire quello che è l’amaro racconto di una donna, un tempo benestante, che ha dilapidato le proprie sostanze fino a ridursi sul lastrico e consumarsi interiormente per assecondare i folli capricci di un figlio bello e volubile partito per “L’America”.

Figlio che spera finalmente di poter rivedere vendendosi, per l’appunto, l’ultimo anello per raggiungerlo attraverso un viaggio pieno di incognite.
Nel testo si colgono riferimenti alla droga e verso la fine si intuisce quindi che il figlio della signora possa addirittura esserne morto e il viaggio della donna sia quindi volto al recuperarne le spoglie.

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La signora senza anelli

La guerra interiorizzata di L’uomo in blu conferma il ruolo centrale della chitarra in questo disco.
Le parti strumentali e gli arrangiamenti seguono alla perfezione la drammaticità della storia di un uomo dilaniato dal conflitto esterno come da quello dentro di lui. Un piccolo bignami del rock, una grande canzone sulla guerra.

Gli intrecci tra frasi e arpeggi discendenti dei due chitarristi dei New Trolls, i licks taglienti e gli assoli urlati ma anche intimisti, appoggiandosi agli archi sintetici di De Scalzi, marcano con insistenza il dramma interiore di quest’uomo narrato dalla voce di Di Palo.
Un pregevole lavoro alle sei corde che si divide tra le Yamaha SG di Belloni ed SX di Di Palo.

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L’uomo in blu

Ancora chitarra in primo piano, stavolta arpeggiata da Di Palo, per introdurre un’apparentemente più allegra Stelle nelle tue mani, cantata da Nico con dei favolosi cori armonizzati in pieno stile New Trolls mentre Belloni punteggia con accordi di chitarra satura, assoli e veloci fraseggi armonici.

Le mani del titolo sono quelle di una bella ragazza che colleziona amanti, vestiti e bugie, gettandoseli alle spalle con nonchalance mentre la vita e la giovinezza scorrono veloci come un’autostrada.

Ovviamente i pensieri la inseguono ma la tentazione di affogare tristezza e incognite del domani in notti di follie vince sempre e lei continua a fuggire da sé stessa infilandosi in un nuovo letto, un nuovo vestito e nascondendosi dietro gli occhiali scuri finché anche bugie, bellezza ed amanti (le stelle) saranno solo un lontano ricordo e resterà soltanto la realtà.

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Stelle nelle tue mani

Gilda 1929, introdotta da un’armonia corale acapella dei quattro New Trolls, lascia spazio alla nostalgia di Liberty ed epoche perdute con una struttura classico-barocca ed il cantato di Nico e Ricky Belloni che con parole metafisiche riflettono sullo scopo della vita e su come in essa sia necessario rischiare il moto della creatività perché la staticità sarebbe solo una negazione dell’esistenza:

“Se la tua immortalità
È stare fermo qua
Ferro non lo sai
Che è meglio fondersi nel fuoco
Che non partire mai”

In essa trova spazio anche una riflessione sul Matrimonio Alchemico e il desiderio del raggiungimento di tale congiunzione come coronamento di una vita di crescita interiore.

Atmosfera molto evocativa, con un finale in cui sembra affiorare pure Bach mentre stavolta sono i malinconici e vibranti violini sintetici di De Scalzi ad appoggiarsi sulle chitarre armoniche del duo e a trasportarci verso la banchina dalla quale il protagonista riparte per il suo viaggio.

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Gilda 1929

Di nuovo il rumore dei binari ci conduce al bell’arpeggio di chitarra che anticipa musicalmente lo stile italiano degli anni ’80 che verranno: Quella luna dolce è una ballata di stampo cantautorale, molto tenera ed intimista e con un grande basso fretless suonato da Di Palo.

Canta De Scalzi con dolcezza infinita mentre le famose voci dei New Trolls armonizzano abilmente il ritornello e Belloni si occupa del bridge.

La riflessione questa volta verte sul passaggio da bimbo a uomo, la luna è la madre (o forse la nonna?) che ti accompagna dai primi passi, passando per l’adolescenza fino all’età adulta dove lascerà il posto ad una luna generazionalmente più vicina a te, una compagna che si spera sarà quella che ti accompagnerà nel resto della vita: ancora si toccano temi metafisici sull’esistenza tramite la metafora del viaggio in treno.

I versi di chiusura del brano suonano bellissimi nella loro semplicità e non possono non ricordare lo stile di un ben noto cantautore che salirà alla ribalta una decina di anni dopo:

“Quella luna dolce coi suoi occhi stanchi
Mi vedeva già grande
Gliel’avevan detto i suoi capelli bianchi
Che finiva così”

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Quella luna dolce

Il serpente è un reggae, intelligente e molto orecchiabile. Il genere caraibico fu frequentato anche da altri artisti italiani all’epoca (Berté e Fossati, per esempio).

Il protagonista non ha paura di guardare negli occhi le persone cercando qualcosa, pur essendo disilluso e cosciente di correre dei rischi nei rapporti umani, soprattutto in amore.
Sente il rapporto con la compagna spegnersi nell’apatia e cerca un contatto con lei per evitare che ciò avvenga. Ancora una volta siamo davanti ad una metafora metafisica ma questa volta volutamente più leggera, almeno nella musica.

Il pezzo, che all’epoca fu infatti scelto come singolo di lancio dell’album, fa ampio sfoggio del Vocoder e dei cori.

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Il serpente

Di nuovo la voce di De Scalzi filtrata dal vocoder fa partire La mia canzone, un pezzo classicheggiante nell’animato stile disco-musical in voga ai tempi, eseguito mirabilmente e che altro non è che una canzone d’amore dolcissima dedicata alla musica e alla tenera fragilità dell’ispirazione artistica e umana.

Il testo contiene anche dei piccoli richiami alla splendida e sofferta Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi di Lucio Battisti, a sottolineare quanto il rapporto d’amore con la musica possa essere similmente bello e doloroso a quello con una donna.

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La mia canzone

Il viaggio si conclude in stazione con Strano vagabondo, cantata in falsetto da Belleno e rinforzata sui bassi da De Scalzi con ulteriori belle armonie vocali eseguite da tutta la band dei New Trolls.

Il protagonista visualizza la parte più scanzonata e sognante di sé stesso come un vagabondo che vive la vita con avventurosa leggerezza, una caratteristica della quale sente sempre più il bisogno e che lo porta a pensare a un viaggio intorno al mondo con l’amico che ha sempre desiderato avere.

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Strano vagabondo

FS è un inno alla libertà di un gruppo che è rimasto sempre sincero, originale e concreto nel trasmettere il suo messaggio al pubblico.

Certo, i New Trolls si sono adeguati ai tempi, hanno riscosso grandi successi di vendite, collezionato partecipazioni a Sanremo ma, forse perché interessati solo al “suonare”, al contatto con gli ascoltatori restando avulsi da ogni contesto politico, non godono del riconoscimento plebiscitario tributato ad altri nomi.

Ogni brano di FS condensa e presenta in maniera coerente e armoniosa numerose citazioni dalla storia della musica popolare o colta; alla luce dell’oggi questa opera così tematica e riassuntiva appare come una sorta di testamento, un documento sulla fine di un’epoca.

FS rappresenta l’ultimo grido della speranza, dell’arte, della musica. Dell’umanità.

La vita è finita nel 1980 ma noi non ce n’eravamo accorti

Non a caso sarà seguito da America Ok, già dal nome ironicamente disperato, che rappresenta in pratica la fine artistica dei New Trolls.

Si stenta a credere che siano gli stessi quattro musicisti che hanno dato vita a FS: la strumentazione è interamente elettronica, l’umore è nichilista, da fine del mondo vista con l’aperitivo in mano facendo finta di nulla.

E’ un attacco sornione ma anche diretto – se si ha il coraggio di volerlo vedere – all’esterofilia presente in maniera sempre più pervasiva nella generazione dei cosiddetti “baby boomers”, una vera malattia virale che sta portando al tracollo l’intera scena artistica italiana in favore di quelli che sono spesso autentici orrori proveniente da oltreoceano e dall’oltremanica (oltretomba?).

Tra l’altro l’album si chiude con un plagio clamoroso di Open Arms dei Journey, una sorta di provocazione diretta a quell’America che di tutto si impadronisce e tutto ingurgita, senza riconoscere alcun merito ai veri “ispiratori”.

Intendiamoci, la classe strumentale e vocale è intatta, e sono presenti brani pregevoli, non si tratta certo di un’opera insensata. Il fatto è che America Ok è un album concettualmente lontanissimo da FS, si stenta a credere che siano passati appena due anni tra queste due opere. Musiche e liriche sembrano provenire da due mondi diversi.

L’aspetto più oscuro è rappresentato proprio dai testi, nei quali troviamo frasi come “su questa spiaggia amara son diventato una cosa”, “Si è spenta oramai la mia generazione”, “iI tempo non c’è più”.

Ora che siamo giunti al capolinea del filoamericanismo, senza forse possibilità di fuga dalla rovina totale del grande inganno, ci rendiamo conto che la vita è finita nel 1980 ma noi non ce n’eravamo accorti.

Clicca sul tasto play e ascolta l’intero album

America ok

pontypool parola

Pontypool (2008): La scomparsa della Parola

By Cinema, Narrativa e saggisticaNo Comments

Per la vostra sicurezza evitate ogni contatto con i membri della vostra famiglia ed evitate anche di usare ogni termine affettuoso come Tesoro o Amore mio. Quando parlate con i bambini evitate discorsi retorici. Per maggiore sicurezza evitate anche di tradurre questo messaggio… per favore evitate di tradurre questo messaggio.”

The Boss

Un nuovo tipo di virus che si diffonde attraverso l’uso del linguaggio appare nella cittadina di Pontypool, nell’Ontario. Le vittime perdono la capacità di dare un senso comprensibile ai discorsi, spingendole in attacchi di follia e rabbia animalesca.

Nel romanzo Pontypool Changes Everyting di Tony Burgess un’epidemia di una strana piaga, la AMPS (Acquired Metastructural Pediculosis), fa scivolare le persone di tutto l’Ontario nell’afasia e poi in una rabbia cannibalesca da zombi.

L’AMPS viene trasferito attraverso la parola e l’unico modo per fermarne la diffusione è bandire la comunicazione. Questo virus metafisico e decostruzionista richiede un approccio multidisciplinare e medici, semiotici, linguisti, antropologi e persino critici d’arte presentano teorie sulla sua origine e trattamento.

Ma Grant Mazzy, un conduttore radiofonico misantropo e fuori dagli schemi, ha una sua soluzione.

Da questo racconto, facente parte della trilogia di Pontypool, sono state tratte una versione radiofonica e una riduzione filmica, Pontypool: Zitto… o Muori!

 

Pontypool è un racconto allegorico ma molto diretto che affronta l’enorme problema della mancanza di comunicazione, della distorsione del linguaggio e della parola che di conseguenza portano distorsione dei costumi e della comunicazione non verbale, fino alla totale incomprensione tra individui e particolarmente tra sessi opposti.

 

La scomparsa della Parola, del linguaggio, della comunicazione

La parola è un potente mezzo di comunicazione e di evoluzione ergo la parola è benefica, è una cura.

Ma cosa succede se la parola viene manipolata finché da un significato bello ne assume uno brutto? Cosa succede se da carezza diventa un pugno? Cosa succede se diventa ordine dittatoriale? Cosa succede se non rispetti questo ordine eseguito da una moltitudine prona a questa dittatura?

Succede che o ti arrendi o la parola ti uccide socialmente o addirittura diventa un cancro che ti consuma lentamente in un’agonia nella quale sei costretto a non affermare mai il tuo pensiero per poter sopravvivere nella società dittatoriata.

