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Nomads (1986) – N’y sont pas… sont des Inuat!

By Cinema2 Comments

«N'y sont pas... sont des Inuat!»
«Non ci sono... sono degli Inuat!»
Questa è la frase che tormenta durante la visione di "Nomads", film che segna l'esordio di John McTiernan alla regia e di Pierce Brosnan come protagonista.

Lorenzo

E’ curioso come molti registi famosi abbiano avuto i loro natali cinematografici con il genere fantastico (horror) e John McTiernan non fece eccezione, occupandosi anche della sceneggiatura, che ricavò da un racconto di sue anni precedente della romanziera Chelsea Quinn Yarbro, già autrice di una novellizzazione della sceneggiatura dell’oscuro film“Morti e Sepolti”, scritta da Dan O’Bannon e Ronald Shussett per il film omonimo diretto da Gary Sherman nel 1981.

«N’y sont pas… sont des Inuat!»

Nomads è una storia di persecuzione.

Nelle credenze Inuit è presente la figura dell’Inuat o Innuat (Possessore o Dominatore), uno spirito o forza spirituale che pervade ogni essere vivente, sia animale che vegetale o comunque facente parte della natura come laghi, montagne, mare e sarebbe assimilabile al concetto di Mana, l’energia vitale che si può accumulare in combattimento, con la sapienza e mangiando un nemico.

Nella visione fantasy holywoodiana di Yarbro, tradotta in immagini da McTiernan, l’Inuat assume una caratteristica demoniaca negativa, diventando un’entità che prende aspetto umano per entrare in contatto con i viandanti delle infinite distese desertiche di ghiaccio e tormentarli fino alla pazzia, portandoli alla morte per poi assumerne le sembianze.

«I nomadi vivono nel deserto, che si tratti di una distesa di sabbia o di ghiaccio non fa nessuna differenza.

A quanto pare gli eschimesi passano la vita a vagabondare sul ghiaccio e gli inuat sono degli spiriti malvagi che, stando alla leggenda, sono capaci di assumere sembianze umane. Abitano in posti in cui siano successe delle disgrazie e rendono pazzo qualunque essere umano entri in contatto con loro.

E’ solo una leggenda naturalmente ma anche nel 20° secolo gli antropologi hanno notato che gli eschimesi sono molto cauti quando gli si avvicinano degli sconosciuti sul ghiaccio.»

In Nomads gli inuat hanno assunto l’identità di vagabondi punk.
Delinquenti che vivono al margine e che, ignorati dal resto del mondo, si muovono ovunque gli aggradi a seminare violenza, tentando di attirare l’attenzione di qualche persona abbastanza sensibile da notarli in mezzo alla monotona piattezza della matrix/vita nella società occidentale moderna che, intontita dalla tecnologia, si è resa insensibile e cieca perfino all’essenza del male.

Dopo aver girato il mondo per studiare le popolazioni nomadi, ad un certo punto Pommier, un antropologo franco-canadese, si trasferisce in pianta stabile con la moglie a Los Angeles per insegnare in un college e “caso” vuole che prenda come abitazione una villetta costantemente al centro dell’attenzione di una banda di delinquenti che fa di tutto per attirare l’attenzione del nuovo arrivato tramite atti vandalici e lasciandogli messaggi offensivi di sfida e indizi delle loro malefatte.

Pommier logicamente è di natura un personaggio curioso e, avendo egli stesso una forte tendenza alla vita nomade, viene immediatamente ossessionato dal desiderio di osservare questi “esseri che vivono al di fuori di ogni struttura”.

Quindi, armato della sua fida Nikon, parte alla ricerca della banda per poi pedinarla e osservarla ininterrottamente per due giorni nelle loro inarrestabili scorribande.

Ad un certo punto finirà però per attirare la loro attenzione e, come da manuale, i giochi si invertiranno, facendo scivolare l’antropologo nella tela del ragno che lo condurrà verso la follia.

Noi assistiamo alla sua vicenda attraverso la dottoressa che lo prende in cura al pronto soccorso all’inizio del film, anche lei neoarrivata in città e che viene morsa da lui in un eccesso di follia, assumendone così i ricordi che rivivrà sotto forma di allucinazioni sempre più forti e prolungate, tanto da farle perdere il contatto con sé stessa e la realtà, fino a rischiare di scivolare anch’ella nella pazzia.

Nomads è condotto con maestria dal giovane Tiernan, che fa sfoggio della sua abilità tecnica sperimentando tramite inconsueti movimenti di camera che passano dal ralenty alla velocità improvvisa e mischiando una fotografia di gran gusto, con l’uso di filtri artistici, a inquadrature distorte e deliranti, in un montaggio spezzato di scene che spesso saltano di palo in frasca coinvolgendo e confondendo volutamente lo spettatore per incutergli un forte senso di estraniamento.

Nomads agisce come gli Inuat, colpisce e permane a lungo… a tutt’oggi rientra tra i film preferiti del sottoscritto, quelli che tendo a riguardare molto spesso.

La scrittura è molto particolare, McTiernan crea un film intimista parlando della vita di coppia di Pommier e al tempo stesso inserendo richiami tribali nel contesto della jungla metropolitana. Fa utilizzo di simboli e anche di numerologia. E’ perfino riuscito ad inserire in qualche modo, sempre funzionale al racconto, una scena in stile gotico che omaggia lo splendido “I Diavoli” di Ken Russell e i film italiani di genere degli anni 70.

Tutto questo avviene attraverso l’uso sapiente di un’ottima fotografia che passa dai toni caldi al gelo metropolitano e una direzione degli attori che richiama il cinema punk lisergico di inizio anni 80, risultando in un lavoro immersivo e che possiede tutti i pregi che un ottimo film, colto ma tensivo al tempo stesso, ha sugli spettatori sensibili e attenti, coinvolgendoli in un mix di forte curiosità, alternando momenti di stress e rilassamento apparente che mantengono viva l’attenzione e l’empatia verso il personaggio dello sventurato Pommier.

Un buon contributo è dato dal contrapporsi del bel tema malinconico di Bill Conti alla chitarra acida e ossessiva di Ted Nugent, che pervade le scene più aspre e anche i 3 brani “Strangers” (cantata da Dave Amato, ai tempi chitarrista-cantante della band di Nugent), “Nomads” e “Dancing Mary”, offrono una buona colonna sonora, nervosamente adeguata alla tensione emotiva.

Ottima la scelta dei tre protagonisti, Brosnan (qua al suo debutto come protagonista in un film), la Down e la Monticelli, che partecipano con impegno e sentimento, rendendo interpretazioni credibili ma anche tra gli inuat troviamo volti noti ai tempi come Adam Ant, l’impressionantemente adrogina Mary Woronov, la cantautrice Josie Cotton e si intravede anche l’ormai scomparso Frank Doubleday, storico Romero e “Street Thunder” di carpenteriana memoria.

Una menzione va alla caratterista Jeannie Elias, interprete di Cassie, collega e amica della Down, che si distingue in una scena fondamentale del film che potete vedere nel video qua sotto.

Un’altra particolarità del film è l’auto di Pommier, una italianissima Fiat 131 Super Brava 2000 USA, scelta non comune e non spiegabile nemmeno come sponsorizzazione, dato che la 131 era ormai arrivata a fine produzione nel 1985.

Nomads è un inizio notevole per il regista McTiernan che, grazie a questo film come curriculum, già l’anno seguente debutterà nella serie A di Hollywood con il super classico Predator per poi proseguire una carriera di successo con Caccia a Ottobre Rosso e Die Hard.

«Hai mai fatto un sogno senza sapere com’è iniziato? Il vecchio Diatvak raccontava di quanto sia pericoloso andare troppo lontano, a caccia, da soli, sul ghiaccio… e di come uno non capisca più che cosa è… vero…
Ci siamo allontanati troppo da casa, sai… tutti noi. Ci siamo allontanati troppo da casa.»

TRAILER DEL FILM

Nomads (USA, 1986)

Durata: 93 min e 92 sec
Rapporto: 1,85:1
Genere: thriller, orrore
Regia: John McTiernan
Sceneggiatura: John McTiernan
Produttore: George Pappas, Cassian Elwes
Produttore esecutivo: Jerry Gershwin
Distribuzione in italiano: Titanus Distribuzione
Fotografia: Stephen Ramsey
Montaggio Michael John Bateman
Musiche: Bill Conti
Scenografia: Marcia Hinds

Interpreti e personaggi:

Lesley-Anne Down: Eileen Flax
Pierce Brosnan: Jean-Charles Pommier
Anna Maria Monticelli: Niki
Jeannie Elias: Cassie
Adam Ant: Number One
Mary Woronov: Dancing Mary
Nina Foch: Agente immobiliare
Hector Mercado: Ponytail
Josie Cotton: Silver Ring
Frank Doubleday: Razors
Michael Gregory: Agente

camac

Camac G-100 aka Eko Master Series M-7 (1980)

By Chitarre Vintage ItalianeNo Comments

Come molti sapranno, la EKO realizzava strumenti anche per marchi esteri come la Vox ma poco si conosce della sua collaborazione con Camac, marchio che operava nel mercato francese e tedesco.
Uno dei risultati di questo accordo fu la creazione della G-100, solid body di fascia professionale che fu tra le ultime realizzazioni della EKO originale.

Lorenzo

La linea di chitarre Camac (oggi Algam France, nuova “proprietaria” della EKO) era prodotta dalla Eko tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80.

La collaborazione tra Eko e Camac nacque in seguito ad un incontro che il direttore EKO, Remo Serrangeli, ebbe con Il titolare della Camac, Gerard Garnier, al salone di Francoforte nel 1978.

Dopo un’iniziale produzione di 200 chitarre classiche per il mercato francese, nel 1979 venne raggiunto un accordo con la sezione tedesca della Camac, guidata da giovani musicisti professionisti, per la produzione di elettriche solid body di alta qualità e con finiture, dotazioni e accorgimenti moderni e con un occhio sia alle solite americane di grido che alle nuove produzioni giapponesi.

L’accordo venne preso per modelli basati sulla serie monoblocco CX/BX e per un modello con manico avvitato ispirato alla stratocaster ma con legni e finiture superiori di cui vi presentiamo qua un esemplare di G-100 appartenente al collezionista tedesco Frank Ebeling.

La Camac G-100 monta pickupz DiMarzio nella non comune configurazione SSH, ovvero la versione speculare delle classiche superstrat che spopoleranno negli anni 80 e che avevano invece configurazione HSS.

Tre interruttori consentono di selezionare ciascun pickup in ogni combinazione possibile, venendo così ad ottenere uno spettro sonoro virtualmente completo.

Completano la parte elettrica un potenziomentro di volume e due di tono, uno per il single coil centrale e l’altro per l’humbucker al manico. Hardware in ottone fresato dal pieno nelle officine interne EKO e chiavette Schaller.