Questa e altre allarmanti questioni vengono estrinsecate in Pontypool, un film degli anni 2000 pensato per gli anni 2000.

L’incomunicabilità, la non accettazione dell’individuo e delle sue idee, la massificazione dei modi di vivere e di pensare secondo diktat imposti alla società tramite mode, marketing, influencing becero e passivamente violento e addirittura imposizioni illegali spacciate per “leggi”: questo sono gli anni 2000.

Ma a questo siamo arrivati tramite un lungo percorso di ingegneria sociale, di rimbecillimento delle masse durato decine di anni.

 

Le origini dell’oggi

Si dice che tutto sia iniziato con lo yuppismo degli anni 80 ma a fine decennio ‘70 c’era già il seme dell’imbecillità che era ben visibile in Italia con l’esplosione della moda popolare come Benetton prima e poi Fiorucci ma anche con certo abbigliamento che proveniva da oltreoceano,

Ricordo chiaramente un giorno che sull’autobus per la scuola una tizia di un paio di anni più grande mi disse con invidia, “hai i levis, costano un casino…” e io che avevo forse 10 anni e non sapevo nemmeno cosa fossero “i levis”, tranne che avevo un paio di jeans smessi arrivati di rimbalzo da chissà quale parente.
Quel giorno lì il verme dell’imbecillità mentale derivata dai diktat distrusse questa mia “verginità” intellettiva e lo ricordo ancora con disgusto, come una profanazione mentale appunto: percepii chiaramente che l’egregora era stata creata e iniziava a nutrirsi delle masse istupidite.

Pochissimi anni dopo gli spin doctors fecero esplodere il paninarismo e lo yuppismo e fu l’inizio della fine: tramite un’organizzazione capillare che fece larghissimo uso dei media cineradiotelevisivi e la stampa, i giovani vennero sistematicamente riempiti di sciocchezze e inquadrati come militari: si veniva facilmente snobbati da coetanei che comunicavano con un linguaggio da ritardati e appiccicavano gli appellativi più cretini: si veniva discriminati e isolati fin da ragazzini se non si era dotati di una costosissima “divisa” consistente in vestiario di pessimo gusto e qualità, con alcuni marchi creati ad hoc e altri recuperati dagli USA per spingere l’americanismo sempre più a fondo.

Ed era altrettanto chiaro che esistesse già l’influencing sociale e commerciale: romanzetti e film decerebranti come “Sposerò Simon Le Bon” sono un’autentica testimonianza di quei tempi perché è tutto vero: i ragazzini erano già imprigionati in quell’ingorgo mentale e i genitori ce li tenevano, quando non ce li spingevano, perché gli anni 80 dovevano essere stupidi, sfoggiosi, sgargianti e pretenziosi: “gallisti” come i film che arrivavano da Hollywood.

La separazione sociale c’è sempre stata ma negli anni 80 divenne la cosa sotto gli occhi di tutti, accettata e spinta dalle mode e dai genitori stessi, che per dimostrare uno status sociale erano disposti anche a diventare “mangiatori di cipolle” pur di poter apparire e tentare una ridicola concorrenza col vicino abbiente.

Ovviamente insicurezza, ansia, stress e panico era diventati la quotidianità e fiumi di droghe e di alcool diventarono di uso comune poiché se non si era all’altezza di sopportare simili stress si veniva tagliati fuori dalla società.

È storia vissuta da tanti che preferiscono dimenticarlo, sia i vessati che i vessatori: alcuni dei secondi li ho rivisti anni dopo e abbassavano lo sguardo, altri semplicemente facevano finta di nulla e continuavano il loro “gallismo” sotto altre mentite spoglie e sono i distrutti dalle droghe e alcool di oggi, rimasti “vuoti a perdere” come allora e spesso genitori di altrettanti “successi umani”.

Il risultato di una tale pressione fu che il commercio andava alla grande, si, ma sulla pelle di tutti.
I giovani venivano compressi come pazzi per soddisfare le aspettative dei genitori, della famiglia, del datore di lavoro, del kapò che li torturava per farli rendere al massimo sul lavoro col miraggio della carriera: nella vita dovevi essere carico h24 ed essere sempre pronto a sbocciare senza mai un capello fuori posto, insicurezza e panico erano banditi come nemici della patria… un solo cedimento e venivi tagliato fuori.
In tutto questo la coca regnava sovrana.

A quel punto la famiglia, se avevi il tempo e la voglia di fartela, era diventata sia il motore che l’ultima ruota del carro, come la comunicazione con i figli che erano in buona parte già finiti in giri di droga pesante.
Questo erano in realtà i “brillanti e coloratissimi anni ‘80”

Gli anni 90, per quanto tristi e risibili con la loro depressione grunge, rimisero un po’ in carreggiata i cervelli ma i duemila hanno logicamente riportato l’ondata di piena dell’ottantismo decuplicata in quanto a vuotezza e stupidità disarmanti: “Sotto il vestito niente” oggi è appannaggio di tutti.

 

Stephen McHattie è Grant Mazzy

Distopia oggi

Oggi, in questi vuoti anni duemila, alcune parole hanno praticamente perso il loro vero significato, Amore è sicuramente la prima ma è certamente seguita da Fascismo e Nazismo e ormai lo sappiamo tutti come sappiamo che la massa non ha il coraggio di affermare le proprie idee e volontà perché mal tollera il confronto e soprattutto quello che viene effettuato tramite mezzucci aggressivo-passivi dal sistema, perciò preferisce arrendersi ad un indottrinamento per lo più passivo, piuttosto che “crearsi problemi”.

Il risultato però non lo si vede sugli adulti, che ancora sanno quale sia il vero significato di parole come fascismo, ma sui figli, i nipoti, i pronipoti e via così.
Perché il fenomeno va guardato in prospettiva e se già oggi appena si dichiara la propria opposizione ai diktat, persino alla follia arcobalenista che ci vorrebbe privare di una identità sessuale ed arrivare ad imporci la promiscuità, arrivando addirittura a mettere al bando la naturale eterosessualità (avviene già illegalmente nelle scuole in molti paesi del mondo tra cui il nostro), si subisce la continua martellante accusa di fascismo, ci si può immaginare cosa potrà accadere domani se i genitori non si responsabilizzano verso i propri figli.

Siamo già in una società distopica in stile Swiss Made 2069, dove la vita sociale avviene già attraverso siti “social” che sono strettamente controllati da una polizia virtuale denominata Fact Checkers che assume delatori per pochi spicci e dove degli “influencer” di dubbia provenienza fanno da opinionisti forzosi con l’aiuto di troll (più facilmente bot gestiti da qualche algoritmo) che sono pronti a dare immediatamente del fascista a chiunque voglia diversificarsi dai diktat.

Gli scambi sessuali e sentimentali (o tentati tali) si svolgono tramite dei siti d’incontri dove dei fantomatici personaggi femminili – con altrettanto fantomatiche fotografie di profilo e biografie – dichiarano di cercare un individuo “standard e perfetto” che non esiste altro che nelle loro fantasie deviate dal sistema e soprattutto che non sia “basso e fascista”!

Attraverso questi profili, probabilmente dei bot gestiti dall’algoritmo stesso del sito, il sistema ti dice che o sei “alto e liberal” o come uomo nella società non esisti: non essere mai “basso e fascista” o non ti riprodurrai mai e resterai solo perché la donna del 2000 programmata dal sistema non ti vorrà mai, non si concederà mai e non ti sposerà per avere figli da te e divorziare portandoteli via con tutti i tuoi averi e la dignità.
Qualcuno forse obietterà che è una visione pessimistica ed esagerata ma se si gira ad osservare un amico immagino dovrà smettere di obiettare.

Il risultato di tutto questo è che la donna oggi è infelice perché a quanto pare gran parte degli uomini, temendo le possibili pesanti conseguenze di una relazione, cercano solo sesso mordi e fuggi e immancabilmente la colpa viene riversata su di loro, come se il maschio invece fosse davvero felice di una situazione nella quale dover continuamente difendersi dalla donna, come se nessuno desiderasse avere accanto una VERA compagna.

Il problema è che mancano comunicazione e maturazione da entrambe le parti e la donna per ora continua a scegliere la strada larga: in questa specie di felliniana “Città delle donne” che è diventata la società, ha scelto di abbracciare il punto di vista limitato che gli è stato fornito dal diktat femminista che la spinge ad essere autopermissiva, a giustificare molto sé stessa accusando sempre “il maschio” di tutto, non volendosi rendere conto che la responsabilità è in buona parte anche sua per aver ceduto alle lusinghe di un femminismo isterico che le ha portato solo la solitudine più profonda e il sogno eternamente irrealizzato di un inesistente principe azzurro o anche solo degli “uomini di una volta che non ci sono più”.

Diceva un Ferreri, fin troppo simbolico, che “Il futuro è donna”.
Si, ma una donna sola.

Nel film Pontypool questa donna è incarnata dal personaggio di Sydney Briar, da qui il motivo della frase «Sydney Briar è ancora viva».

Lisa Hoult è Sydney Briar

I “successi” del Liberalismo

Se il liberalismo – nella teoria – è una filosofia politica e morale fondata sul concetto dei diritti inalienabili e il sostegno per le libertà civili, nella realtà odierna è stato completamente distorto come concetto ed espressione, fino a diventare un sistema che circuisce le persone e che con il pretesto di tutelare e liberare invece devia e imprigiona.

Il liberalismo oggi si è ormai rivelato per quello che è: una parola deviata scelta per rappresentare un sistema carcerario utilizzato con comodo dal sistema.

Il liberalismo è ormai il cancro dell’umanità, il liberalismo viene propagato tramite la parola.

Ma la speranza del liberalismo è la separazione degli individui, l’imporgli un pensiero unico spacciato per libertà e il tentare con ogni mezzo di privarli della comunicazione, del rapportarsi tra loro e risolvere le incomprensioni prima che diventino guerra.

Il liberalismo vuole che questa guerra ci sia perché la massa la controlli bene quando è compattata dal pensiero unico, spaventata e rancorosa, portata alla meschina vendetta e alla delazione, che avviene sempre tramite parola ed è l’unico tentativo di sfogo per gli esseri arresi alla dominazione.

Non è un caso che il liberalismo spinga alla perversione sessuale: al liberalismo piace la promiscuità spacciata per libertà, l’orgia, il sadomasochismo, il bondage, il sesso fatto con distacco tra elementi dello stesso sesso o masturbato tramite giocattoli gommosi che, per una popolazione di eterni immaturi, sostituiscono quelli dell’infanzia anelata al posto dell’incubo nel quale si trova immersa e costretta da adulta.

Perché quindi stupirsi che le relazioni vere e durature vengano impedite con ogni mezzo?
Eppure non c’è bisogno di andare a studiare cosa sia il Matrimonio Alchemico per capire che l’individuo evolve pienamente solo in coppia, confrontandosi con il partner di sesso opposto tramite la parola, l’accoglienza, il confronto, il conforto, il contatto sentimentale e infine sessuale: senza la chiave non si apre la porta e senza la porta la chiave è inutilizzabile.

Non è un caso che Amore sia la prima parola che è stata volutamente distorta e abusata.
Non è un caso nemmeno che Amore in inglese sia Love, che letto al contrario è Evol, una storpiatura di Evil, cioè Male.

Non è un caso neppure che un gesto tanto di moda oggi e presente nei selfie di giovani (ma anche tristi semi-anziani) sia il gesto del dito medio che pare tutti si siano dimenticati simboleggiare in realtà una grande offesa verso la persona a cui lo si rivolge. Un segno che ferisce il prossimo e che indica un’aggressiva chiusura e isolamento in chi lo porge.