Per la Camac G-100 sono stati scelti i migliori legni di alta qualità dal vasto magazzino della ditta: corpo e manico sono in mogano con listello centrale in acero e il top è in mogano sapelli.

La tastiera è in ebano.

EKO M-7

Il modello G-100 verrà commercializzato in Italia a marchio EKO come modello M-7 della linea Master Series con in dotazione pickup attivi Magnetics: 2 x SDC (Strato Dual Ceramic) e un HSC (Humbucker Single Ceramic).

Questi pickup hanno un preamp dedicato dentro ogni unità che serve non per preamplificare il segnale ma per gestire l’ effetto humbucker dello stadio primario garantendo l’uscita a bassa impedenza. Il risultato è che lo strumento suona come se montasse un set di pickup da stratocaster attivi.

EKO M-7

...MA COME SUONA?

Come suona la Camac G-100 di Frank

Come suona la EKO Master M-7

makoto matsushita

Vedute dalla Montagna del Fuoco – Intervista a Makoto Matsushita (2019)

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Makoto Matsushita è un peculiare musicista giapponese che, pur essendo oggi molto conosciuto e apprezzato dagli appassionati internazionali di city pop per i suoi notevoli album solisti ed aver lavorato a lungo come turnista per personaggi del calibro di Mai Yamane (sue le chitarre e la produzione del bell'album di debutto Tasogare) è stato per lungo tempo misconosciuto in patria.
Eppure si tratta di un musicista davvero notevole e prolifico, da sempre impegnato in parecchi progetti musicali di ogni genere, oltre che grande sperimentatore e uno dei principali responsabili del rinnovamento sonoro della musica giapponese degli anni 80.
Per omaggiarlo vogliamo proporvi la traduzione di una rara intervista che ha rilasciato nel 2019.

Lorenzo

I primi due album solisti di Makoto Matsushita, pur essendo piuttosto diversi dai capisaldi del genere, sono oggi considerati degli standard del city pop, soprattutto il debutto First Light, praticamente una pietra miliare del “genere”.

Per la traduzione dell’intervista mi baserò sulla traduzione inglese di Henkka.

 

Intervista a Makoto Matsushita

(Testo e intervista originali di Yusuke Kawamura & Rita Takaki)

 

Iniziamo con qualche cenno biografico.

Dopo essere entrato al conservatorio a 18 anni per specializzarsi in teoria, composizione e arrangiamento scegliando la chitarra come strumento, Matsushita inizia la sua carriera professionale come musicista live già l’anno seguente, collezionando oltre 500 esibizioni in 4 anni.

A 22 anni compie il suo primo lavoro in studio come arrangiatore, chitarrista e tecnico della produzione sonora di Tasogare, album di debutto della celebre cantante Mai Yamane (nota anche per The Real Folk Blues, brano di chiusura degli episodi della celebre serie tv anime Cowboy Bebop), dopodiché  continuò a lavorare per innumerevoli artisti come arrangiatore, produttore e chitarrista nel cuore della scena musicale pop giapponese.

Come solista pubblicò 3 dischi in sequenza dal 1981 al 1983: First Light, vero e proprio city pop ma con anche brani di atmosfera, The Pressures and The Pleasures (che mischia il pop all’ AOR, alla fusion e al prog) e lo splendido Quiet Skies, album molto maturo e di ancor più ampio respiro, che prende le distanze dal pop per abbracciare fusion, prog rock, AOR, new wave, world music, ambient.
Il suo quarto e ultimo album solista è Visions, del 2019, di genere ambient.

Oltre al lavoro da solista e come session man, collabora in altri progetti musicali di vari generi: pop rock con Yoshino Fujimaru negli AB’S, rock progressivo coi Paradigm Shift e Future Days, fusion jazz contemporanea coi Groove Weather, musica per cori a cappella coi Breath by Breath, funk rock coi Rainey’s Band, nonché musica ambient e improvvisazione totale in Nebula. e ricerca e sperimentazione di nuove sonorità con vari altri progetti.

Come chitarrista e arrangiatore conto terzi, Makoto Matsushita è noto soprattutto per i suoi arrangiamenti dei cori per artisti come SMAP e KinKi Kids, il suo lavoro di supporto per un gran numero di artisti e per le musiche per anime come Berserk, Evangelion e Bleach.

 

Ora (nel 2019), i suoi primi due album solisti vengono ricompilati con tracce bonus e ristampati con rimasterizzazione ad alta risoluzione di ultima generazione: First Light, disco seminale per il city pop con le sue stupende composizioni, notevole per i suoi meticolosi arrangiamenti e performance musicali, e The Pressures And The Pleasures, che riflette più da vicino i gusti personali del suo creatore con la sua forte influenza prog rock e fusion.

Oggi, grazie al crescente apprezzamento per la musica giapponese degli anni ’80, queste pubblicazioni si distinguono come capolavori acclamati sia dentro che fuori del Giappone. Entrambi questi fantastici album sono ormai dei classici fuori dal tempo.

Per commemorare la ristampa di questi album, abbiamo voluto realizzare un’intervista via e-mail con l’artista stesso. In questa rara intervista, gli abbiamo chiesto degli inizi della sua carriera, del periodo delle sue prime due uscite da solista e cosa ha fatto da allora.

makoto matsushita

— Prima di tutto, da quanto emerge dalla tua biografia hai debuttato inizialmente come musicista di supporto dal vivo e in studio all’età di 19 anni. Come si sono svolti i tuoi inizi da giovane artista discografico? C’è stata forse una “persona chiave” che ti ha ispirato o guidato nella tua carriera?

Makoto Matsushita: Per quanto riguarda l’ispirazione musicale, i primi sono stati Rolling Stones, Cream e Led Zeppelin, in seguito al liceo mi sono appassionato al prog rock di Yes, King Crimson e Pink Floyd. Di conseguenza volevo diventare anch’io un musicista, ma non avendo un background o una conoscenza della teoria musicale ho semplicemente rinunciato all’idea.

Poi un giorno mi capitò di imbattermi nell’esatto opposto del prog rock: la musica di Neil Young. Mi emozionai molto e pensai che forse anch’io avrei potuto fare il musicista dopotutto. Anche una volta entrato alla scuola di musica e iniziato a lavorare dal vivo e in studio, non ho mai rinunciato al voler fare la mia musica.

Per quanto riguarda le persone che dedicavano tempo ad ascoltare le mie canzoni, ispirandomi a diventare un artista e arricchendomi come musicista, ce ne sono troppe per poterle nominare tutte.

— Chi erano i tuoi eroi della chitarra, quelli che ti ispirarono a diventare un musicista?

Makoto Matsushita: Inizialmente non miravo a diventare un chitarrista, ero semplicemente interessato a creare musica nel suo insieme, quindi non avevo dei eroi chitarristi in particolare. Se dovessi nominare qualcuno suppongo sarebbero i chitarristi delle band che ho citato. I grandi chitarristi dovrebbero essere bravi anche a scrivere musica.

— L’aver prodotto Tasogare di Mai Yamane e l’album di Toshihiko Tahara a 22 anni ha segnato per te un punto di svolta, rendendoti successivamente molto impegnato come produttore e musicista. Hai qualche aneddotto che illustri quanto eri attivo in quei giorni?

Makoto Matsushita: Ai tempi ero follemente impegnato. Era tipico per me stare sveglio a lavorare tutta la notte due o tre giorni alla settimana, e qualunque giorno libero riuscissi a prendere, lo passavo solo a dormire per dare un po’ di riposo al mio corpo. Dicevo alla gente, quasi scherzando, che il mio unico sogno nella vita era andare a fare un giro per Shonan in estate. Non avevo assolutamente tempo per me stesso.

A proposito, scrissi la canzone “One Hot Love” nel mio primo album, First Light, proprio su quel sogno. (ride) Alla fine riuscii a fare quel viaggio solo verso i trentacinque anni ma scoprii che il mare a Shonan non era come me lo ero immaginato. Ho cercato altri posti simili dove si potesse controllare la qualità del mare, prima di trovare finalmente questo posto a Nishi-Izu. Da allora ho deciso di concedermi sempre una vacanza estiva e di andarci una volta all’anno.

— Quando i TV Asahi Studios installarono per la prima volta un sistema di registrazione a 16 tracce, vollero iniziare con una registrazione di prova. E’ stato questo che ha portato all’uscita del tuo album solista, First Light. Come è nata questa registrazione di prova ai TV Asahi Studios?

Makoto Matsushita: Hai davvero fatto i compiti! (ride) Avrò avuto 21 anni o giù di lì. Dopo essere stato presentato loro da un mio musicista anziano, i TV Asahi Studios mi contattarono con un’offerta per fare una registrazione di prova per loro usando una delle mie canzoni originali.

I registratori a 8 tracce erano stati la norma fino a quel momento e la mancanza di canali rendeva le cose molto difficili: le 8 tracce non erano nemmeno sufficienti per la sola sezione ritmica. Creare il tipo di suono che volevo era sempre una lotta, quindi ero molto entusiasta della prospettiva di avere accesso a 16 canali, sapendo che avrebbe risolto istantaneamente tutti i nostri problemi. Sembrava l’arrivo di una nuova era.

Dopodiché, non passò molto tempo prima che avessimo 24 canali, passammo dall’analogico al digitale, avevamo 32 canali, 48 canali e poi entrammo nell’era di Pro Tools. Ma se dovessi chiedermi se tutta questa evoluzione nelle tecniche di registrazione abbia portato anche all’evoluzione della musica nel suo insieme…? Non direi proprio di sì, no. Ho sensazioni contrastanti in merito.

— In che modo queste registrazioni portarono alla tua uscita da solista?

Makoto Matsushita: Ad un produttore di Nichion capitò di ascoltare “September Rain“, la canzone che registrai per la sessione di prova, e mi chiesero di fare un album solista. Quella canzone venne poi inclusa nell’album First Light.

— Avevi qualche idea in mente per First Light, specialmente in termini di suono?

Makoto Matsushita: Dato che era il mio primo album, cercai di mantenerlo semplice e “pop”. Feci semplicemente del mio meglio per mostrare tutte le influenze AOR che avevo assorbito fino a quel momento: non c’era nessun concetto speciale oltre a quello. Ci scusiamo per la  breve risposta. (ride)

— Ci sono opere di artisti stranieri che ti hanno influenzato e su cui hai modellato questo album?

Makoto Matsushita: Quella era l’età d’oro dell’ AOR, ed ero ancora giovane, molto impegnato a farmi influenzare da tutti i tipi di artisti diversi. Per quanto riguarda i lavori specifici che ho usato come modello, ce ne sono troppi da elencare. Se proprio dovessi, potrei citare i lavori di artisti come Airplay, Steely Dan, Pages, Jay Graydon, ecc.

Ad esempio, la canzone “Lazy Night” che è su First Light. Composi quella canzone basandomi sull’immagine di copertina dell’album Gaucho degli Steely Dan, e suona anche simile a una traccia dell’album chiamata “Glamour Profession”. Anche rispetto al resto dei loro lavori credo che quella canzone sia uno dei loro capolavori assoluti.