E non è un caso che il film tratto dal racconto Pontypool Changes Everything si svolga nel giorno di S. Valentino è anzi molto simbolico, come lo fu la famosa “strage” mafiosa.

 

 

Il film

 

Il film Pontypool qua da noi è quasi scomparso di circolazione già da anni ma i suoi creatori non hanno mollato la presa e negli anni ne hanno prodotto lo spin-off Dreamland oltre ad avere in lavorazione il sequel Pontypool Changes, entrambi sempre con protagonisti Stephen McHattie e la moglie Lisa Hoult e la regia di Bruce McDonald.

L’impossibilità di comunicare, di esprimere le proprie idee, sensazioni, opinioni dovendole reprimere in sé stessi per evitare di venire prima isolati, evitati e poi messi alla gogna dalle masse che sono state talmente irregimentate dalla “parola fatta ordine”, dalla paura e dalla paura della paura stessa addirittura, tanto da farla diventata una vera e propria epidemia di terrore cieco. Questo è ciò che viviamo oggi e che viene estrinsecato daPontypool.

Questo porta o alla resa o alla misantropia, che sia forzata dalla necessità di sopravvivere o scelta liberamente per evolvere come individui.

Forse però non è ben chiaro cosa sia la misantropia e tantomeno lo insegneranno loro con le galere e gli isolamenti, materiali e mentali.
Si può essere misantropi anche in mezzo alla folla, in maniera anche maggiore anzi. E non è disprezzo, è l’avere ben chiaro chi sei tu e chi sono gli altri.
Si impara a conoscere il mondo evitando di venire travolti dalle dinamiche di massa.

Questo è proprio lo spirito di Grant Mazzy, il conduttore radiofonico protagonista di Pontypool: Un Individuo con uno sguardo lucido e distaccato all’umanità ma pieno d’amore verso di essa, con la consapevolezza della propria impotenza nell’aiutarla a cambiare ma che non per questo smette di provarci.

Perché il titolo del racconto è vero: “Pontypool cambia tutto” e Pontypool siamo noi, se lo vogliamo.

Pontypool è dentro di noi e sta a noi scegliere se essere un Grant Mazzy o parte della massa.

 

Il racconto di Tony Burgess

Locandina del film

“Pontypool – Zitto… o muori” (Canada 2008) di Bruce McDonald

Regia Bruce McDonald
Soggetto e sceneggiatura Tony Burgess
Produzione

Jeffrey Coghlan

Ambrose Roche

              Interpreti Stephen McHattie: Grant Mazzy
Lisa Houle: Sydney Briar
Georgina Reilly: Laurel-Ann Drummond
Hrant Alianak: Dr. Mendez
Fotografia Miroslaw Baszak
Montaggio Jeremiah Munce
Musiche Claude Foisy
Compagnie di produzione Ponty Up Pictures
Shadow Shows
Data di uscita

6 settembre 2008 (Toronto International Film Festival)
6 marzo 2009

Durata
96 minuti

 

Candidature e premi

30th Genie Awards – Best Actor, Best Director, Best Adapted Screenplay (Nomina)

Trailer del film Pontypool – Zitto… o muori

Ibanez 2617 Inlay

Ibanez Artist 2617 (1975)

By Chitarre Vintage JapanNo Comments

Splendido esempio di arte liutistica giapponese e strumento di cui andar fieri, la Ibanez Artist 2617 seduce con le linee sinuose, i ricchi intarsi e il colore mielato del suo frassino.

Lorenzo

I giapponesi stavano ormai stracciando Norlin e CBS grazie all’ottima qualità delle loro copie a prezzi concorrenziali e verso la metà degli anni 70 alla Hoshino Gakki, proprietaria del marchio Ibanez, decisero che era arrivato il momento di smettere di produrre solo cloni di strumenti famosi.

Vennero così introdotti sul mercato strumenti che erano invece ben riconoscibili e orientati ad una clientela che apprezzasse strumenti di fascia alta di produzione artigianale con lussuosi intarsi in madreperla e legni scelti di altissima qualità.

Nella seconda metà del decennio iniziò quindi agli stabilimenti FujiGen di Matsumoto la produzione di linee originali come Artist, Iceman, Musician e le più ambite Artwood Professional.

Inizialmente tutti questi modelli erano contraddistinti da un numero di serie e alla splendida Artwood Artist venne assegnato il 2617.

L’esemplare che vi presentiamo oggi è uno dei primissimi, risale al 1975 ed è di proprietà di Rich Fiori.

I giapponesi avevano ben capito l’importanza di avere dei testimonial importanti e infatti la prima chitarra giapponese originale veramente famosa fu la potentissima Yamaha SG2000 (venne addirittura definita “Les Paul Killer”) ed ottenne un enorme successo grazie a chitarristi rock fusion come Masayoshi Takanaka e Issei Noro dei Casiopea in Giappone e nientemeno che Carlos Santana per il resto del mondo.

In seguito divenne anche strumento di riferimento di tutta una generazione di musicisti inglesi new wave come il geniale e amatissimo John McGeoch (Magazine, Siouxsie & The Banshees, Public Image Ltd.) e Andy Taylor (Duran Duran).

E se l’apripista fu la mitica chitarra Yamaha, la seconda per importanza fu proprio la Ibanez Artist 2617.

Yamaha SG 2000

Apparentemente la SG2000 e la 2617 si somigliano molto, entrambe logiche discendenti della Gibson Les Paul Special double cut, quella versione solid-body a doppia spalla mancante della Les Paul che fu “modernizzata” nel 1960 nella serie SG.

Ulteriori evoluzioni delle forme porteranno poi alla creazione della Ibanez Artist Professional 2680 Bob Weir, ancor più somigliante alla SG2000, e al modello realizzato in esclusiva per Weir nel 1976 e riprodotto nel 2016 da Sugi per Ibanez con il nome BWM1 “Cowboy Fancy”, una via di mezzo tra la Gibson ES345 e la Artist 2617 appunto.

Ibanez 2680 Bob Weir

Ibanez BWM1

Le due spalle mancanti della Ibanez 2617 sono profonde e ampie e con cornetti più slanciati rispetto alla Yamaha, offrendo un accesso facilitato agli ultimissimi tasti.

Il corpo è in frassino massiccio in finitura trasparente, che conferisce un splendido tono mielato al colore naturale del legno.

Il top bombato risulta particolarmente in rilievo lungo i bordi grazie all’incisione in tipico stile germanico ed è ulteriormente impreziosito da un sontuoso binding a 7 strati con una striscia centrale in abalone.

Il manico a 22 tasti della 2617 è in tre pezzi di acero canadese (più due per i bordi della paletta) e incollato al corpo con una giunzione estremamente ben fatta.

La regolazione avviene tramite un truss rod di tipo standard il cui dado è situato sotto la solita piastra di plastica sopra il capotasto e che può essere regolato con una piccola chiave esagonale.

La tastiera, in palissandro (le future produzioni l’avranno di ebano) con binding, ha blocchi segnatasti in madreperla e abalone e capotasto in osso che negli esemplari successivi diventerà metà osso e metà ottone per aumentare il sustain.

La base della paletta è rinforzata dalla voluta, cosa che, dopo l’altissimo numero di palette spezzate, stava cominciando a capire anche la Gibson.

Le chiavette sono le tipiche Smooth Tuner (successivamente vennero adottate le VelveTune) regolabili marchiate Ibanez placcate in oro come tutto l’hardware.

Gli strumenti che montavano questo tipo di chiavette venivano dotati di una minuscola chiave per poter agire sulla ghiera alla base e regolarne la tensione.

Il fronte della paletta oltre al logo Ibanez ha un motivo decorativo intarsiato in madreperla nella laccatura nera e il nome Artist riportato sul copri trussrod.

Il ponte e bloccacorde sono in tipico stile tune-o-matic di ispirazione Gibson e verranno in seguito sostituiti con la classica coppia Gibraltar montata sulle Ibanez di fascia alta con il blocca corde rapido con piastra posteriore a sagoma di nuvola.

I pickup originali montati sulle Ibanez 2617 erano i classici Maxon Super 70 (nelle versioni successive vennero montati i Super 80 con il coperchio con stampa Flying Finger) con controlli di volume e tono passivi per ciascun pickup e un selettore posizionato sulla spalla superiore ma il precedente proprietario li sostituì con una coppia di humbucker splittabili e aggiunse due mini switch sul top.

Rich decise invece di sostituirli con una coppia di PAF Lindy Fralin e tappare i fori dei due mini switch.

Evoluzioni della Ibanez 2617 Artist furono la 2619 Artist (corpo in mogano e top in acero) e la 2670 Artwood Twin (una doppio manico a 6 e 12 corde).

La 2617 usci di produzione nel 1980, sostituita dalla AR250.

Ibanez 2670 Artwood Twin, riedizione limitata dei primi anni 2000.

...MA COME SUONA?

Guarda e ascolta i video esclusivi di questa Ibanez 2617 Artist!

Specifiche

Marchio Ibanez
Tipo di strumento Chitarra elettrica solid body
Serie Artist
Modello 2617
Anno 1975
Giunzione manico Incollato
Materiale manico Acero canadese – 3 pezzi
Meccaniche Ibanez Smooth Tuners
Capotasto Osso
Materiale tastiera Palissandro
Numero tasti 22
Materiale corpo Frassino massello per corpo e top
Finitura Blonde
Pickup Maxon Super 70
Ponte Tune’O’Matic
Colore hardware Oro
Customizzazioni Pickup sostituiti con Lindy Fralin PAF
Tokio City Pop

City Pop – il futuro veniva dal Giappone

By Musica, Personaggi Storici2 Comments

Il cosiddetto City Pop non è un genere ben definito, avendo preso ispirazione da vari altri stili, soprattutto americani, è più considerabile una contaminazione che un vero e proprio genere musicale a sé stante, in realtà anche il nome City Pop non ha un’origine ben precisa e si riferisce semplicemente alla musica che proietta un'atmosfera "urbana" e il cui target demografico sono gli abitanti delle città.

Lorenzo

City Pop è il nome attribuito attualmente ad una corrente musicale emersa alla fine degli anni ’70, conosciuta ai tempi come New Music, e che ha raggiunto il picco negli anni ’80 per poi calare nell’epoca “grunge” dei ‘90, finendo addirittura con l’essere derisa dalle nuovi generazioni giapponesi, cadendo così nel dimenticatoio fino agli inizi degli anni dieci del duemila quando ha subito un rilancio tramite i blog di condivisione musicale e alle ristampe giapponesi degli album di riferimento.

In conseguenza di questo si è diffusa a livello internazionale ed è diventata la base fondante di fenomeni musicali di ripescaggio basati sul copia-incolla di campionamenti come vaporwave e future funk.

Il cosiddetto City Pop non è un genere ben definito, avendo preso ispirazione da vari altri stili, soprattutto americani, è più considerabile una contaminazione che un vero e proprio genere musicale a sé stante.

In realtà anche il nome City Pop non ha un’origine ben precisa e si riferisce semplicemente alla musica che proietta un’atmosfera “urbana” e il cui target demografico sono gli abitanti delle città.

Tatsuro Yamashita con Eiichi Ohtaki

Le sue origini vengono identificate sia nella band Tin Pan Halley di Haruomi Hosono, che fondeva R&B, soul e jazz fusion con la musica tropicale hawaiana e quella tipica di Okinawa, che nell’album Songs degli Sugar Babe, il progetto con il quale debuttarono nel 1975 Tatsuro Yamashita e Taeko Onuki, considerati i fondatori del City Pop, del quale Yamashita è considerato “il Re” e la Onuki una delle più importanti compositrici.

Della partita era anche il produttore dell’album, Eiichi Ohtaki, terzo pilastro fondante del genere e da questo si riesce a capire l’importanza di Songs.

Il disco degli Sugar Babe, al quale si attribuisce appunto la nascita del City Pop, è un grande album westcoast con enormi riminiscenze beatlesiane, del Todd Rundgren di Runt e Something/Anything e della Carol King che infatti ai tempi proprio da Rundgren copiò lo stile.

L’album passò incredibilmente in sordina ai tempi dell’uscita per poi invece schizzare direttamente al numero 3 quando fu ristampato nel ‘94.

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Sugar

Quindi le origini del City Pop si individuano come propaggine della “new music” giapponese influenzata dal folk americano ma arrivò a includere un’ampia gamma di stili – tra cui AOR, soft rock, R&B, funk, boogie, jazz fusion, tropical, latina, new wave – che erano associati al nascente boom economico del Giappone.

Il movimento di conseguenza si identificava anche con le nuove tecnologie giapponesi di allora come il Walkman, gli stereo portatili con registratori a cassette, gli autoradio stereo FM con lettore cassette e vari strumenti musicali come i sintetizzatori Casio CZ-101 e Yamaha CS-80 e la drum machine Roland TR-808.

Casio CZ-101

Quella City Pop era insomma musica fatta da gente di città per gente di città con lo scopo di fare da gioiosa colonna sonora del tempo libero e promuovere la commercializzazione dello stile di vita tecnologico cittadino ed è stata a tutti gli effetti la risposta giapponese al synth pop e alla disco.

Quello che accomuna comunque tutte le produzioni di questa “fabbrica del buonumore” sono melodie d’impatto (rilassanti o energetiche che siano), suoni scintillanti e levigati, estrema cura degli arrangiamenti e della produzione e musicisti di grandissima competenza, per lo più provenienti dalla scena jazz e fusion giapponese con collaborazioni di musicisti occidentali perlopiù americani, così come avveniva per la fusion del periodo.

Musicalmente, venivano applicate tecniche di scrittura e arrangiamento relativamente avanzate – come gli accordi di settima maggiore e diminuiti – che sono tratte direttamente dall’ easy jazz e dal soft rock americano dell’epoca come quello di Chicago, Steely Dan e Doobie Brothers.

Haruomi Hosono

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L’album Tropical Dandy di Haruomi Hosono

La popolarità di questa musica raggiunse livelli tali da essere ovunque, inserita persino nelle colonne sonore degli anime, film, programmi tv e in seguito dei videogames, grazie all’influenza che ebbe sulle band fusion jazz strumentali come Casiopea e T-Square, che successivamente influenzarono a loro volta la musica dei videogiochi giapponesi.

Il City Pop andava quindi a gonfie vele e funzionò come un motore perfettamente oliato finché la crisi del 1991 e l’arrivo dell’epoca “grunge” fecero crollare il mercato e molti giovani giapponesi che erano cresciuti con questo tipo di musica iniziarono a considerare il city pop come scadente, mainstream e usa e getta, arrivando al punto di chiamarlo ‘pop di merda’ preferendogli la tipica depressione grungiana del periodo e facendolo finire in uno iatus di vent’anni interrotto dalla rinascita del 2010 con l’epoca delle ristampe e in seguito dei nuovi dischi dei patron del genere.

Gli artisti della City Pop – alcuni esempi

Abbiamo già parlato del “Re” della City Pop, Tatsuro Yamashita, che spesso ha lavorato in coppia sia con la moglie Mariya Takeuchi, altro asso di questa musica, che con la ex collega degli Sugar Babe, Taeko Onuki.

Yamashita, grande perfezionista che non ha mai smesso di produrre musica in proprio e produrre altri artisti, tra i tanti brani vede il suo cavallo di battaglia nella celebre Ride on Time, punto di riferimento delle compilation di City Pop che nel 1980 lo portò al numero 3 delle classifiche lanciandolo definitivamente come star principale del genere.

Mariya Takeuchi e Tatsuro Yamashita

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Ride On Time

Mariya Takeuchi ha scritto brani praticamente per tutti, come interprete è sempre stata prodotta dal marito Yamashita e nel 1984 sfornò la celebre Plastic Love.

Considerata la canzone portabandiera del genere, è un autentico sfoggio di classe compositiva e arrangiativa che vide una seconda vita con il remix del 2017 e il relativo mini film che venne rapidamente diffuso tramite l’algoritmo di YouTube, tornando subito alla ribalta nei circuiti internazionali.

La Takeuchi dice del suo brano: «Volevo realizzare una canzone che fosse al tempo stesso rock, folk, country, ma che fosse anche ballabile, qualcosa con un sound tipico da City Pop.

Il testo racconta la situazione sentimentale di una donna che ha perso l’amore dell’unico uomo veramente importante per lei.
Non importa quanti altri uomini la corteggino; lei non è in grado di scrollarsi di dosso la sensazione di amarezza e solitudine che questa perdita le ha lasciato e sente ogni flirt come una triste finzione».

L’ipnotico potere della tristezza mescolato con una base musicale apparentemente felice… ma niente è davvero felice in questo brano: è lo stile giapponese ed è incredibilmente perfetto 💙

L’attrice Sawa Nimura nel video di Plastic Love 2017

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Plastic Love 2017

Minako Yoshida non è molto conosciuta ma vede la sua forza nell’essere la principale coautrice di Yamashita, il quale ha messo il suo tipico tocco da produttore preciso e geniale nell’arrangiamento di Town, un muro funk pulsante e ricco sia nella parte strumentale che nella potenza vocale e nei cori, il tutto coadiuvato da sax urlanti, interventi chitarristici lancinanti e sirene in una una sorta di potente risposta giapponese a Chaka Khan.

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Town

Noriko Miyamoto, forte di una splendida voce jazz dal timbro morbido e potente, debutta nel 1978 con l’album Push, scritto e suonato dal grande contrabbassista Isao Suzuki dal quale segnaliamo la notevole My Life con testo di Kazumi Yasui, affascinante liricista e poetessa, già autrice nel 1971 dell’album di poesia musicata Zuzu.

My Life, che troviamo in chiusura dell’album, è un morbido e notturno brano jazz funk ricco di meravigliosi vocalizzi black e improvvisazioni di contrabbasso, chitarra e piano elettrico. Un classico istantaneo, effervescente compagno di romantici brindisi al chiaro di luna.

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My Life

Masayoshi Takanaka dopo aver fondato la folle Sadistic Mika Band scelse una fruttuosa carriera da solista diventando famoso come chitarrista leader, quasi una sorta di risposta giapponese a Santana con il quale condivide anche l’uso della Yamaha SG 2000 e di sonorità molto simili pur essendo la sua musica molto più orientata verso pop, sapori brasiliani e folle sperimentazione con largo impiego di sintetizzatori e cori.

E’ forse più conosciuto e apprezzato per i suoi intensi live che per i fantastici dischi fusion ricchi d’inventiva che ha prodotto tra la fine dei ‘70 e la metà degli ‘80.

Ma per restare in ambito City Pop portiamo come esempio questa splendida versione di live di Nagisa Moderato.

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Nagisa Moderato

Char è un altro pezzo da 90 del chitarrismo nipponico.
Amato come un eroe nazionale dal proprio popolo e dai colleghi, è in effetti un chitarrista dotato di grandissimo impatto e carisma che, pur avendo avuto il suo unico grande successo commerciale nel suo album di debutto del 1976, fa ancora il soldout nelle arene.

Smoky è un grande pezzo di funk al fulmicotone con staffilate di chitarra satura.

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Smoky

Smoky live (1978)

CASIOPEA, la mitica band jazz fusion guidata dal chitarrista Issei Noro e che ha da sempre una forte connessione sia con la corrente City Pop che con gli strumenti Yamaha, nel 1980 diede alle stampe l’inossidabile classico Make Up City da cui è tratta l’energica Twinkle Wing, uno dei più begli esempi di brano strumentale che si appoggia al City Pop e da cui deriveranno la musica per anime e videogames.

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Twinkle Wing

Midnight Rendezvous

Miki Matsubara nel 1980 diede un ottimo esempio del periodo di transizione tra il morbido disco funk e la City Pop tecnologica degli anni ’80 con un altro grande classico, Stay With Me, suo più grande successo di un carriera purtroppo breve essendo venuta a mancare ancora giovane.

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Stay With Me

Makoto Matsushita, assurdamente semisconosciuto, è un chitarrista di grande abilità nonché davvero ottimo compositore di musiche e canzoni con uno stile intimista tutto suo.

Mentre ha lavorato molto come turnista e collaboratore in vari progetti, di notevole classe e bellezza ma molto poco conosciuti ai giapponesi stessi sono i suoi purtroppo pochi album solisti, due dei quali contengono brani perfettamente ascrivibili alla City Pop, risultando forse gli unici dischi concept di questo movimento musicale.

I due album, peraltro assai diversi dai tipici brani City Pop pur essendolo a tutti gli effetti, sono First Light e The Pressures and The Pleasures (una sorta di concept intimista sulla città e la stressante e solitaria vita dei manager) dai quali segnaliamo This Is All I Have for You e Carnaval: The Dawn.

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This Is All I Have for You

Carnaval: The Dawn

Mai Yamane, dotata di una splendida voce soul, esordì nel 1980 con Tasogare, grande album prodotto, arrangiato e suonato da Makoto Matsushita

Divenuta nel tempo cantante affermata, la Yamane si trasformò in musicista di culto alla fine degli anni ’90 grazie alla sua partecipazione alla colonna sonora del celebre anime Cowboy Bebop, del quale interpretò anche lo splendido brano di chiusura The Real Folk Blues.

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Tasogare

The Real Folk Blues

Akira Inoue, mentore di altri noti artisti del settore, nel 1983 ci da un perfetto esempio di come la New Wave possa entrare nel campo City Pop con grande classe e movimento emotivo con la sua Samayoeru Holland-jin no you ni.

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Samayoeru Holland-jin no you ni

Eiko Miyagawa alias Epo. Personalità poliedrica e fascinosa, Epo è una sorta di musa che è lei stessa creatrice.

Protetta della coppia Yamashita/Takeuchi e diventata nome di culto nell’ambito pop del suo paese, è sia musicista compositrice che terapeuta.
Musicalmente ha spaziato tra il city pop, la new wave, l’autoriale e il J-pop più strambo.

Il suo brano Escape è frizzante come un pezzo di Hall&Oates cantato con lo stile della Corinne Drewery degli Swing Out Sister che qua pare però aver anticipato di qualche anno.

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Escape

Motoharu Sano è una delle figure di riferimento della musica rock giapponese e un musicista eclettico per il quale il City Pop ha rappresentato solo un momento di passaggio e la sua Tonight del 1984, che lo rispecchia appieno, sembra un divertente mix tra la sigla di un anime e un pezzo di Billy Joel.

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Tonight

Yasuhiro Abe debuttò nel 1983 con questa divertente We Got It che sembra un pezzo nello stile AOR beatlesiano degli Utopia del periodo ‘80-’82, come se fosse un brano di Deface the music o di Swing to the right o di Utopia cantato in giapponese.

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We Got It

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La Terra Silenziosa

La Terra Silenziosa (1985) – La fine è solo l’Inizio

By Cinema, Personaggi StoriciOne Comment

Il 5 luglio inizia come una normale mattina d'inverno vicino a Hamilton, in Nuova Zelanda. Alle 6:12, il sole si oscura per un momento e in un lampo si scorge brevemente una luce rossa circondata dall'oscurità e una sensazione di “particelle” in movimento. Con questa forte sensazione impressa nella mente Zac Hobson si sveglia dal suo sonno. Accende la radio ma non è in grado di ricevere alcuna trasmissione. Si veste e si dirige alla volta della città, che trova deserta. Sul luogo di un incendio scopre il relitto in fiamme di un aereo passeggeri ma a bordo ci sono solo sedili vuoti. Ogni essere vivente umano e animale sembra essere svanito di colpo.
Così inizia il film La Terra Silenziosa.