This is all I have for You è uno dei classici dello splendido album di debutto di Makoto Matsushita First Light.
Video da noi realizzato per il nostro canale YouTube City Pop Gems
Nel secondo link, l’album al completo.

— Il tuo primo album è stato pubblicato nel 1981 tramite la RCA/Air, mentre The Pressures And The Pleasures (1982) è stato il primo album ad essere pubblicato dalla Moon Records. In seguito avrebbero pubblicato un gran numero di dischi di artisti come Tatsuro Yamashita e altri, lavori che oggi vengono definiti “city pop“. Come siete arrivati ​​a pubblicare i vostri album attraverso la Moon Records?

Makoto Matsushita: La persona che ha fondato la Moon Records era in realtà il presidente della RCA/Air ai tempi dell’uscita di First Light, quindi mi sono trasferito lì con lui quando è diventato indipendente… Tutto qui.

— Quale fu la risposta al tuo album di debutto alla sua uscita?

Makoto Matsushita: Non ricordo che abbia venduto molto. (ride) Immagino che abbia creato un po’ di scalpore. Però mi ricordo questo… C’erano dei negozi di noleggio di dischi che erano popolari tra i giovani a quei tempi, e ricordo di aver saputo che in un paio di quei negozi—a Roppongi e in un altro da qualche parte a Osaka—fosse il loro album più noleggiato. Per me questo significava molto di più delle vendite.

— Attualmente sei impegnato a realizzare vari tipi di arrangiamenti per cori. Come pensavi a quell’aspetto della musica mentre lavoravi al tuo materiale solista? C’era qualcosa di ciò che stavi facendo nel tuo primo materiale solista che rimane immutato fino ad oggi nel modo in cui ti avvicini all’arrangiamento dei cori, cioè qualche aspetto fondamentale che non è mai cambiato? E in caso, quale?

Makoto Matsushita: Ero un membro del coro del nostro liceo. Cantare in coro è… È difficile da spiegare a qualcuno che non l’ha sperimentato, ma è un tipo di piacere completamente diverso da quello che si prova, ad esempio, suonando uno strumento o cantando come solista.

Quando la tua voce risuona con le voci degli altri e quelle vibrazioni riempiono l’aria, non riesco nemmeno a esprimere a parole quanto sia emotivamente commovente. Anche solo un semplice accordo Do-Mi-Sol, quando riesci ad armonizzarlo perfettamente non c’è un’altra sensazione simile. Quindi ho sempre avuto il desiderio di cantare in coro. Successivamente ho realizzato anche due album con un gruppo a cappella chiamato Breath By Breath.

— Oggi, il suono AOR del tuo primo album è apprezzato da molte generazioni più giovani e considerato come genere “city pop”. Quali sono i tuoi sentimenti a riguardo?

Makoto Matsushita: Guardando indietro, un aspetto importante di AOR è stato lo sviluppo musicale della sezione ritmica. La musica degli anni ’80 aveva complicate progressioni di accordi e combinazioni ritmiche e credo ci sia stata una “reazione” contro tutto ciò negli anni ’90. Hanno raschiato via tutta la carne in eccesso mentre anche i testi hanno iniziato a prendere una direzione più realistica. Anche la tecnologia informatica deve aver influenzato notevolmente la musica…

Ma a partire dal 2010 circa, non sembra che ci sia stata un’altra reazione negativa a tutto ciò? Naturalmente, quando oggi ascolti il ​​materiale degli anni ’80, la maggior parte di esso sembra piuttosto datato. Ma mettendo da parte la “freschezza” del suono in sé e parlando puramente da un punto di vista musicale, negli anni ’80 si era stabilito qualcosa di veramente musicalmente significativo. Deve essere qualcosa che ora sta raggiungendo le orecchie di quelle generazioni più giovani senza che nemmeno se ne rendano conto.

Inoltre, la musica creata sui computer non suona più “nuova”. E le persone sono sempre pronte ad annoiarsi delle cose. (ride) Musica creata interamente da mani umane: c’è semplicemente qualcosa di diverso in quel suono. Sento che queste tendenze principali si ripetono sempre, una volta ogni 20 anni circa.

— Ascolti mai la musica composta da quelle generazioni più giovani?

Makoto Matsushita: Sono sempre curioso della nuova musica. Ma anche se spuntano costantemente nuovi artisti straordinari, non posso dire di aver sentito qualcuno che sia stato influenzato da me… (ride)

— Il tuo secondo album, The Pressures And The Pleasures, ha un’atmosfera di rock elettronico/progressivo. Qual era il tuo obiettivo nel creare il sound per questo secondo album?

Makoto Matsushita: Essere riuscito a far emergere il mio lato pop nel primo album, mi ha dato il desiderio di spingermi verso qualcosa di più musicalmente ambizioso. Stavo iniziando la mia ricerca per diventare più originale in termini di musica, e ho sempre amato la musica complessa oltre al pop—King Crimson, Yes, Pink Floyd, Weather Report, Miles Davis, ecc.—quindi volevo fare qualcosa di più avventuroso.

Questa ricerca è ciò che ha portato alla creazione di due canzoni: “The Pressures And The Pleasures” e “The Garden Of Walls”. Era un suono completamente diverso rispetto all’approccio pop del mio primo album, quindi i ragazzi dell’etichetta discografica devono essere rimasti piuttosto sorpresi. (ride)

Inoltre, poco prima di iniziare a lavorare su questo album, ebbi l’opportunità di assistere al concerto che segnò ritorno di Miles Davis in Giappone. Fu una grande ispirazione per me. Mi commosse profondamente vederlo andare oltre i confini del jazz e costruire la sua musica in un modo del tutto originale, il tutto sopportando la sua malattia. “The Garden Of Walls” è il mio tributo a Miles.

— The Pressures And The Pleasures conteneva qualche altro concetto?

Makoto Matsushita: Essendo coinvolto nella produzione del suono negli anni ’80, c’era una cosa che mi dava fastidio: il fatto che fossero praticamente tutte canzoni d’amore. Per dirla senza mezzi termini, ne ero disgustato. “Non c’è nient’altro che vuoi esprimere come essere umano oltre al tema dell’amore ?!”

Sono cresciuto con la musica influenzata dal movimento Flower Power. Le canzoni con temi contro la guerra e la libertà avevano il sostegno di tutti i giovani: c’era un senso incoraggiante di una nuova era che si inaugurava. Ma la verità è che quando siamo entrati negli anni ’80, le canzoni con quel tipo di temi svanirono in sottofondo… Questo è ciò che mi ha fatto decidere di scrivere canzoni su altre cose oltre all’amore.

Io stesso stavo crescendo spiritualmente in quel momento, e così fui risvegliato all’intera idea del dualismo: “si può crescere solo quando si vedono entrambi gli estremi delle cose”. E “The Pressures And The Pleasures” era una canzone nata da tutto questo. Incaricai Chris Mosdell di scrivere i testi, e ricordo che mentre gli stavo spiegando tutto queste mie necessità nel mio inglese scadente, a metà della mia spiegazione stava già dicendo: “Oh, capisco!” Capì immediatamente.

È un peccato come ora sembriamo involvere, allontanandoci dall’intera mentalità di “libertà e amore per il prossimo” che avevamo allora… Questa conversazione ha preso una piega un po’ difficile, eh? (ride)

Carnaval: The Dawn è la notevole hit tratta dall’album di Makoto Matsushita The Pressures And The Pleasures.
Video da noi realizzato per il nostro canale YouTube City Pop Gems
Nel secondo link, l’album al completo.

— All’epoca suonavi dal vivo qualcosa di questo materiale solista?

Makoto Matsushita: Suonavamo “The Pressures And The Pleasures” e “The Garden Of Walls” con la mia band, i Paradigm Shift. “The Pressures And The Pleasures” va avanti per oltre 11 minuti anche sull’album, ma quando la facevamo con la band divenne un’epopea di oltre 40 minuti.

— Finora hai pubblicato quattro album da solista e, considerando la lunga durata della tua carriera, non è molto. C’è qualche motivo per cui ritieni che collaborare con band e progetti ti si addica meglio del lavoro da solista?

Makoto Matsushita: Non particolarmente. Ho semplicemente iniziato a concentrarmi maggiormente su Paradigm Shift.

— Sembra che ci sia una separazione tra il tuo lavoro da solista e i tuoi vari progetti di arrangiamento/produzione. A quei tempi, il tuo entusiasmo era più forte quando si trattava del tuo materiale solista e dei lavori in cui eri un artista principale?

Makoto Matsushita: Una domanda un po’ azzardata, eh! (ride) Beh, dal momento in cui è stato deciso che avrei pubblicato la mia musica, pubblicarla con il mio nome è stata una decisione che escludeva completamente qualsiasi prospettiva commerciale: volevo semplicemente creare qualcosa che nascesse esclusivamente dai miei gusti musicali.

Il mio desiderio di fare musica pop era già completamente soddisfatto attraverso il mio lavoro, e ho avuto modo di mostrare quel lato anche nel mio primo album. Quindi col passare del tempo ho iniziato a sperimentare di più per ampliare la mia gamma musicale, e di conseguenza il mio lavoro da solista da allora è sempre stato completamente al di fuori dell’ambito pop. Non c’è da meravigliarsi che niente di ciò che ho fatto da solista abbia venduto bene. (ride) E questo non mi ha mai infastidito.

La verità è che ho visto molti artisti che avevano un grande talento musicale, eppure non hanno mai avuto successo in questo campo. Essendo io stesso coinvolto nell’industria musicale, a un certo punto mi sono reso conto che “buona musica” e “business” non vanno necessariamente sempre di pari passo.

— Dopo The Pressures And The Pleasures, sia che fosse il tuo progetto ambient indipendente CONFESSION o i Paradigm Shift, la tua sessione ambient System III del 2000 o quella con Koki Ito in NEBULA, la parola chiave che descrive il tuo materiale solista da allora è “ambient”. In quei primi anni ’80, il jazz di etichette come la ECM, i lavori ambient di Brian Eno, i lavori elettronici influenzati dal prog rock di band tedesche come Cluster o Manuel Göttsching/Ash Ra Tempel, gente del genere pubblicava materiale che sembrava molto simile a quello che stavi facendo tu stesso in quel momento. Sei stato influenzato da quel tipo di suono? Cosa ne pensi?

Makoto Matsushita: The Plateaux Of Mirror di Harold Budd e Brian Eno è stato un album rivoluzionario per me. Ricordo ancora vividamente il giorno in cui comprai quell’album. Lo stavo ascoltando la sera, col sole al tramonto che splendeva nella stanza mentre sedevo lì pensando alla vita di mio padre che se n’era andato da poco.