The Boss

Nel 1985 il regista Geoff Murphy dirige un bel film il cui finale è stato per anni introvabile in edizione italiana e che è tratto liberamente da un racconto di Craig Harrison che per anni è stato ancora più raro, persino nell’edizione originale neozelandese: La Terra Silenziosa (The Quiet Earth).

Si tratta di un film pregno di significati metafisici ma che può essere facilmente guardabile da chiunque, pur risvegliandogli un forte senso di estraniamento e di incanto ed è proprio così che il cinema surreale dovrebbe funzionare sulla mente umana.

E’ doveroso far presente che essendo questa una analisi dettagliata anche e soprattutto della parte simbolica del film, saranno presenti SPOILER continui perciò si raccomanda la visione del film prima di leggere quanto segue.

Murphy, assistito alla prima unità dalla futura star Lee Tamahori, si avvale della prova di un ottimo Bruno Lawrence (anche coautore della sceneggiatura con Bill Baer e Sam Pillsbury), perfettamente a suo agio nella parte del protagonista Zac Hobson, uno scienziato profondamente deluso e amareggiato dalla sua vita e dal suo stesso lavoro a cui fanno da spalla gli unici altri due attori che diventano a loro volta forzatamente coprotagonisti: la rossa Alison Routledge e il Maori Peter Smith.

A partecipare al donare questo senso di incantata irrealtà contribuiscono l’ottima fotografia di James Bartle e le ovviamente pochissime musiche evocative di John Charles.

Sinossi

Solo?

Il 5 luglio inizia come una normale mattina d’inverno vicino a Hamilton, in Nuova Zelanda.

Alle 6:12, il sole si oscura per un momento e in un lampo si scorge brevemente una luce rossa circondata dall’oscurità e una sensazione di “particelle” in movimento.

Con questa forte sensazione impressa nella mente Zac Hobson si sveglia dal suo sonno.
Accende la radio ma non è in grado di ricevere alcuna trasmissione. Si veste e si dirige alla volta della città, che trova deserta.

Sul luogo di un incendio scopre il relitto in fiamme di un aereo passeggeri ma a bordo trova solo sedili vuoti. Ogni essere vivente umano e animale sembra essere svanito di colpo.

Si scopre che Hobson è uno scienziato impiegato alla Delenco, parte di un consorzio internazionale guidato dagli Stati Uniti che lavora sul “Progetto Flashlight“, un esperimento volto a creare una griglia energetica globale wireless atta ad alimentare le apparecchiature militari.

Zac arriva alla Delenco, ma non riesce a contattare nessuno degli altri laboratori situati in tutto il mondo.
In un laboratorio sotterraneo scopre il cadavere di Perrin, il suo superiore, e nel pannello di controllo principale della griglia Flashlight un monitor visualizza il messaggio “Operazione Flashlight completata”.

La scomparsa di massa sembra coincidere con il momento in cui è stata attivata la griglia del Flashlight da Perrin.
Il laboratorio viene improvvisamente automaticamente sigillato a causa delle radiazioni, Zac quindi improvvisa una bomba a gas per tentare di uscirne.

Egli tiene un diario su nastro che incide su un registratore portatile e dal quale si viene a conoscenza del fatto che lui fosse già in rotta con la Delenco, che accusa di occultare volutamente i dati di un progetto che lui definisce come dotato di un “potenziale distruttivo fenomenale”, situazione dalla quale dice mestamente di intravedere “un’unica via d’uscita”, quindi osserva:

«Zac Hobson, 5 luglio. Primo: c’è stato un malfunzionamento nel Progetto Flashlight con risultati devastanti. Secondo: a quanto pare sono l’unico sopravvissuto sulla Terra.»

Si riferisce al fenomeno come “l’Effetto“.

 

Dopo una settimana di disperati tentativi di contattare sopravvissuti, Zac si trasferisce nella villa di un quartiere signorile ma il suo stato mentale inizia a deteriorarsi per l’improvvisa e inaspettata solitudine.

Va a giro per centri commerciali a fare incetta o distruggere quello che trova, alterna euforia e disperazione e una sera, rendendosi conto del fatto che probabilmente non rivedrà mai più una donna, indossa una camicia da notte femminile e davanti ad un’assemblea di figure in cartone di politici e celebrità varie, tra fanfare ed esultazioni di folla registrate, tiene un amareggiato discorso dal balcone:

«Io ho dedicato tutte le mie conoscenze e capacità scientifiche per progettare qualcosa che sapevo poteva essere usata a scopi nocivi.
“Per il bene comune” mi dicevano.

Com’è facile credere nel bene comune quando tale convinzione è ripagata con lo ‘status’… la ricchezza… e il potere!
E’ difficile credere nel bene comune quando ogni fibra del mio essere mi dice che le forze spaventose che ho creato sono state messe nelle mani di questi pazzi!

Sono stato ingannato dal vomito della mia stessa corruzione!
Non è quindi normale che io sia il Presidente di questa Terra Silenziosa? Sono condannato a vivere…».

Su queste parole cala il blackout energetico.
Il giorno dopo, preso da un attacco di disperazione, irrompe in una chiesa, spara alla statua di Gesù sul crocifisso, distrugge l’impianto voci del pulpito e dichiara:

«E ora sono io Dio».

Poi inizia a distruggere tutto con un escavatore e, dopo aver schiacciato accidentalmente una carrozzina vuota, si mette in bocca la canna del fucile e la scena si chiude su una delle esplosioni provocate da lui attorno a sé.
Questo evento forse serve a spezzare la sua follia.

La scena si riapre su Zac che schizza nudo fuori dal mare e corre sulla spiaggia di uno splendido scorcio di costa neozelandese: forse un nuovo inizio.

Un Nuovo Inizio?

Venti giorni sono passati dall’Effetto e Zac si è stabilito in una villa sulla costa, munendosi di generatori a gasolio e adottando una routine più normale, pur continuando a monitorare lo stato del sole.

Una mattina d’improvviso appare alla sua porta una giovane donna di nome Joanne, i due si abbracciano e Zac finalmente si scioglie mormorando «Finalmente ho trovato qualcuno», Joanne annuisce maternamente.

I due si raccontanto le rispettive esperienze e Zac realizza che «Qualcosa è cambiato, non so cosa ma me lo sento. E’ come se fossimo stati spostati altrove, il polo nord è ancora a nord ma l’acqua del rubinetto scende nello scarico nel senso sbagliato.
Mi sa che… o siamo morti o siamo in un altro universo.»
«Sei anche tu di un altro universo? Sei una donna… o una bambina?» le chiede sommessamente mentre lei si è appisolata.

Joanne è una ragazza vitale e con una mente peculiare che le fa elaborare teorie interessanti anche sulla fisiognomica e l’attrazione animica, Zac è molto affascinato da lei e dopo pochi giorni fanno l’amore.

Altri strani effetti fisici sulla materia continuano a verificarsi e, nonostante sia preso da un nuovo entusiasmo vitale grazie alla presenza della giovane, l’uomo continua i suoi test di monitoraggio realizzando che la carica degli elettroni è cambiata e sta adesso oscillando tra due valori, aumentando continuamente l’ampiezza di tale oscillazione e rendendo di conseguenza fortemente instabile la composizione della materia.

Quando la vita di Zac pare essersi finalmente stabilizzata con Joanne accanto, durante una delle loro scorribande esplorative in città egli trova un terzo sopravvissuto, un uomo Maori di nome Api dal quale Joanne rimane subito attratta.

I tre determinano il motivo per cui sono sopravvissuti: nell’istante dell’ Effetto, erano tutti nel momento della morte: Api stava annegando durante una lite, Joanne era stata fulminata da un asciugacapelli difettoso e Zac era in overdose di pillole in un tentativo di suicidio a causa dei sensi di colpa per i pericoli creati dal suo progetto.

La scoperta del suo corpo, con accanto il suo ID di laboratorio e il registratore, avrebbe avuto la conseguenza di esporre il Progetto Flashlight e terminare l’esperimento prima che fosse troppo tardi.

 

Zac

Joanne

Api

Si sviluppa un triangolo amoroso che non manca di incomprensioni e gelosie ma Zac è adesso più preoccupato che mai per le sue osservazioni scientifiche: le costanti fisiche universali stanno cambiando, facendo fluttuare l’uscita del Sole e diventando altamente instabile.

Zac teme che l’effetto si ripresenti (e che il Sole crollerà presto in ogni caso e cancellerà la Terra) e Api ne da una possibile spiegazione: se la griglia dello Spotlight è ancora attiva e destabilizza continuamente il sole, l’eliminazione della struttura eliminerebbe la griglia, scongiurando il pericolo.

I tre mettono da parte i loro conflitti personali e decidono di distruggere il laboratorio Delenco portando un camion carico di gelignite all’installazione dello Spotlight ma si fermano al perimetro quando Zac rileva livelli pericolosi di radiazioni ionizzanti emanate dall’impianto.

Dice che andrà in città per recuperare un dispositivo di controllo remoto per inviare il camion nella struttura.

In assenza di Zac Joanne e Api fanno l’amore e in seguito, Api dice a Joanne che sarà lui a guidare il camion; dubita che il dispositivo di Zac sarà in grado di controllare il veicolo e sente che debba essere lui a sacrificarsi.

Poi sentono il rumore del camion: Zac aveva solo inventato una scusa per poter pagare il suo debito per la mostruosità che ha creato.

L’uomo guida il camion sul tetto del laboratorio indebolito dalla bomba a gas che crolla e, proprio mentre si verifica il Secondo Effetto, fa esplodere la gelignite.

E di nuovo…

Ancora una volta, si vede una luce rossa brillante in fondo ad un tunnel buio pieno di “particelle” in movimento.

Zac si sveglia su una spiaggia al crepuscolo.
Ci sono strane formazioni nuvolose, simili a trombe d’acqua, che emergono dall’oceano.
Cammina fino al bordo dell’acqua poi vede un enorme pianeta inanellato sorgere lentamente all’orizzonte.

Essendo l’unico sopravvissuto a questo nuovo Effetto, Zac osserva confuso e disperato ciò che lo circonda e lo attende.

Un’analisi esoterica del film

 

Si può facilmente interpretare il film come una discesa nel limbo, un purgatorio a più livelli: Zac potrebbe effettivamente essere morto in seguito al suicidio e trovarsi animicamente auto-segregato in un luogo di mezzo dove affrontare le conseguenze del gesto e capire esperendo che non è scappando che si risolve una responsabilità come quella che sente di avere.

Potrebbe in seguito non aver retto alla solitudine del luogo senza tempo dove si trova e aver tentato la fuga tirando davvero il grilletto al momento in cui si è posto la canna del fucile in bocca ed essersi ritrovato in un altro limbo nel quale sono arrivati in suo soccorso i due spiriti guida Joanne e Api.

I due paiono incarnare in effetti rispettivamente lo yin e lo yang e agiscono quasi come due genitori esoterici nei suoi confronti, lei donandogli con accoglienza l’affetto, la bellezza “venerea” e il calore materno e lui, con il suo incedere affettuoso ma “marziale” (notare che è sempre abbigliato da militare ed è esperto di quell’ambiente e dei suoi mezzi e materiali), dandogli protezione e porgendogli la soluzione al dilemma che lo dilania: poter rimediare al suo karmico senso di colpa.

C’è un punto nel quale Zac ha la forte sensazione che Api e Joanne si conoscano da sempre e allo stesso tempo che in quel mondo esista solo lui e che loro due siano un parto della sua mente, al che Api (che già in precedenza aveva dichiarato la sua sensazione di essere uno spirito) improvvisamente dice a Joanne che lei potrebbe essere una Patupaiarehe e che in tal caso Zac avrebbe ragione a pensare che loro due in realtà non esistano.

Nella tradizione Maori i Patupaiarehe sono “il popolo fulvo della notte(perché sensibili alla luce), esseri soprannaturali dalla carnagione pallida e dai capelli biondi o rossi posti a guardia dei segreti della Terra e che hanno da sempre un fortissimo legame animico con i Maori stessi (da notare il profondo dolore di Joanne per la scomparsa del genere umano e anche il fatto che nella scena dove i tre si incontrano per la prima volta lei indossi un costume da fata).

 

 

Patupaiarehe – Illustrazione di Isobel Joy Te Aho-White

Gli errori di Zac a questo punto sono la gelosia cieca che gli ha fatto travisare il ruolo dei due spiriti amici e il voler risolvere in maniera matericamente rapida (senza cioè darsi il tempo di affrontare, esperire ed elaborare) il suo debito karmico verso l’umanità: non accettando i ruoli dei due spiriti tenta la via di fuga per la terza volta facendosi esplodere, finendo invece stavolta alle porte di un autentico inferno.

Unico sopravvissuto poiché morto durante il Secondo Effetto è adesso alle prese con un mondo che è pieno di pericoli annunciati già dal suo arrivo: cataclismi naturali (che rappresentano dolori karmici potenziati da dover per forza affrontare) e l’annunciarsi di Saturno, Signore dell’astrologia karmica e che rappresenta il bagaglio di limitazioni che un individuo si porta appresso, alla nascita, dalle incarnazioni precedenti del proprio spirito.

E’ comprensibile che il povero Zac si trovi adesso perso e disperato poiché si trova ad affrontare, tutte assieme, le difficili prove che ha sfuggito finora.

La soluzione per lui è capire che ogni prova se l’è inviata da solo con lo scopo di proseguire il proprio cammino evolutivo: realizzato questo troverà finalmente il coraggio di risolvere i suoi nodi karmici e proseguire il suo cammino di maturazione interiore.

Oppure, come suggerito dal romanzo di Harrison, potrebbe essere tutto un premonitore “Sogno dentro a un sogno” (Nolan ne sa qualcosa e prima di lui Herk Harvey con il suo Carnival of Souls).

Da notare che nel finale del racconto di Harrison, Hobson (che nel libro si chiama John) si risveglia dal “sogno” e nota che anche nella “realtà” l’orologio si è fermato alle 6:12 come all’inizio della storia.

Da un punto di vista numerologico molto spicciolo si nota una persistenza del 6.

L’ora 6:12 si riferisce al Numero della Bestia, 666 (6–12 = 6 e 6 più 6) e ad Apocalisse 6:12, con il discorso del capitolo biblico degli uomini che si nascondono dal volto di Dio: verso la fine della sua solitudine Zac dichiara di essere diventato lui stesso Dio ma come vedremo in seguito si tratta in realtà una falsa presa di coscienza di sé, poiché probabilmente si è di nuovo suicidato per sfuggire alla solitudine e comunque anche nel seguito non assume né le responsabilità e nemmeno l’accettazione della solitudine che il lavoro su di sé porta.

Non a caso il numero 6 si ripropone nel film durante la ricerca di sopravvissuti: il cartellone che Hobson lascia come appello, solamente di numeri, contiene almeno due somme che danno un doppio 6 (numero indirizzo sommato alle cifre del numero telefonico ovvero 396121 e 2 cioè 22 + 2 ovvero 2+2+2= 6 oppure 24+2=6 e il prezzo nell’angolo in alto a sinistra ovvero $ 1.50 e cioè 1+5=6) ai quali si possono aggiungere le cifre della falsa legge da lui recitata al megafono dell’auto di polizia per far uscire allo scoperto eventuali superstiti (legge 366025 art. 2 ovvero 22 e 2, 2+2+2=6 oppure 24 ovvero 2+4=6).

Mi fermo qua e lascio al lettore il compito di approfondire ulteriormente.

 

Conclusioni

 

Il romanzo risulta ancora più incentrato sul pessimismo, pregno di paranoia e isolamento rispetto al film poiché il personaggio di Joanne praticamente non esiste e non è presa in considerazione nessuna forma di spirito guida e Matrimonio Alchemico ma è al contrario molto “inglese” e immerso nella codardia e meschinità umana, molto di stile “ballardiano” in questo (Craig Harrison è un inglese trasferito in Nuova Zelanda).

La Terra Silenziosa rappresenta il film della vita per Geoff Murphy e gli aprirà le strade di Hollywood per quella che sarà una carriera di tutto rispetto come regista di genere e che gli permetterà di lavorare con alcuni degli attori più iconici del periodo ma che logicamente non vedrà mai la creazione di un altro film di questa caratura e profondità.

E’ un film molto ermetico, occorrono deduzione e chiavi di lettura che si acquisiscono con la ricerca, lo studio e talvolta “incontri fortunati” sul proprio cammino.

Quello che regista e produzione non ci hanno detto è che il film, più che un estratto fedele del romanzo di Harrison, è piuttosto un mix tra quello e una rielaborazione del film del 1959 “La fine del mondo” che è a sua volta tratto dal romanzo del 1901 “La nube purpurea” di M.P. Shiel, molto apprezzato sia da Welles che da Lovecraft.

La terra silenziosa è in assoluto uno dei film da me preferiti e un altro fatto peculiare è che io possegga da molti anni, senza peraltro ancora averlo letto, il romanzo “La nube purpurea”, acquistato usato ad una bancarella poiché attratto dal titolo.

Solo un’altra conferma che in questa esperienza chiamata Vita nessun accadimento è casuale.

 

Edizione originale del romanzo di Craig Harrison

Locandina del film

“La Terra Silenziosa (The Quiet Earth)” (NZ 1985) di Geoff Murphy

Regia Geoff Murphy
Soggetto e sceneggiatura Bill Baer
Bruno Lawrence
Sam Pillsbury
Produzione Sam Pillsbury
Don Reynolds
              Interpreti Bruno Lawrence
Alison Routledge
Peter Smith
Fotografia James Bartle
Montaggio Michael J. Horton
Musiche John Charles
Compagnie di produzione
  • Cinepro
  • Pilsbury Productions
  • Mr. Yellowbeard Productions Limited & Company
Data di uscita

18 October 1985 (US)

Durata
91 minuti

 

Candidature e premi

Avoriaz Fantastic Film Festival 1986

Nominee
Grand Prize
Geoff Murphy

Fantafestival 1986

Winner
Best Actor
Bruno Lawrence
Winner
Best Direction
Geoff Murphy

New Zealand Film and TV Awards (I) 1987

Winner
Film Award
Best Film
Don Reynolds
Sam Pillsbury
Best Performance, Male in a Leading Role
Bruno Lawrence
Best Performance, Male in a Supporting Role
Pete Smith
Best Director
Geoff Murphy
Best Screenplay – Adaptation
Bill Baer
Sam Pillsbury
Bruno Lawrence
Best Cinematography
James Bartle
Best Editing
Michael Horton
Best Production Design
Josephine Ford

Trailer del film La Terra Silenziosa

Il film La Terra Silenziosa (purtroppo con colonna sonora inziale cambiata)

Micro Synthesizer

Electro-Harmonix Micro Synthesizer: Mr. Growly!

By Pedali Vintage, Personaggi StoriciNo Comments

Immagina di avere, in un solo pedale, un fuzz versatile, un autowah, un filtro, e un effetto reverse, tutti analogici.
Questo è il mitico Microsynthesizer della Electro-Harmonix, che consente di imitare i toni ciccioni di sintetizzatori vintage come Moog, Oberheim e ARP collegando una chitarra, un basso o un qualsiasi altro strumento.

Daniele Pieraccini

Immagina di avere, in un solo pedale, un fuzz versatile, un autowah, un filtro, e un effetto reverse, tutti analogici.
Questo è il mitico Microsynthesizer della Electro-Harmonix, che consente di imitare i toni ciccioni di sintetizzatori vintage come Moog, Oberheim e ARP collegando una chitarra, un basso o un qualsiasi altro strumento.

Come molti altri pedali della Electro Harmonix (vedi Small Stone ed Electric Mistress), il Micro Synthesizer è stato sviluppato da David Cockerell, un ingegnere elettronico e designer precedentemente impegnato nel mondo dei sintetizzatori (suo è il Synthi VCS3, tra gli altri) e qualche anno dopo designer di campionatori alla Akai, prima di fare ritorno alla società newyorkese di Mike Matthews.

Le Versioni

V1

La prima versione del Micro Synthesizer esce nel 1979.

Questo modello non ha un interruttore di accensione/spegnimento sul retro e lo switch di attivazione a pedale si trova sul lato sinistro. A differenza delle versioni successive, non è presente un LED e l’onda quadra è etichettata come distorsione.

Electro Harmonix lo presenta con due circuiti stampati uno sopra l’altro (come il V2 e il V3). Uno per il circuito di base e un altro che contiene gli slider e collega i controlli alla scheda madre.

V2

Negli anni ottanta esce la seconda versione, la prima con un interruttore di accensione/spegnimento sul retro e un LED. Lo switch a pedale si è spostato a destra ma, come il Micro Synthesizer originale, il V2 ha un alimentatore integrato nello chassis.

V3

Il decennio successivo EHX introduce la terza versione del pedale, usando gli stessi componenti delle precedenti. Nel frattempo però Panasonic interrompe la produzione dei chip analogici utilizzati, fatto che costringe Mike Matthews ad acquistare tutta la scorta rimanente dei suddetti componenti per questa reissue per poi sospendere la produzione una volta esaurita la scorta.
La versione 3 è la prima con un alimentatore separato da 24v.

Questa è la versione del pedale da me usata.

Nello stesso periodo è lanciata anche la prima versione per basso del pedale. Devo aggiungere che, pur essendo principalmente un bassista, non l’ho mai provata e non ne ho mai sentito la necessità, soddisfatto della versione normale in mio possesso.

V4 XO Micro Synth

Ancora un decennio ed eccoci alla versione in commercio tuttora.

Si tratta di un progetto di revisione drastica, presentato in una scatola in alluminio stampato anzichè la classica in lamiera di acciaio piegato, più piccola dell’originale e con una tipica alimentazione esterna a 9v, caratteristiche che rendono questa edizione più adatta alle pedaliere.

La qualità costruttiva dei prodotti EHX è però considerevolmente calata negli ultimi venti anni, con una tendenza ad economizzare e con delle caratteristiche progettuali discutibili.
Il circuito è assemblato con la tecnologia a montaggio superficiale (SMD).

La V3 recensita

I Suoni

Dal confronto tra le varie versioni emergono alcune differenze. In base all’esperienza personale e alle testimonianze raccolte in rete possiamo dire che:

  • Le prime due versioni hanno un suono di square wave fantastico, molto caldo e potente.
  • Il sub ottava è invece debole, tracking e bypass per gli standard odierni lasciano a desiderare.
  • La versione 3 è dotata di una distorsione meno pesante ma offre un sub ottava più presente e avvolgente. Tracking e bypass sono migliorati decisamente.
  • La versione più recente, Micro Synth XO, ha il sub più potente delle altre e i vantaggi sopra accennati legati all’alloggio in pedaliera e alla praticità dei 9v di alimentazione, ma presenta una distorsione (square wave) decisamente debole e forse non più definibile come fuzz. Inoltre alcuni lamentano una mancanza di sustain ignota ai modelli vintage. Il voltaggio più basso sicuramente influisce sulla corposità del suono.