Ero in una sorta di stato meditativo, quando improvvisamente realizzai! Quello era un tipo di musica che non richiedeva l’attenzione dell’ascoltatore. Normalmente, la musica è qualcosa che si valuta ascoltando attentamente il suo contenuto. Ma con quel suono gli aspetti della musica che avrebbero richiesto la propria attenzione erano stati deliberatamente esclusi: l’intenzione era solo quella di creare un’atmosfera che avvolgesse l’ascoltatore. Detto questo, anche se presti attenzione mentre ascolti, noterai che è anche roba di altissima qualità musicale.

In ogni caso a me ha cambiato la natura stessa della musica e dopo aver realizzato questo concetto dovevo solo provare a fare qualcosa del genere anch’io. Cosa posso dire? Mi piace sperimentare (ride) Provai per la prima volta a creare dell’ambient nel 1983.

— Visto che sei arrivato al punto di chiamare CONFESSION il lavoro della tua vita, perché la musica ambient è diventata una parte così importante della tua espressione musicale?

Makoto Matsushita: Semplicemente perché è quello che voglio fare. (ride) Nel crearlo ho sempre avuto un filo conduttore: tutto, a cominciare dal primo suono, deve essere improvvisato. Dopotutto, la composizione è un atto deliberato, e una volta che qualcosa di deliberato entra nel suono, finisce inevitabilmente per divergere da ”ambient”.

Quindi, quando creo musica ambient, uso il computer solo come registratore, non ho mai fatto alcuna pre-programmazione. Questo stile di totale improvvisazione ha successivamente portato anche ad altri esperimenti. Ovviamente niente che porterebbe a qualche affare redditizio, però. (ride) È puramente un hobby personale.

— I tuoi primi tre album da solista e le uscite di Paradigm Shift sono attualmente molto acclamati non solo a livello nazionale ma anche all’estero, con le stampe in vinile originali acquistate e vendute a prezzi elevati. Specialmente negli ultimi anni e soprattutto in Europa, il tipo di musica prog rock/ambient giapponese degli anni ’80—come il tuo secondo album e il materiale dei Paradigm Shift—ha guadagnato popolarità. Eri a conoscenza di questo? Qual’è il tuo sentire a riguardo?

Makoto Matsushita: Non ne avevo idea. È vero? (ride) Se è davvero così, allora sono molto contento.

— A proposito, hai ricevuto delle offerte per la ristampa dei tuoi album all’estero?

Makoto Matsushita: No, non ne ho avute. Forse semplicemente non sanno come contattarmi? (ride)

L’intervista termina qua e con i suoi primi due album termina anche il periodo city pop di Makoto Matsushita, l’articolo prosegue invece con l’invito all’ascolto degli altri suoi due dischi solisti ed una carrellata di video live.

Personalmente amo tutti e quattro i dischi solisti di Makoto Matsushita ma se dovessi sceglierne uno andrei ad occhi chiusi su Quiet Skies e quale sia di esso il mio brano preferito lo si intuisce dal titolo dell’articolo.
Non essendo però a conoscenza dell’esistenza di video live tratti da quell’album ho deciso di presentarvi Matsushita attraverso alcuni video live di vari periodi del suo percorso.

Inziamo con Love was Really Gone, dal primo album First Light, in una versione live del 1982 presa durante un concerto di Fujimaru Yoshino dove Matsushita era turnista come seconda chitarra, prima che i due formassero gli AB’S.

Proseguiamo con un live degli inizi degli AB’S, nel 1983. Makoto Matsushita è a destra e canta il secondo brano, Japanese Punkish Girl.

Gli AB’S nel 2005

Gli AB’S nel 2010.

Turnista nel video didattico del batterista Jun Aoyama “The Essence of One Drum” con Hironori Ito e MAC Shimizu nel 2012.

Gli AB’s nel 2017.

makoto matsushita
header3 dedicato al drake classic 2vintage

Dedicato al “Drake” nel giorno del suo compleanno

By Automobilismo, Enzo Ferrari, Personaggi StoriciNo Comments

Come ha fatto Enzo Ferrari a creare uno degli oggetti più desiderati ed esclusivi al mondo?

Alessandro Spagnol

Il Drake non solo non concedeva finanziamenti per l’acquisto delle auto prodotte dalla sua fabbrica, ma anche se ti presentavi con il contante, non eri conosciuto all’azienda e non avevi passato specifici controlli antiriciclaggio, non potevi diventare cliente Ferrari.

 

Se il mercato richiedeva 400 auto, ne produceva 399.

Se ne richiedeva 100, ne produceva 99.

 

Ha sempre considerato troppi 1000 esemplari prodotti per singolo modello ed ha speso 0 in pubblicità convenzionale investendo nelle competizioni, battendosi e vincendo contro colossi come Ford, Porsche, Mercedes, Jaguar e contro la stessa Alfa Romeo, che gli permise di diventare pilota prima e direttore tecnico poi, mettendo in piedi con i migliori uomini del tempo la Scuderia Ferrari, presente sia in F1 che nella 24 ore di Le Mans.

 

Pare una cosa ovvia oggi, con tutti i guru del marketing aziendale che sanno cosa fare con la strada già spianata, ma mettere in pratica una cosa del genere negli anni ’50 e avere successo, non é da tutti.

 

É da numeri 1.

(18 febbraio 1898 – 14 agosto 1988)

Breve videoritratto di un personaggio unico al mondo

does it really happen

Does It Really Happen? …Yes!

By Cinema, Musica, Narrativa e saggisticaNo Comments

VUOI IMPORRE UN CONCETTO?

  • Scrivi un testo che esplichi il concetto in maniera semplice e diretta, studiando bene le frasi e le parole che vuoi impiantare nella mente.

  • Crei una musica emotivamente esplosiva, possibilmente suonata e prodotta in maniera innovativa, così da attirare l’attenzione e calamitarla, aprendo i canali ricettivi.

  • Ci innesti sopra il testo, scandendo bene frasi e parole, ripetendole ad hoc nei punti giusti.

  • Appoggi il tutto su una sequenza di immagini martellanti ben precise  e con un grosso appeal:  “libertà”, bei visetti e sesso aiutano sempre.

  • monti sequenze brevi e veloci con colori forti, possibilmente con flash e sequenze stroboscopiche e…

Adesso l’attenzione è tutta tua ed ecco che hai creato l’imprinting
per una o più generazioni

Come dici, “è solo la musica dagli anni 80 ad oggi“?

NO, è MARKETING

ma…

Testo

That’s what you say
Does it really happen to you
Does that explain
This is the season for this display.
To take a look
In time to move together
Time is the measure before it’s begun
Slips away like running water
Live for the pleasure, live by the gun
Heritage for sun and daughter
Down to the slaughter up for the fun
Up for anything.
Could this be true
Does it ever happen to you

And can you prove
That wheels go ‘round in reason
You take a step
In time,
To move together
Time is the measure before it’s begun
Slips away like running water
Live for the pleasure, live by the gun
Heritage for sun and daughter
Down to the slaughter up for the fun
Up for anything.
You walk, the way

You take, the path
To be, assured
You draw, a graph
The scale, you use
Is all, on black
Be brave, the weight
Will make, the heat
There is, no way
To take-it back.
Time is the measure before it’s begun
Slips away like running water
Live for the pleasure, live by the gun
Heritage for sun and daughter
Down to the slaughter up for the fun
Up for anything.

plastic mexico

1984 – 2024: Quarant’anni di Plastic Mexico

By Musica, Personaggi StoriciNo Comments

Pur compiendo 40 anni e facendo un evidente parallelo con il celebre locale milanese a cui si ispira, Plastic Mexico appare oggi come il ritratto di un 1984 che sembra il 2024

Lorenzo

Plastic Mexico era il 1984 in Italia, avveniristico e virato alla moda vettoriale, a ricordare che il design italiano e il fantascientifico Giappone tecnologico dettavano legge nel mondo.

Gli echi del rock progressivo, del kraut rock e l’ispirazione dalla new wave di Japan e Bowie, dalla elettro fusion pop degli Yellow Magic Orchestra di Sakamoto e dal city pop si incontrano in questo pezzo d’arte, gioiello assoluto della discografia new wave italiana che veniva passato a rotazione da Videomusic ai tempi in cui però le rotazioni erano dominate dai fighetti della new romantic inglese dai quali le ragazzine italiane erano ossessionate ai livelli di nuovi Beatles e Rolling Stones.

Plastic Mexico era il 1984 ritratto da uno che fighetto non lo era e non lo sarebbe mai stato: nonostante i natali illustri, Alberto Fortis fu fin dagli inizi un vero outsider della musica italiana.

Nonostante una prima travagliata uscita discografica che lo portò immediatamente al successo, è rimasto da allora quasi nell’ombra, come il classico membro scomodo della famiglia che si teme perché geniale e allo stesso tempo capace di dichiarazioni indigeste.

Del resto che non abbia mai avuto peli sulla lingua lo ha dimostrato subito con le mitiche “Milano e Vincenzo” e “A voi romani” che stavano decretando la fine della sua carriera direttamente dal suo inizio.
Osteggiate dai canali ufficiali per le liriche esplosive, videro fortunatamente il successo grazie al provvidenziale fenomeno delle nascenti radio private che le programmarono allo sfinimento agendo da rampa di lancio per uno dei dischi più belli di sempre.

E dopo altri 3 dischi in studio eccoci al 1984 di El niño, album molto melodico registrato quasi completamente in duo da Fortis e Claudio Dentes (storico futuro produttore di Elio e le Storie Tese) in mezzo al quale Plastic Mexico è un’autentica mosca bianca e un exploit che racchiude in sé tutta un’epopea.

Chi c’era si ricorda bene quanto sia stato simbolico quell’anno, la svolta epocale del decennio ‘80: quando di colpo iniziò davvero il futuro che ci avrebbe portati agli anni 2000, tanto che gli anni ’90, con la loro depressa lentezza, avrebbero anche potuto non esistere se non fossero serviti per caricare la molla del nuovo millennio, pieno zeppo di tecnologia e completamente svuotato di contenuti umani.

La copertina dell’album su nastro El Niño

Come ogni lavoro avanti rispetto al suo tempo, l’album El Niño non avrà successo e si farà ricordare praticamente solo per il video di Plastic Mexico – tra l’altro oggi assurdamente irreperibile online – che conteneva in gran parte spezzoni tratti dall’allora celebre film-documentario Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio.

Il video, come già detto, ricevette vasta programmazione sull’allora neonata emittente tv Videomusic, sicuramente grazie alle immagini del film di Reggio e al fatto che i videoclip prodotti ai tempi erano ancora molto pochi, soprattutto in Italia, e venivano ripetuti molte volte al giorno (agli inizi su Videomusic non c’erano programmi tematici ma esclusivamente la rotazione dei videoclip) perciò Plastic Mexico ottenne un numero enorme di passaggi in mezzo a Duran Duran, Spandau Ballet, David Bowie, The The, Dire Straits

Plastic Mexico

Plastic Mexico, questa immaginifica esplosione di suoni e parole, questo melting pot di stili diversi e questo suo essere sanguigna e glaciale al tempo stesso, lascia stupiti e affascinati fin dal primo ascolto: dalla morbida partenza emotiva ambient poggiata su archi sintetici riverberati guidati da una insistente synth drum si passa ben presto ad un ritornello ritmato con synth brass in stile city pop per poi, al rientro nella strofa, ritrovarsi un riff di chitarra che ricorda i Japan ma anche la bowieana china girl e un basso fretless nello stile del compianto Mick Karn e poi nacchere nel bridge per tornare ad esplodere nel ritornello carico di chitarre distorte, basso tuonante ed esplosioni di sax e ottoni che ricordano la Town di Minako Yoshida.

Segue un nuovo lungo bridge con arpeggi di basso e un tappeto delirante e ipnotico di synth dove Fortis ci illustra la caduta della civiltà illuminata, il re maya trasformato in Grande Fratello di questo distopico 1984 con eserciti di yuppie-bot depersonalizzati e ci conduce ad un rock industriale col solo di chitarra fuzz appoggiato ad un basso distorto e potenti orchestral hits.

Si torna alla strofa dove la chitarra fuzz intesse attorno alla voce e introduce una tromba messicana e di nuovo siamo sul ritornello pieno di fiati per poi trovarsi di nuovo sul lungo bridge dove i fiati passano al rhytm’n’blues sui quali Fortis, appoggiandosi di nuovo al tappeto ipnotico di synth, declama il suo personale manifesto dei folli e colorati anni 80: una visione allucinata di tribù rese urbane e già in odor di cyber, in continuo sogno di evasione verso una “Shell Beach” che esiste solo nella loro mente addomesticata dall’arrivismo e dai sogni liquidi delle droghe.

E poi campionamenti di cori vocali e il sax ci introducono alla fuga liberatoria del finale rock con un nuovo solo di chitarra fuzz appoggiato al basso distorto e le urla di Fortis, una gioiosa ma disperata esplosione di fantasia e colori fluo e pastello tanto in voga ai tempi e sei arrivato alla fine e, cavolo, ti accorgi solo lì che sono passati ben 6 minuti e 10 che sono il doppio della durata di una classica hit che deve “non annoiare mai” e tu invece, dopo 6 folli stravolgenti minuti di inventiva musicale e lirica, la noia non sai nemmeno più cosa sia ma hai capito in che futuro ti ritroverai… oggi.

Ascolta il brano “Plastic Mexico”

Testo

Là, più in là, nel Mexico, fine tra di noi
oh baby non parlare, continua ad atterrare
io non so se ti amo più, tu mi hai detto stop
ma un viaggio ci fa bene per stare ancora insieme:
hai mai pensato al Nord America, lontano da qui
Tutti in piedi, dritti in fronte a me,
buongiorno cari amici, io dei Maya sono il re
torno al mondo per ricordarvi che
ballare a N.Y. City oggi è il meglio che c’è
amor, amor, amor non c’entro più

solo la lingua giapponese e tutti in giacca blu
salire sul metrò, dopo dire sempre sì:
1, 2,3, 1,2, 3,4, eh!
Là, più in là, nel Mexico, fine tra di noifanculo le bandiere, i popoli e le sereNon sopporto un uomo in più e non sopporto chisi sega in un pianeta di carni bianche e setaOh Angela, tu non sai dove:hai mai pensato al Nord America, lontano da quiolé, olé, olé, torero del Bronx, stile pret-à-porter

immagine sul ponte di un baffuto gigolòe voilà nuova moda “rétro”
radio Camarito a radio Capital,bombe silenziose e tori pré-natal,radio qua, radio là, radio perchéad Acapulco c’è un posto per teStop col sole, stop coi viaggi chicè tutto uguale, viaggio meglio al PlasticMa Brooklyn dov’è, Brooklyn dov’è, ehVisitando il Mexico

Hey Mama

Di El Niño consiglio anche l’ascolto della splendida Hey Mama, brano dedicato alla madre, con cui Fortis chiude l’album: un tenero lento dalle atmosfere rarefatte, come un pensiero rivolto ad un angelo custode al quale affidarsi nei momenti difficili che il futuro descritto in Plastic Mexico riserverà.

L’ultimo terzo del brano è costituito da un sorprendente finale strumentale sinfonico orchestrale di una bellezza fuori dal tempo che lascia stupefatti ed esorcizza la visione da incubo urbano del 1984 con un soffio di speranza e dolcezza: l’umanità deve ricordarsi sempre cos’è l’amore e donarselo vicendevolmente perché, senza dubbio alcuno, è l’amore che la salverà.

Ascolta il brano “Hey Mama”

Testo

Hey, mamaChe ci fai da meHai noleggiato una macchinaPer venirmi a dire cheNel sole meglio si vivràHo ancora molto da fare oggi quiE sai che mi costerà
Hey, mamaVoglio dirti cheTutto l’amore che troveròVoglio prenderlo perché

Più cresci e meno lo vedrai
Adesso vattene via di qui
Quando vuoi mi troverai
Quando una stella cadrà
Sei tu che mi chiamerai
Perché lei va da chi
Oh, mama, le dirà sì
Nel viaggio cosa hai visto mai
Ti han spaventato gli aerei
Ed il grande ponte dove stai

Hey, mamaHai due ali in piùTi chiami angelo e non lo saiDimmi che ci fai quaggiùQui, oh, mama, male non si staI grattacieli e le nuvoleSi domandano l’età
Quando una stella cadràSei tu che mi chiameraiPerché lei va da chiOh, mama, le dirà sì

Musicisti

 

Alberto Fortis – voce, batteria, pianoforte, tastiere, percussioni
Claudio Dentes – basso elettrico, chitarre elettriche, chitarra acustica

Altri musicisti
Claudio Pascoli – sax sezioneDemo Morselli – tromba sezione
Demo Morselli – flicorno solo (brano: Hey Mama)
Paolo Severi – sax solo

Note aggiuntive
Alberto Fortis e Claudio Dentes – produttori, arrangiamenti
Claudio Dentes – produttore esecutivo
Lucio Fabbri – arrangiamento e direzione orchestrale
Registrato negli studi Psycho (Milano) da Claudio Dentes e al Moon Base da Maurizio Vandelli
Orchestra registrata nello Studio Regson da Paolo Bocchi
Mixato al Idea Studio di Milano (Crayg Milliner e Claudio Dentes)
Cutting eseguito da Arun Chakraverty al Master Room Studio, 59 Riding House, London
Copertina realizzata dallo Studio Convertino su idea di Alberto Fortis
Guido Harari – foto

Alberto Fortis e “Plastic Mexico” a Festivalbar 1984

Aster

Beau o I Dolori del giovane Aster

By CinemaNo Comments

L'ultima fatica di Ari Aster potrebbe essere il perfetto capitolo finale di una sua virtuale “Trilogia della condizione umana nel nuovo millennio” o di come possa essere difficile conservare traccia di sanità mentale nell’escalation di pazzia che la sta travolgendo.

The Boss

Si narra che le pene d’amore nascano nel 1774 con l’uscita del romanzo I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, sua opera giovanile simbolo dello Sturm und Drang e che precorre di poco il romanticismo tedesco.

 

Si narra che il libro fosse maledetto e che qualcosa scattasse nella mente dei giovani, una sorta di cieca follia contagiosa o un comando ipnotico che li conduceva alla decisione di compiere l’insano gesto… O forse era solo imitazione modaiola da parte di annoiati ragazzotti di ricca famiglia… O forse semplicemente l’inizio del marketing e dell’influencing basato su invenzioni e menzogne.

Prima edizione del romanzo I dolori del giovane Werther

Ma analizziamo pure le connessioni con i rituali magici, o meglio i rituali di magia Nera: è ben noto agli studiosi di esoterismo (ma anche agli appassionati di letteratura e cinematografia fantastica/horror) il fatto che i rituali magici servano a creare/nutrire una egregora o forma pensiero con uno scopo ben preciso che è chiaro fino in fondo solo al creatore di questa.

E’ altresì ben noto che tale forma pensiero necessiti di esser fortemente nutrita, ragion per cui servono adepti che prestino la loro energia e volontà, non è detto però che debbano per forza essere al corrente dello scopo di tale egregora o addirittura della sua creazione/esistenza (esempio spiccio e futuristico sono i “campi dove gli esseri umani vengono coltivati” visti in Matrix).

Tali rituali nel tempo potrebbero aver cambiato faccia e assunto altre sembianze come scuole (alzi la mano chi ha pensato a Suspiria), professioni (…L’avvocato del diavolo?), corporazioni con marchi aventi simboli “magici” come logo o addirittura occasioni considerate di svago come i grandi concerti e festival che attirano enormi quantità di persone, perlopiù giovani (più si è giovani e meno saggi si è e più energia si è in grado di produrre), verso i quali si può venir adescati con un miraggio o scopo esistenziale/religioso.
Potrebbe essere facile immaginare un piccolo tempietto o sala di controllo, anche celato, nelle immediate vicinanze o nella struttura stessa (qualcuno penserà al film Quella casa nel bosco).

La miglior maniera di spremere energia da una persona è l’indottrinarla (programmarla) ad uno scopo tramite trauma, dolore, paura.

E qua mi fermo perché mi rendo conto che sto deviando dallo scopo principale che è parlare del cinema di Ari Aster e soprattutto del suo ultimo Beau ha paura, eventuale perfetto capitolo finale di una virtuale “Trilogia della condizione umana nel nuovo millennio” o di come possa essere difficile conservare traccia di essa nell’escalation di pazzia che la sta travolgendo.

Aster parla sempre di rapporti di famiglia e coppia, non parla della scuola

E questo è strano perché la scuola è un mostro sociale, la prima fonte di traumi: separazione netta dalla famiglia, indottrinamento e verifica di questo tramite interrogatori, test, giudizi perentori provenienti da docenti che più spesso instillano confusione invece che insegnare e chiarire dubbi.

La scuola è la prima esperienza con la violenza e il bullismo (spesso provenienti dall’istituzione stessa), con la divisione in classi sociali e l’esclusione dalla vita di gruppo.

Non è un caso che il malessere degli anni di scuola non lo dimentichi mai nessuno e che il suo imprinting si spinga fino al sognare interrogazioni, esami e altre situazioni spiacevoli e/o trascinarsi certi traumi anche nella vita adulta anche per molti anni.

Oggi tutti parlano della scuola, molto in male e poco in bene, basta che se ne parli, che si distrugga la scuola come istituzione, o meglio il concetto originale con cui è stata istituita: fornire gli strumenti per formare e accrescere la propria cultura. Questo e non altro.

Aster invece la scuola la aggira, lui parla della famiglia, della coppia, della madre.