I Controlli

Un trimmer sul retro del pedale consente di impostare la sensibilità dell’unità per pickup single coil o humbucker, mentre tutti i controlli importanti si trovano sulla parte anteriore, sotto forma di cursori.
Questi sono divisi in due gruppi, voice mix e filter sweep, oltre ad un paio di slider per regolare l’attacco della nota e il livello del segnale che attiva l’effetto (trigger).

In breve, la sezione voice è formata da un sub octave; un segnale “pulito”, in realtà molto secco e colorato dal preamplificatore del pedale; un octave stile Octavia di Roger Mayer e un onda quadra molto fuzz vintage. Questi quattro controlli possono essere mescolati in parallelo a piacimento, anche se soltanto il segnale del clean tollera l’esecuzione di accordi senza degenerare in distorsioni alquanto irregolari.

Il controllo attack decay consente di intervenire aumentando automaticamente il volume e generando effetti di archi e suoni riprodotti al contrario da qualche nastro in uno studio anni sessanta.
La sezione filtro prevede altri quattro controlli: risonanza, frequenza di partenza, frequenza di arresto e rate, che regola la velocità di passaggio tra le due precedenti.

Con questo pedale è possibile ottenere una gamma di suoni vastissima, dal moog al basso fretless, dai soli alla rovescia ai fuzz più spinti, dai filtri “vocali” ad altre stranezze difficilmente riproducibili con altri mezzi. Le timbriche ottenute possono trovare posto in generi musicali vintage come in contesti rock, elettronici, techno o hip hop.

Le Magagne

  • Il circuito analogico esclude la possibilità di avere dei preset (a questo ho trovato rimedio preparando delle mascherine per memorizzare i suoni preferiti, come si faceva con i synth vintage, appunto).
  • Le note singole sono decisamente da preferire, se si vogliono evitare “strilli” improvvisi o sparizioni del suono.
  • Il tracking può rivelarsi, a seconda dei setting usati, non sempre affidabile: per questo e per altri motivi la tecnica ed il tocco sono fondamentali e vanno aggiustati a seconda del suono usato.
  • Il rumore di fondo e la qualità del bypass sono altri due punti a sfavore citati da molti. Con il modello in mio possesso non ho mai avvertito molto il primo, riguardo al bypass la qualità non è ottimale e ho preferito inserire il pedale in un loop effetti. Questa soluzione offre anche altri vantaggi, per esempio quello di miscelare il segnale pulito con quello effettato dal Micro Synth.

Il Micro Synthesizer

Un oggetto assurdo ma dai suoni caldi, credibili e convincenti che, uniti alla sua enorme versatilità, fanno sì che il gioco valga veramente la candela.

Chiedere informazioni a Beck, Korn, Strokes, Van Halen, Muse, Sonic Youth, Parliament/Funkadelic, Red Hot Chili Peppers, solo per citare alcuni degli estimatori di questo gioiello.

 

Le tracce audio del video dimostrativo sono state eseguite con:

Chitarra – Eko 100
Basso – Westone Spectrum
Electro Harmonix Micro Synthesizer V3
Simulazione ampli, reverberi e delay di Mixcraft

Demo del suono del Micro Synthesizer

GUARDA e ASCOLTA il video del brano demo realizzato da Classic2vintage con i suoni del Micro Synthesizer V3 

Censor

Censor o l’oscura storia dei Nasty Tapes (2021)

By CinemaNo Comments

Il pregio di questo film è la sua stessa condanna: chi lo capirà e potrebbe apprezzarne il messaggio sono perlopiù invece quei nerd che lo odieranno perché mette in luce la pericolosità di quella monnezza della quale sono tanto appassionati e ovviamente loro per primi sono nemici dichiarati della censura.

The Boss

Al volgere degli anni 80 in Gran Bretagna avvenne una vera e propria caccia alle streghe verso quelli che vennero definiti Nasty tapes, ovvero i nastri VHS che contenevano horror perlopiù estremi che furono pesantemente censurati quando non addirittura bannati dal paese albionico.

Fu uno dei rari casi nei quali alla censura non si poteva che dare ragione data la voluta qualità estremamente violenta e traumatizzante di queste pellicole a basso budget, girate apparentemente con mezzi di fortuna il che rendeva il tutto ancora più credibile poiché essi apparivano simili per qualità a dei filmetti casalinghi come quelli che si era soliti girare in famiglia con la cinepresa amatoriale (ad esempio Axe, Non aprite quella porta).

In queste pellicole l’attenzione viene ripetutamente puntata su volgari simboli di depotenziamento come decapitazioni, evirazioni, squartamenti e sugli occhi cavati, simbolico monito e al tempo stesso invito alla cecità.

Questa produzione vide i suoi inizi negli anni 60 con il gore di Herschell Gordon Lewis e si sviluppò accanitamente durante gli anni 70 soprattutto in Usa e in Italia con i vari generi e sottogeneri fino ad arrivare all’assurdo accanimento dell’inzio degli anni 80, nei quali si diffusero a macchia d’olio lo slasher (del quale abbiamo uno dei primi e migliori esempi in Reazione a Catena di Mario Bava e più puramente nel Torso di Sergio Martino) e il cannibal movie.

Il primo conteneva a volte un’incredibile quantità di violenza grafica e psicologica gratuità a sfondo fisico e sessuale appoggiata al trauma infantile e alla violenza sessuale e il secondo faceva di violenza, trauma e gore gratuiti il suo addirittura vantato marchio di fabbrica-

I registi che hanno partecipato alla produzione di questa immondizia hanno assunto lo status di autori di culto grazie soprattutto al solito onnipresente Tarantino, abbracciato dal movimento liberal come grande artista e cultore del cinema di genere.

Di conseguenza sono stati rispolverati titoli talmente imbarazzanti che spesso anche i loro autori avrebbero preferito dimenticare se non fosse che grazie a questi hanno raggiunto il successo postumo che non avevano ricevuto ai tempi, quando la critica li schifava apertamente, aiutando a creare quell’aura di culto che oggi assoluta immondizia come i cannibal hanno raggiunto.

Scena del film L’Aldilà di Lucio Fulci

Bisogna ammettere che quasi ogni autore ha al suo attivo almeno un lavoro di pregio anche nel campo dell’horror.
E’ il caso di Lucio Fulci che già aveva all’attivo almeno tre gialli notevoli con contaminazioni horror e arrivò spavaldamente nel genere estremo partorendo alcune pellicole davvero particolari come Zombie 2 e L’Aldilà ma anche lo stesso Lewis aveva al suo attivo un film particolare con particolare simbolismo e venature sociologiche come The wizard of gore.

Ben altra considerazione merita il Massaccesi Aristide alias Joe D’Amato, detto “Er paiata” per la sua predilezione all’uso della trippa nei suoi film, il quale da inizi da mestierante western, erotico e lercia pornografia, si spostò verso un horror cruento e cupo fine a sé stesso e volto a scioccare volutamente lo spettatore, fino ad arrivare agli assurdi crossover tra horror, cannibalismo e pornografia. Finirà poi la sua carriera tra eros e pornografia.
I suoi film horror gore di maggiore culto sono il terzetto Buio Omega, Antropophagus e Rosso sangue e vedono tutti mischiare il gore al grottesco con incursioni nel cannibalismo.

Ovviamente parlando di cannibal movie non si può non citare l’orrendo Cannibal Holocaust (che com’è noto costò un processo al suo autore Ruggero Deodato) che oltre alla violenza gratuita “mimata” sugli umani annoverava anche quella reale sugli animali. Ma non si può evitare di citare anche la produzione altrettanto violenta di Umberto Lenzi, che del cannibal fu l’iniziatore nel 1972 con Il paese del sesso selvaggio.

Ovviamente in questa atmosfera cupa e violenta vede la sua affermazione la figura del serial killer, figura alla quale negli slasher si da spesso una giustificazione psicologica più risibile che reale e tra i film maggiormente violenti in questo campo troviamo Nightmare di Romano Scavolini, già autore di un paio di gialli nei primi anni 70 e del particolarissimo mafia-thriller Servo Vostro ma anche Driller Killer, primo lungometraggio “serio” di Abel Ferrara.

Discorso a mio avviso diverso va fatto sul versante degli zombie movies, praticamente sempre volti ad una critica sociale ben precisa come nel caso di George Romero, considerato a ragione il padre del genere, il quale esprime il suo aspro giudizio su società, costume e religione anche nei suoi ottimi Martin – Wampyr, La stagione della Strega e il distopico La città verrà distrutta all’alba.

Con la nuova popolarità delle videocassette nei primi anni ’80, tutta questa mole di vecchie e nuove produzioni di horror cruento approfittando del mercato dell’home video del Regno Unito, allora non regolamentato, arrivarono nelle case delle famiglie britanniche, liberamente accessibili ai minori che, grazie all’aura di film proibiti acquisita negli anni, ci si gettarono avidamente sopra.

A causa di una scappatoia nelle leggi sulla classificazione dei film, a questi film era stato permesso di aggirare un tipico processo di revisione dal British Board of Film Classification (BBFC), e una sorta di panico e corsa ai ripari si instaurò quando le autorità iniziarono ad avere grosse preoccupazioni su cosa avrebbe causato l’esposizione a contenuti così espliciti al pubblico, soprattutto di minori.

A seguito di una campagna condotta da vari membri della stampa, opinione pubblica e organizzazioni religiose (tra cui la National Viewers’ and Listeners’ Association, guidata dall’influente attivista Mary Whitehouse), l’allora direttore della pubblica accusa pubblicò un elenco di titoli ritenuti “sporchi” (“nasty” appunto) in violazione alle leggi sull’oscenità e la polizia avviò il processo di sequestro dei nastri e di persecuzione contro coloro che erano coinvolti nella loro distribuzione.

Di questo tratta il soggetto del film Censor, opera prima di una giovane regista che risponde al curioso nome di Prano Bailey Bond.

Una breve sinossi

Nel 1985, Enid si occupa di censura cinematografica ed è addetta proprio alla selezione dei tagli da effettuare sulla pioggia di Nasty Tapes che stanno invadendo il mercato dell’home video britannico.
Ad un certo punto del persorso si imbatte in una pellicola che contiene elementi a lei familiari. Decide quindi di indagare sia sulla produzione di questo film che sul suo passato, che riguarda la scomparsa della sorella e questo la condurrà ad una discesa negli inferi del suo trauma personale.

Il pregio di questo film è la sua stessa condanna: chi lo capirà e potrebbe apprezzarne il messaggio sono perlopiù invece quei nerd che lo odieranno perché mette in luce la pericolosità di quella monnezza della quale sono tanto appassionati e ovviamente loro per primi sono nemici dichiarati della censura.

Il soggetto è estremamente interessante come le considerazioni sull’effetto subliminale di questi cosiddetti nasty movies che, ognuno di noi non potrà che riconoscerlo, hanno sempre volutamente avuto un’atmosfera estremamente torbida e melmosamente malata e disturbante.
Chi abbia visionato il famoso Axe o anche delle esagerazioni di quei tempi come i già citati Buio Omega di Massaccesi o l’esageratissimo e inspiegabile Nightmare di Scavolini (che andò addirittura negli states per girarlo, come se l’Italia di allora non fosse già la patria del cosiddetto “exploitation”) sa bene di cosa parlo.

L’omicida che non ricorda nulla dell’omicidio compiuto è un ottimo rimando anche ai fin troppi casi simili verificatisi nella realtà, dei quali Brandon Cronenberg ha dato una propria interpretazione nel suo ottimo Possessor.

 

Alla fine di tutto resta la domanda: i nasty movies furono veramente prodotti per influenzare gli spettatori tramite immagini e situazioni fortemente subliminali richiamanti paure e istinti ancestrali, creando sia possibili killer che ciechi paranoidi verso di essi?