Ari Aster

La visione asteriana della famiglia

Ari Aster è uno dei pochi davvero interessanti nel mainstream oggi, un ragazzo notevolmente dotato sia come soggettista/sceneggiatore che come regista di gran livello tecnico.

Che Aster (o chi per lui) non facesse prigionieri lo si era capito fin dal debutto Hereditary, dove analizzava la famiglia odierna paragonandola ad una figura malata e maligna: una matrigna che si muove attraverso trame demoniache ben coadiuvate dalla porzione femminile che, ormai malata di un’ingombrante ego ipertrofico, si sente l’unica parte irrinunciabile dell’equazione, calpestando come uno schiacciasassi ogni figura maschile, che sia la metà “donatrice” della famiglia o il suo “prodotto”.

E nel caso dei figli non si fa problemi a calpestare anche il femminile.

Il secondo film asteriano, Midsommar, analizza il mondo femminile odierno attraverso il distorto punto di vista femminista e wiccano della questione, costantemente nutrito da un ipocrita e strumentale vittimismo strisciante che si spinge fino a ribaltare ogni logica e verità.

E’ un film gonfio e pesante, anche noioso (la tipica sindrome del capitolo centrale delle trilogie) costantemente pervaso da un’atmosfera malata e ben descrittivo anche della situazione scandinava.

Aster/Beau

In Beau invece, a chiudere questa sorta di trilogia “asteriana”, viene analizzato il punto di vista maschile ed è ovvio che nella società degli anni 20 del 2000 sia anche il più sofferto e che necessita i suoi tempi.

E’ un film che tutti dovrebbero guardare ma che oggettivamente potrà essere capito fino in fondo solo dagli uomini.

Esagerata la metafora della società?
No, tanto da non essere affatto una metafora ma pura descrizione della realtà odierna: un incubo.

Esagerata la figura della ragazzetta Toni?
No, è esattamente la condizione mentale della femmina new generation: instabile, violenta, manipolatrice e ricattatrice.

Esagerata la figura della madre folle dall’egoistica possessività, manipolazione e impositività?
No, tanto da essere addirittura sottotono, pietosamente contenuta verso la figura materna follemente esaltata dalle correnti femenwoke di oggi.

Però il finale pesta a tavoletta sulla criminale colpevolizzazione messa in atto contro il maschio bianco fin dalla nascita (il film è ovviamente “BLM safe”) anche dai vari conniventi (la scena finale , che cita The Truman Show, con l’accusa criminalmente traditrice maschile mentre la madre osserva compiaciuta – un grosso parallelo con la Mother del The Wall di watersiana memoria).

Joaquin Phoenix è Beau Wessermann

“Non ci sono più gli uomini di una volta”

Aster è ben chiaro: il maschio viene sacrificato dalla società perché senza il maschile la figura della famiglia soccombe sotto lo strapotere del femminile lasciato a sé stesso e inconsapevolmente sofferente di questo.

Dal Peter di Hereditary, al Christian di Midsommar fino a Beau, i maschi moderni di Aster sono degli esseri svuotati della loro consapevolezza a forza di traumi e manipolazione, ridotti a dei recipienti che vengono poi forzosamente riempiti di una sorta di forma-pensiero perversamente distorta, una egregora che ha preso piede oggi in occidente: il Neofemminismo Nero.

E dopo questa preparazione, che dura anni, vengono TUTTI regolarmente SACRIFICATI.

“Non ci sono più gli uomini di una volta” è la lamentosa litania vittimista, ripetitiva e provocatoria, che da anni ci sfonda gli attributi, la forma-pensiero nera studiata da una “regia occulta” e tramandata da megafoni umani eternamente insoddisfatti pure della loro stessa ampissima “libertà” odierna, loro stessi ormai ridotti a degli automi.

Automi dissociati che per sentirsi vivi sono eternamente bisognosi di un continuo confronto bipolare e violento con una figura maschile che amano e odiano, con l’inconsapevolezza tipica di chi, non avendo conoscenza diretta col vero maschile, vive tramite un programma di memorie distorte imposto dalla regia occulta che le manovra e senza avere la minima coscienza che con il loro comportamento non fanno che contribuire a cristallizzare questa frase rendendola reale anche tramite l’egoismo con il quale interpretano il loro ruolo di madre, anche questo imposto e regolato dallo stesso programmatore esterno a loro.

In tutto questo però non hanno nemmeno coscienza del fatto che, per contro, “non esistono più nemmeno le donne di una volta”, essendo quelle di oggi nient’altro che la versione femminile esaltata della da loro tanto odiata idea di figura maschile (forma-pensiero distorta sempre derivante da programmazione esterna).

Non è un caso che in Hereditary tutte le tre generazioni femminili della famiglia perdano fisicamente e simbolicamente la testa in favore dell’entità alla quale si sono votate.

Conclusioni

Beau è un film estremamente drammatico, una sorta di pellegrinaggio dentro una mente profonda, sensibile ma disfunzionale, perseguitata da una sfortuna atroce e consequenziale: forse il vero viaggio nell’orrore più profondo.

Eppure Aster lo ha pensato come una commedia buffa e triste e quando lo riguarda scoppia ancora a ridere (lo ha fatto uscire come anteprima il primo di aprile).
Per certi versi concordo col fatto che la commedia amara della vita andrebbe osservata così, soprattutto se contiene elementi autobiografici.

Ed è probabilmente anche la via meno letale per guardare questo film che, con tutta le difficoltà che si porta dietro, si rivela un vero e proprio calvario; un lavoro interiore al quale è consigliabile prestare il massimo dell’attenzione anche nell’analisi dei simboli, tanti e sparati a raffica, perché sarà assai difficile venga voglia di soffrire una seconda volta le 3 ore dell’epopea di questo “povero cristo”, stracolma di dolore e talmente piena di messaggi da non dare scampo (e fortunatamente neppure noia).

Lavoro certosino, visionario ancora più dei precedenti e tecnicamente perfetto sotto ogni punto di vista e con grande sfoggio di recitazione da parte di Phoenix, contiene anche una bella sequenza di 12 minuti in animazione stop-motion, usanza ormai assimilabile al nuovo neorealismo americano.

Il film dentro il film, il sogno dentro al sogno.

 

Buona visione e Buon Lavoro.

“Beau Ha Paura” (Beau Is Afraid) – USA, 2023

Regia: Ari Aster
Soggetto e sceneggiatura: Ari Aster
Produzione: Ari Aster, Lars Knudsen

 

Interpreti

Joaquin Phoenix: Beau Wessermann
Armen Nahapetian: Beau da giovane
James Cvetkovski: Beau da bambino
Patti LuPone: Mona Wessermann
Zoe Lister-Jones: Mona da giovane
Amy Ryan: Grace
Nathan Lane: Roger
Kylie Rogers: Toni
Denis Ménochet: Jeeves
Parker Posey: Elaine Bray
Julia Antonelli: Elaine da giovane
Stephen McKinley Henderson: dott. Jeremy Friel
Richard Kind: avvocato Cohen
Hayley Squires: Penelope
Maev Beaty: Angelo
Julian Richings: uomo sconosciuto
Bill Hader: fattorino UPS
Patrick Kwok-Choon: eroe
Alicia Rosario: Liz
Michael Gandolfini: figlio di Beau
Théodore Pellerin: figlio di Beau

Fotografia: Pawel Pogorzelski
Montaggio: Lucian Johnston
Musiche: The Haxan Cloak
Compagnie di produzione: A24, Access Industries, IPR.VC, Square Peg

Data di uscita

1 aprile 2023 (April Fools’ Day event at Alamo Drafthouse Cinema)
21 aprile 2023 (Stati Uniti)
27 aprile 2023 (Italia)

Durata
179 minuti

Candidature e premi

Hollywood Critics Association Midseason Film Awards:

Best Actor Joaquin Phoenix (Nomina)
Best Supporting Actress Patti LuPone (Nomina)

carabo

Alfa Romeo Carabo: Spaceship Superstar!

By Automobilismo, Marcello Gandini, Personaggi StoriciNo Comments

Gli anni che ci avvicinano al 1968 sono pieni di fermento. In Italia il precedente decennio del boom economico ha lasciato una società rinvigorita, giovane, che vuole realizzare i propri sogni, motorizzata in massa grazie alle FIAT 600 e 500, piena di energie e di voglia di rinnovamento.

Alessandro Ciaramella

Prima della Carabo – L’evoluzione dei tempi

Nel 1966 conosce il suo apice la battaglia sportiva ingaggiata dal colosso Ford contro la Ferrari nel 1963, quando tre Ford GT-40 MK-II tagliano in parata il traguardo della 24 ore di Le Mans, prevalendo sulle mitiche Ferrari 330P/3, tutte ritirate (con tanto di esito drammatico per il vincitore morale della gara, nonché sviluppatore della Shelby-Ford GT-40 mk2, Ken Miles, ma questa è un’altra storia!).

All’epoca, questo tipo di gare era più seguito e importante della Formula 1, e l’evento fu di eccezionale rilevanza.

Nel 1966 un certo Marcello Gandini, 28enne designer di recente assunto presso la Carrozzeria Bertone di Torino, protagonista di questa storia (e di molte altre), nel tempo di tre mesi, a partire dal disegno al prototipo funzionante, crea la Lamborghini Miura.

carabo

1966 – Lamborghini Miura

Quest’auto (la cui vicenda si intreccia in certo senso con quella delle Ford GT-40 di cui abbiamo detto prima) genera un clamore enorme all’epoca, ed è ancora oggi considerata una delle vetture più belle ed eleganti mai realizzate. Marcello Gandini, con la tipica incontentabilità dell’artista creativo, in un’intervista rilasciata qualche anno fa, non ha peraltro mancato di trovarle (incredibilmente) diversi difetti e cose che avrebbe voluto realizzare diversamente.

Non gli era mai andata giù l’insufficiente larghezza del corpo vettura e i primi pneumatici montati, troppo stretti (che all’epoca erano, infatti, gli unici disponibili).

Il 1967 porta in Italia la legge sul divorzio, la riforma dell’università e l’inizio delle proteste giovanili. Le minigonne si accorciano sempre di più. La fantascienza rinasce, il design si rivoluziona. Nella cinematografia sono in rampa di lancio film come “Il pianeta delle scimmie” e “2001: odissea nello spazio”. Cambieranno il modo di pensare il futuro. Visivamente, la fantascienza influenzerà il design, la moda e da essi sarà influenzata a sua volta.

E’ in quest’anno che l’Alfa Romeo inizia la produzione di un’auto da competizione con l’intento di riportarsi ai gloriosi tempi della Formula 1, lasciata da vincitrice all’inizio degli anni ‘50. E nasce, in effetti un’auto che riscuoterà, nel tempo, un gran numero di successi sportivi: l’Alfa Romeo Tipo 105.33, conosciuta come Alfa 33. Ne viene lanciata anche una versione stradale (soli 18 esemplari, una tra le più rare auto al mondo), disegnata da Franco Scaglione.

Su questa base molti saranno i prototipi realizzati dai più grandi designer negli anni immediatamente successivi, tutti passi fondamentali sulla via delle attuali auto sportive. E’ questo il DNA che darà i natali alla ventura Carabo.

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1967 – Alfa 33 Stradale

Per l’Expo del 1967 in Canada, in occasione del centenario della nazione, Alfa Romeo incarica Bertone di realizzare un’auto celebrativa. Nasce così il prototipo Alfa Montreal, sempre su disegno di Gandini. Le linee della Miura evolvono, si fanno più pulite e meno sinuose.

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1967 – Alfa Romeo Montreal prototipo

Lo stesso Gandini chiarisce che chi crea un’auto non è dissimile da un pittore. Ha certo un suo stile, ma ogni volta ha voglia di creare qualcosa di nuovo e di diverso rispetto al proprio lavoro precedente. E le successive creazioni dimostreranno con forza questa sua convinzione.

Sempre nel 1967 Gandini cura il prototipo Marzal per Lamborghini, studio di auto sportiva a quattro posti in cui lascia definitivamente le linee della celebre Miura per sposare un look ben più visionario. E già sembra di trovarsi in un altro mondo.

Le superfici vetrate si fanno meno consuete, i piani taglienti e dritti, e appaiono linee poligonali e trame esagonali. Il cockpit sembra quello di un caccia stellare. All’interno pelle blu per il cruscotto e argentata per i sedili esagonali, pulsanti e luci rosse e arancioni caratterizzano il disegno dei rivoluzionari interni.

Quest’auto genererà poi la celebre Lamborghini Espada, prima sportiva con quattro posti veri. E’ un piccolo ma deciso passo avanti verso una nuova era del disegno automobilistico, un grande passo verso la Carabo.

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1967 – Lamborghini Marzal prototipo

I cambiamenti sociali e culturali del 1968 sono argomento ben noto e ampiamente discusso.

Dall’altro lato dell’oceano, nel 1968 viene prodotta l’americana Mustang che rivaleggerà, sia sui mercati che al cinema, con un’altra auto del pari mitica, la Dodge Charger.

Nel celebre film “Bullit”, con Steve McQueen, le due auto sono protagoniste di un rocambolesco inseguimento. In quell’anno esce però anche un altro film, destinato a diventare una pietra miliare della cinematografia: “2001 Odissea nello spazio”.

La visionarietà dell’opera rompe definitivamente con la cultura visiva del passato ed è il manifesto delle nuove idee di design futuristico. La fantascienza, nella sua parte grafica ed immaginifica, vira decisamente verso forme pulite, piani inclinati dai colori forti e contrastati.

Trame esagonali, grigliati strutturali realizzati in nuovi materiali e l’illuminazione portata in forma di lame di luce o piccolissimi spot presenti ovunque diventano il simbolo della modernità che sta per irrompere nel mondo.

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Da “2001: Odissea nello spazio”

In Italia, forse, pochi sanno che la NSU vince il premio di Auto dell’anno con la Ro 80, auto a motore rotativo Wankel (che tempi, che sperimentazione!), a Le Mans vince ancora la Ford GT-40 (prima di lasciare lo scettro agli anni del dominio Porsche), ma le Alfa Romeo Tipo 33/2 si piazzano nelle posizioni assolute 4a, 5a e 6a, vincendo la propria categoria e proseguendo la propria marcia trionfale in diversi tipi di competizione.

Arriva la Carabo

Il salone di Parigi del 1968 si avvicina. L’Alfa Romeo intende presentare un prototipo da esporre e chiama di nuovo Bertone per realizzarlo. Mancano solo 10 settimane all’evento e non lo si può perdere.

A quei tempi, i saloni internazionali dell’automobile erano le sole occasioni per esporre i nuovi concetti, i nuovi modelli di serie da promuovere e far parlare di se’ con avveniristici prototipi. Tutta la stampa specialistica presente, tutte le personalità più importanti del settore si potevano incontrare quasi solo in quelle occasioni ed era necessario essere presenti con novità e prototipi che aprissero la pista alle future realizzazioni.

E Bertone incarica ancora il geniale Gandini, appena 30enne, evidentemente sapendo di poter contare su un uomo in grado di scattare, come le vetture che sognava, a velocità massima in pochissimo tempo.

In questo contesto di fermento intellettuale rivoluzionario, Gandini riceve la base di una delle pochissime Alfa Tipo 33 stradale esistenti, telaio numero 75033.109. Dei pochi telai disponibili, due erano andati a Pininfarina (che ne realizzò i concept Cuneo e 33.2), uno a Italdesign di Giorgetto Giugiaro (che ne farà l’Alfa Romeo Iguana) e due a Bertone, su uno dei quali due Gandini disegnerà proprio la Carabo.

Il Telaio ad H asimmetrica dell’Alfa 33 era stato progettato, con tecnologie di derivazione aeronautica, da un uomo il cui nome gli appassionati Alfa portano nel proprio cuore: Giuseppe Busso. Composto da tre grandi tubi di alluminio che ospitavano al proprio interno i serbatoi del carburante, il telaio principale supportava due fusioni in magnesio atte a sostenere il motore e il gruppo trasmissione, e le sospensioni.

Con un passo cortissimo di 2.350 mm, il telaio di soli 48 Kg, tutta l’auto completa arrivava a pesare appena 700 Kg, una vera belva da pista. Per rendersi conto, la piccola placida utilitaria FIAT 500 dell’epoca, un’auto che tutti consideriamo molto leggera, pesava 550 Kg, cioè solo 150 in meno dell’Alfa, e aveva 13,5 Cv contro i ben 230 della versione stradale della 33.

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1967 – Telaio ad “H” dell’Alfa Romeo tipo 33

Il motore era un vero gioiello, il V8 da 1995 cc a 90 gradi, doppio albero a camme in testa, interamente in alluminio, progettato sempre dal geniale Busso, e in seguito affidato all’ingegner Carlo Chiti di Autodelta, che era il reparto corse dell’Alfa Romeo. Capace di 270 Cv a 8.800 giri (230 in configurazione stradale), abbinato a un cambio a sei marce a schema transaxle, era capace di spingere l’Alfa 33 fino a toccare i 270 Km/h e scattare da 0 a 100 Km/h in circa 5 secondi.

Si trattava, in sostanza, di una specie di Formula Uno dotata di una entusiasmante carrozzeria (dopotutto era un’auto omologata a partire dalla versione corsa), e infatti il prezzo era altrettanto stratosferico: circa 10 milioni di lire di allora. Nel 1968 una Ferrari Dino 206 GT costava meno di cinque milioni, la famosa Miura circa sette milioni, una Rolls Royce quasi 15, e la FIAT 500, di cui abbiamo detto prima, circa 500.000 Lire.

Questo è il cuore pulsante e la poderosa ossatura che Gandini riceve nelle proprie mani, sulla quale calerà un’estetica altrettanto visionaria. Nasce la Carabo.

Al Salone di Parigi è già famosa prima ancora che la manifestazione inizi.

Il giorno giunge, i battenti si aprono, è il 10 ottobre del 1968. A pochi minuti dell’apertura del Salone la Carabo è già attorniata da giornalisti e visitatori dall’aria sbalordita. Tutti si affollano attorno all’astronave appena atterrata.

Il colore è un verde sfavillante, la verniciatura luminosa ed iridescente è ripresa dai colori del coleottero Carabus Auratus, verde con sfumature dorate e arancioni, che dà il nome anche alla stessa vettura. La Carabo, appunto.

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Carabus Auratus

A stupire, ancor più che le prestazioni dichiarate (250 km/h e 6,5” per passare da 0 a 100 km/h), sono le dimensioni, le forme che tolgono il fiato. Lunga 417 cm e larga 178, la Carabo è alta soltanto 99 cm, 6 in meno della Miura che già sembrava bassissima.

Gandini è riuscito infine ad avere la vettura più larga e più bassa di quanto gli avessero lasciato fare con la Miura le limitazioni di produzione e i costi.

Due anni dopo, osando ancor di più lungo questa strada, realizzerà la Lancia Stratos Zero, ancora più estrema.

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1968 – Alfa Romeo Carabo, vista laterale (Museo Alfa Romeo)

Il profilo è un rivoluzionario monovolume a cuneo, l’aerodinamica diviene sempre più sofisticata nel solco delle prime Berlinette Aerodinamiche, le BAT Alfa Romeo di venti anni prima.

Il frontale è basso e affilato, volto a mitigare i problemi di deportanza che affliggevano l’avantreno delle Miura oltre certe velocità, sollevandone il muso. La linea scorre veloce e continua, ininterrotta e penetrante, dal musetto appuntito fino all’ampio parabrezza e al possente posteriore.

Le gomme sono finalmente come Gandini le avrebbe desiderate sin dall’inizio anche sulla Miura, larghe, possenti, che donano un aspetto molto aggressivo alla vettura identificandola ancor di più con le vetture da gara, di cui possiede inequivocabilmente il DNA.

Le portiere sono esagonali, con una inconsueta apertura a forbice. Incernierate sulla parte anteriore, si sollevano grazie a un sofisticato sistema di pistoni a gas.

Ricordano forse, in qualche modo, il coleottero nell’atto di spiegare le ali, pronto al formidabile volo.

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Alfa Romeo Carabo, apertura delle portiere

Gandini dichiarerà che non avrebbe mai pensato che tale soluzione avrebbe riscosso successo, e invece fu tanto apprezzata da essere riproposta su diversi altri modelli seguenti, anche di sua stessa concezione. Le prese d’aria del motore, elegantemente accennate in una sorta di branchia dietro ai finestrini, nutrono il possente V8 posto in posizione posteriore-centrale longitudinale.

La linea a cuneo procede senza quasi abbassarsi, decisa, verso il posteriore, tagliato di netto. Dopo il grande cofano motore coperto da un grigliato nero, aperto per l’evacuazione dell’aria calda del motore, il volume si chiude con lo specchio posteriore esagonale dal disegno molto curato.

Qui un grigliato scuro, esaltato dal contrasto col verde brillante, nasconde e mimetizza le luci posteriori, che sono visibili solo quando si accendono. Ricordano le griglie luminose dei computer della fantascienza, donando all’auto un aspetto iconico inconfondibile anche nei dettagli.

Lo spoiler a coda d’anatra integrato nel disegno della parte posteriore dell’auto domina il posteriore e lo conclude in alto, mentre in basso fuoriescono i quattro tubi cromati esternamente e rossi all’interno, a indicare la presenza delle due bancate del V8.

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Lo specchio posteriore della Carabo e l’interno del celebre HAL 9000

Come nelle più recenti tendenze di progettazione sportiva, l’abitacolo è spostato in avanti, e la linea del parabrezza è integrata con quella del muso, che va accorciandosi e abbassandosi sempre più, a differenza dei modelli del passato, aumentando aerodinamicamente la deportanza, il peso sull’anteriore e quindi la precisione di guida.