 

“Censor” (UK 2021) di Prano Bailey-Bond

Regia Prano Bailey-Bond
Soggetto e sceneggiatura Prano Bailey-Bond, Anthony Fletcher
Produzione Silver Salt Films, British Film Institute, Film4 Productions, Film Cymru Wales

 

Interpreti

Niamh Algar: Enid Baines
Nicholas Burns: Sanderson
Vincent Franklin: Fraser
Sophia La Porta: Alice Lee
Adrian Schiller: Frederick North
Michael Smiley: Doug Smart
Fotografia Annika Summerson
Montaggio Mark Towns
Musiche Emilie Levienaise-Farrouch
Distribuzione MGM, Prime Video(Italia)
Data di uscita

28 gennaio 2021 (Sundance Film Festival 2021)

Durata
84 minuti

 

Trailer del film Censor

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Keith Mansfield – Our Coming Attraction

By Cinema, Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Keith Mansfield, famoso per la sua Funky Fanfare resa celebre da Quentin Tarantino con i film Kill Bill e Grindhouse, è un compositore anglosassone autore di un sorprendente quantitativo di temi da librerie musicali davvero ottimi, capaci di evocare positività nell’ascoltatore.
Nel settore della cosiddetta Muzak è facilmente considerabile un genio, elevandosi ad un livello superiore rispetto agli altri compositori di quel filone e, con un’impressionante curriculum di oltre 60 album pubblicati in circa 30 anni di carriera, anche uno dei più prolifici di sempre.

Lorenzo

Mansfield, classe 1941, londinese, negli anni ’60 e ’70 è stato una figura fondamentale nella scena musicale delle librerie musicali anglosassoni e ha registrato un grande numero di brani per l’etichetta specialistica KPM (iniziali di Keith-Prowse-Maurice, allora divisione della EMI).

Nel settore della cosiddetta Muzak è facilmente considerabile un genio, elevandosi ad un livello superiore rispetto agli altri compositori di quel filone e, con un’impressionante curriculum di oltre 60 album pubblicati in circa 30 anni di carriera, anche uno dei più prolifici di sempre.

Le sue capacità compositive spaziano agilmente dal funk e soul di “Morning Broadway”, “Bogaloo”, “Exclusive Blend”, “Big Shot”, “Soul Thing” (che verra poi trasformata appunto nella celebre Funky Fanfare) alla disco di “Night Bird”, alle allegre ed energiche sigle televisive come Grandstand per la BBC. “Teenage Carnival” (che venne utilizzato come tema della serie televisiva per ragazzi degli anni ’60 Freewheelers), “The Young Scene” (nel 1968 sigla del programma calcistico The Big Match), “Light and Tuneful” e “World Champion” (utilizzati da BBC e NBC come apertura e chiusura dei campionati di tennis di Wimbledon), “World Series” (usato per le trasmissioni di atletica leggera della BBC), ai lenti atmosferici easy jazz di classe come “Je Reviens”, “Life of Leisure”, “Love De Luxe”, alle contaminazioni world music/jazz come la bellissima “Husky Birdsong”, alle svolte synthpop come le fantascientifiche “Superstar Fanfare” e “High Profile”.

Keith Mansfield è probabilmente meglio conosciuto dal pubblico americano per la già citata “Funky Fanfare” che venne usata per sonorizzare la serie di jingle cinematografici psichedelici Astro Daters (“Our Feature Presentation” e “Our Next Attraction” che introducevano i film – “Prevues of Coming Attractions” che introduceva i trailer dei film – “Intermission” che introduceva l’intervallo tra i vari tempi del film), prodotta dal National Screen Service alla fine degli anni ’60.

Gli Astro Daters vennero poi inseriti dal regista Tarantino nei film Kill Bill e Grindhouse, rendendoli famosi e iconici a livello mondiale e con essi anche Funky Fanfare.
Ma l’inossidabile Funky Fanfare è attualmente ancora usata come sigla in vari programmi televisivi e podcast.

Ha anche composto colonne sonore per i film Loot (1970) e Taste of Excitement (1970) e il western Ehi amigo! Tocca a te morire (1971) ma suoi brani da libreria si possono trovare anche in Tuono Rosso (1980), Fist of Fear, Touch of Death (1980) Kung Fu Killers (1981), programmi e serie tv e chissà dove altro.

Gli Astro Daters sonorizzati con Funky Fanfare

Mansfield ha anche scritto la già citata “Superstar Fanfare“, che è stata utilizzata tra le altre (in diverse varianti) da Channel Television nelle Channel Islands, dal programma di notizie di RTL plus 7 vor 7, Worldvision Enterprises e dalla Services Sound and Vision Corporation (SSVC) come jingle identificativo della British Forces TV nella Germania occidentale, Berlino, Cipro, Isole Falkland e Gibilterra negli anni ’80 e ’90.

Nel corso del tempo i suoi brani sono stati coverizzati (tra gli altri Soul Thing, di cui fu fatta una versione vocale da James Royal, “House of Jack”, e una rielaborata nel lento psichedelico “Queen St. Gang” dai canterburiani Uriel/Arzachel di Steve Hillage e Dave Stewart), rielaborati e remixati (Skeewiff, Simon Begg) ma anche campionati e riutilizzati da produttori hip-hop (Danger Mouse, Madlib, Fatboy Slim, Kal Banx).

Molte sue composizioni vengono utilizzate anche dalla NFL per i suoi film monografici delle squadre e i documentari sul Super Bowl e altre vengono usate come sigle di trasmissioni di vario genere.

Mansfield è stato anche produttore (Maynard Ferguson) e arrangiatore e direttore d’orchestra per Dusty Sprigfield (diversi brani dell’album “Dusty… Definitely”) nonchè arrangiatore orchestrale in alcuni successi dei Love Affair (“Everlasting Love“), Marmalade (“Reflections of My Life“) ed altri.
Insomma uno dei musicisti più incredibilmente talentuosi, prolifici e versatili della scena musicale, quelli che rimangono dietro le quinte mentre ti chiedi sempre chissà chi avrà scritto quel piccolo pezzo di musica che ti fa stare così bene e una volta ascoltato non ti esce più dalla mente.

Keith Mansfield in tempi recenti

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Cell Block 99 – Nessuno può fermarmi (2017)

By CinemaNo Comments

Cell Block 99 è un film che o lo ami o lo odi, non ci sono vie di mezzo.
Con il suo taglio da pellicola pulp anni 70, i suoi effetti speciali volutamente amatoriali, i suoi fantastici scoppi di eccesso, è una perla corroborante nel piattume in stile "algoritmo" della scena cinematografica contemporanea.

Lorenzo

Cell Block 99 – Nessuno può fermarmi: amo appassionatamente questo film, in tutto il suo splendore fatto di esagerazioni pulp e simbologia grezza e sguaiata, persino il numero del titolo ha un suo perché, perfino il numero del divieto ai minori di 18.

Cell Block 99 è un film che o lo ami o lo odi, non ci sono vie di mezzo.
Con il suo taglio da pellicola pulp anni 70, i suoi effetti speciali volutamente amatoriali, i suoi fantastici scoppi di eccesso, è una perla corroborante nel piattume in stile “algoritmo” della scena cinematografica contemporanea.

Questo film è un grido di amore disperato, un non mollare mai a nessun costo: si va a diritto, fino in fondo e al diavolo tutto.

 

S. Craig Zahler è un gran sceneggiatore e regista, non si vergogna di nulla. In Italia è stato ripudiato, deriso e quasi massacrato per questo film meravigliosamente esagerato e qua ormai praticamente dimenticato…
Un film che è già un piccolo cult dove Vince Vaughn è stato ottimo: uscendo dalle solite commedie rosa o sciocche alle quali è abituato, si è gettato anima e corpo in un ruolo assurdo che gli calza a pennello.

La scelta delle musiche è divina e ci troviamo davanti ad una colonna sonora di grande pregio, ricca di grandi pezzi soul degli anni 70.

Se questo film fosse stato firmato dal solito Tarantino oggi sarebbe assurto allo status di mito assoluto della cinematografia di genere.

Ma va guardato in lingua originale perchè il doppiaggio italiano è pessimo e si perdono molte sfumature grazie all’adattamento demenziale che è stato fatto dei dialoghi che ridicolizzano una storia che nonostante alcune scene esilaranti è in realtà molto seria. Oltratutto si perdono gli accenti e nel caso del protagonista, Vaughn ha fatto un lavoro eccellente.

Sinossi

Bradley Thomas è un ex pugile dall’incredibile forza e resistenza, una brava persona, una di quelle davvero rare, oneste, di parola, fedeli e dotate di una capacità di amare che trascende ogni cosa.

Dopo aver perso il lavoro, per mantenere sé stesso e la propria famiglia, Bradley si vede costretto ad accettare un impiego come corriere della droga.
In seguito ad un lavoro finito molto male a causa di commercianti chicanos senza scrupoli, egli si ritrova in uno scontro con la polizia, nel quale cerca di fare in modo che nessuno di loro si faccia del male.

Nonostante questo, grazie al suo deciso rifiuto di fare la spia e di un giudice black razzista, finisce in carcere col massimo della pena.

Inizialmente assegnato ad un carcere “liberal”, si vedrà costretto sotto un terribile ricatto a farsi trasferire in un carcere punitivo di massima sicurezza e qua avrà inizio la sua discesa agli inferi, una discesa che però non farà da solo e come un novello Sansone si porterà dietro diversi filistei…

S. Craig Zahler

Zahler è un regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, romanziere, fumettista, animatore e musicista americano.

Dopo aver iniziato la sua carriera lavorando brevemente come direttore della fotografia, Zahler si è concentrato sulla sceneggiatura fino a quando non ha debuttato alla regia con Bone Tomahawk (2015) per poi proseguire con Cell Block 99 (2017) e Dragged Across Concrete – Poliziotti al limite (2018), per i quali ha scritto e composto anche la musica.

Ha anche scritto diversi romanzi e varie sceneggiature per altri film.

Il suo stile è secco e diretto, spesso facendo uso di scene molto forti sconfinanti nello splatter senza fare sconti a nessuno, protagonisti compresi.
In tutto questo conserva ocmunque una sua poetica molto evidente, ammantata di un grande senso di giustizia umana, dimostrando affetto verso i suoi personaggi.

Prende evidente ispirazione al cinema italiano Baviano, Fulciano e Lenziano e nelle musiche originali di Cell Block 99 si percepisce l’amore verso le colonne sonore di Fabio Frizzi, con largo uso di tappeti di synth dai suoni con modulazione profonda e ben presente.

Presentato in anteprima il 2 settembre 2017 fuori concorso a Venezia, ha avuto una distribuzione limitata nelle sale cinematografiche statunitensi per poi passare al VOD.
In Italia, il film è stato distribuito direct to video dal 18 aprile 2018.

Il film è stato inserito tra i migliori del 2017 ed è stato proiettato nello stesso anno al MOMA di New York per essere poi incluso nella collezione permanente.

Locandina del film

Cell Block 99 – Nessuno può fermarmi (Usa – 2017)

Regia S. Craig Zahler
Soggetto e sceneggiatura S. Craig Zahler
Produzione Assemble Media, Cinestate, IMG Films
Interpreti Vince Vaughn: Bradley Thomas
Jennifer Carpenter: Lauren Thomas
Don Johnson: direttore Tuggs
Udo Kier: l’uomo calmo
Geno Segers: Roman
Victor Almanzar: Pedro
Marc Blucas: Gil
Dion Mucciacito: Eleazar
Fotografia Benji Bakshi
Montaggio Greg D’Auria
Musiche Jeff Herriott, S. Craig Zahler
Distribuzione Universal Pictures
Data di uscita

October, 6, 2017

Durata
132 minuti

 

Il trailer originale del film