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Il muso della Carabo e la navicella Icarus del “Pianeta delle scimmie”

La parte centrale e posteriore dell’auto vede la predominanza della copertura del motore, al centro dell’auto sia fisicamente che metaforicamente.

I proiettori frontali sono dissimulati, come sulla Montreal, da lamelle orientabili, ma stavolta sono del tutto nascosti alla vista. Altre appendici mobili completano l’affascinante aspetto moderno della berlinetta.

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Carabo, i fari anteriori accesi

Il radiatore, posto sotto al cofano anteriore, emette l’aria esausta attraverso altre appendici alari integrate nel disegno del frontale. Le lamelle inferiori di colore scuro ricordano forse i segmenti dello scarabeo che le dona il nome.

Tutto è visionario, tutto è senza limiti di immaginazione.

Il colore audace apre la pista alle colorazioni più esotiche e nuove, che si vedranno negli anni a venire, sulle auto sportive e poi anche su quelle di serie. I cristalli sono dorati a specchio come le visiere dei caschi degli astronauti o i finestrini delle navicelle spaziali che dominano la fantasia dei più giovani.

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Questa disposizione volumetrica darà origine e si ritroverà in tutte le auto sportive che sono venute poi nel 20esimo secolo, sino ancora ad oggi nel 21esimo.

Gli interni rigorosi ricordano le geometriche cabine di pilotaggio delle navicelle stellari dell’epoca, il volante è conico ed essenziale, le forme astratte e squadrate.

Lo stesso logo richiama, quasi scherzosamente, la forma dell’auto con la lettera “A”, di forma esagonale, che ne simula l’inconfondibile sportello in posizione aperta.

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Il logo della Carabo sullo specchio posteriore

Il successo della Carabo è di livello mondiale, e la sua silhouette non solo fa il giro delle riviste del settore, bensì irrompe anche sulla stampa non specializzata.

Vi è unanime approvazione non soltanto per lo studio avveniristico del design, ma anche per l’impiego dei nuovi materiali e per le soluzioni tecniche d’avanguardia introdotte.

Dopo la Carabo, e la gloriosa progenie della Carabo

Celebrata nel corso del tempo, restaurata di recente, è stata esposta nel mondo nelle mostre di eleganza e ultimamente ha illuminato, con i suoi colori inconfondibili, le serate milanesi nell’occasione della Settimana del Design, nell’aprile del 2023. E’ attualmente conservata nel museo Alfa Romeo di Arese.

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2023 – la Carabo esposta a Milano

La Carabo si è posta come una pietra miliare del design automobilistico. Uno spartiacque, dopo cui nulla è stato come prima.

Oltre a influenzare quasi ogni altra vettura sportiva successiva sino ancora ad oggi in quanto a design generale, disposizione delle parti e dei volumi, la Carabo ha avuto una discendenza diretta a dir poco eccellente.

Due anni dopo, dalla stessa geniale matita nascerà la Lancia Stratos Zero, una scultura in movimento (come la definì lo stesso Gandini) la quale a sua volta genererà la Lancia Stratos, regina dei rally nel decennio dei ’70. E, poco dopo, farà la sua comparsa una certa Lamborghini Countach… ma questa è un’altra storia!

CLICCA PLAY PER GUARDARE LA CLIP DEL FILMATO ORIGINALE BERTONE CON LA PANORAMICA DELLA CARABO

Ringraziamenti

Un caloroso Benvenuto al nostro nuovo collaboratore Alessandro Ciaramella e un grazie di cuore per la passione e la meticolosità messe nella stesura dell’articolo e nelle ricerche ad esso correlate.

Un enorme ed eterno ringraziamento va al grande genio di Marcello Gandini, signore che con rare oggettività e umiltà ha insegnato al mondo come si disegnano e realizzano i sogni.

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epiphone de luxe

Epiphone De Luxe

By Chitarre Vintage USAOne Comment

E' un piacere avere ospiti Gianmaria Assandri e questa storica Epiphone De Luxe che si trova in vendita presso la sua liuteria.

Lorenzo

La Epiphone vide i suoi inizi nel 1873, a Smirne nell’allora Impero Ottomano (ora Turchia), dove il fondatore greco Anastasios Stathopoulos costruiva i suoi violini e liuti.

Agli inizi del novecento Stathopoulos si trasferì a New York nel Queens e dal 1908 continuò a produrre i suoi strumenti aggiungendo anche i mandolini.

Anastasios morì nel 1915 e gli subentrò il figlio Epaminondas detto “Epi”.

Nel 1917 l’azienda divenne nota come “The House of Stathopoulo“e immediatamente dopo la prima guerra mondiale, l’azienda iniziò a produrre banjo.

Quattro anni dopo la ditta assunse il nome di “Epiphone Banjo Company” (una combinazione del proprio soprannome “Epi” e del suffisso “-phone” dal greco phon-, “voce”), iniziando la produzione delle sue prime chitarre, tra cui la Epiphone De Luxe.

Epi morì nel 1943 e l’azienda passò ai suoi fratelli, Orphie e Frixo, che la portarono avanti fino al 1957, anno in cui la cedettero alla Gibson la quale ne trasferì la sede nella propria fabbrica di Kalamazoo, nel Michigan.

Da allora, il marchio è stato utilizzato per svariate serie di chitarre, alcune prodotte dalla stessa Gibson nei propri stabilimenti e altre appaltate ad altre società prima americane e poi estere come Matsumoku e Terada in Giappone e poi Samick e Peerless in Corea per poi proseguire in Cina fino ad oggi.

Qua però ci troviamo davanti ad uno splendido e raro esemplare della casa originale, di quelli prodotti sotto la guida di Epi stesso e Gianmaria ce lo descrive:

“Si tratta di una Epiphone Deluxe costruita a New York tra il 1938 e il 1940, come si può rilevare dal cartiglio applicato internamente. Lo strumento fu comprato intorno alla metà del secolo scorso dal padre dell’ attuale proprietario, che l’ha suonata professionalmente tutta la vita.

Abbandonata e dimenticata ha subito le ovvie ingiurie del tempo finchè il proprietario me l’ha affidata per il restauro.

Attualmente è in condizioni ottimali, completa di tutte le sue parti originali ed è stata provvista di un pickup del tutto identico a quello che probabilmente montava in origine.

Il proprietario vuole la messa in vendita al miglior offerente. Chi fosse interessato può rivolgersi alla Liuteria Assandri, che fa da tramite con l’interessato.

Per qualsiasi chiarimento contattatemi al mio indirizzo email.”

galanti solid body

Galanti Solid Body

By Chitarre Vintage ItalianeNo Comments

Ospite di questo articolo di Classic2vintage è una splendida e piuttosto rara Galanti delle serie Solid Body a 4 pick-up, una chitarrina che riserva belle sorprese.

Lorenzo

La Galanti era sita in Romagna a Mondaino, pochi chilometri da Recanati e dall’Adriatico.

Il marchio Galanti è legato alle fisarmoniche di alta qualità e vide i suoi natali nel 1924 quando tre dei figli del capostipite Antonio, ex giostraio, abile artigiano innamorato della musica nonché vero iniziatore della ditta e costruttore delle prime fisarmoniche, fondarono la Fratelli Galanti e, trasferendosi negli Usa, iniziarono l’esportazione e vendita dei prodotti della ditta.

Dopo la guerra, a causa di disaccordi in seno alla famiglia, la ditta si divise in due rami che presero strade diverse, una si convertì all’elettronica e tastiere (vedi i primi amplificatori della Eko e l’organo Ekosonic) e l’altra, guidata dal figlio minore Angelo, continuò con la produzione delle fisarmoniche a cui si aggiunsero i vibrafoni e le chitarre.

La progettazione delle chitarre inziò circa nella seconda metà del 1962, avvalendosi del talentuoso artigiano Francesco Maioli che precedentemente aveva già stupito la direzione grazie alla perizia nella costruzione dei cabinet delle fisarmoniche e diventò il responsabile del reparto chitarre.

In 5 anni vennero fabbricate circa 16.000 chitarre (1962/67) tra cui anche pochissime vendute sotto altri marchi come Jetstar, Continental e Tonemaster. Nel 1967 fu invece fatta una produzione più consistente per il marchio Goya con il nome Panther dopodiché nel 1968, alla morte prematura di Angelo, la ditta chiuse.

Escludendo i pickup, (acquistati nella vicina Castelfidardo da Nando Marchetti) e le chiavette dell’olandese Van Gent, ogni altra parte delle chitarre era prodotta internamente agli stabilimenti Galanti, compresi ponte e vibrato.

Una particolarità delle chitarre chitarre Galanti è il truss rod del manico che può essere regolato sia dalla paletta che dal tacco del manico, una caratteristica in comune con gli strumenti di Bartolini.

Oltre alle belle semiacustiche, la chitarra solid body Galanti di maggior produzione e più conosciuta è senz’altro il modello universalmente conosciuto come Grand Prix, una bella offset in versione 6 e 12 corde dal nome forse derivante dalla premiazione a qualche fiera internazionale o dalle organizzazioni di settore.

I corpi erano rivestiti da due gusci di una sorta di impiallacciatura o materiale plastico a imitazione del legno e le due parti erano giunte da una decorazione a fascia bianca che correva lungo il bordo del corpo.

Poi vengono i più rari modelli definiti Solid Body, dei quali fa parte la simil-strat qua presente che è del nostro amico e affiliato Renato Cavallaro, proprietario di una sostanziosa collezione di famiglia tra cui la Wandre Blue Jeans vista in un precedente articolo:

“Ad un certo punto mi sono ritrovato con un parco chitarre di 136 pezzi più svariati amplificatori, tutto degli anni 50/60/70 e quasi tutte ereditate da uno zio paterno che non essendosi sposato aveva la passione per le chitarre, roba da fare invidia ad un negozio di strumenti musicali.

Avendo un figlio musicista che ama molto gli ampli vintage ma non le chitarre, ho preso la decisione di venderle conservandone giusto alcune, tra cui questa.

Delle Galanti ho preferito vendere la Grand Prix e tenermi la Solid Body perché mi è sempre piaciuto quel suo suono diverso e graffiante, diverso anche dalla sorella Grand Prix.

Gli amici quando vengono a trovarmi chiedono sempre di provarla perché ne sono innamorati, di suo sound così particolare che dicono li porta indietro nel tempo, cosa che condivido in pieno.

Quando ti metti in mano una chitarra vintage ne senti il profumo, ne osservi attentamente la fattura, fai confronti con quelle di oggi e magari ne scopri le differenze, ma il fascino è l’eleganza di quel periodo nessuna di quelle moderne te lo darà mai.”

...MA COME SUONA?

Guarda e ascolta questa Galanti Solid Body

Guarda e ascolta una Galanti Gran Prix della collezione Drowning in Guitars